Il Vangelo della carità sorgente, anima e scopo delle nostre opere

ROMA, sabato, 17 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 14 ottobre scorso da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del Convegno ad Assisi sul tema “Il Vangelo nelle opere di carità e nelle attività sociali dei religiosi in Italia”, promosso da Cism (Conferenza Italiana Superiori Maggiori), Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia), e Firas (Federazione Italiana Religiosi per l’Assistenza Sociale)

 

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La carità nel sabato del tempo: introduzione

La situazione dei Consacrati alle prese delle loro opere di carità appare oggi spesso segnata dalla crisi: se alcuni sembrano impegnati nella ricerca affannosa di “vie d’uscita” alla tante situazioni di disagio economico e amministrativo, avvertendo la fatica di coniugare questa condizione con la testimonianza del proprio carisma, altri si chiedono come essere annunciatori della “gratuità” della carità evangelica, quando si è avviluppati dalla ragnatela degli standards economico-legislativi. Comune è il bisogno di un colpo d’ala, di un rinnovamento che faccia scorrere nelle strutture e nelle opere la linfa viva della carità. Anche in questo campo è giusto ritenere che il rinnovamento della vita ecclesiale – come scriveva da giovane professore il futuro Papa Benedetto XVI – “non consiste in una quantità di esercizi ed istituzioni esteriori, ma nell’appartenere unicamente ed interamente a Gesù Cristo… Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella semplicità vera …che è eco della semplicità del Dio uno”1. La semplicità divina è la carità, l’amore del Dio tre volte santo. L’autentica riforma della Chiesa passa allora anche nel campo delle sue opere sociali attraverso la via dell’amore: chi intende operare per il rinnovamento delle attività ecclesiali di servizio dovrà anzitutto tornare al primato dell’amore, pronto a vivere un nuovo “esodo da sé senza ritorno” (Emanuel Lévinas) sulla strada esigente e coraggiosa della carità.

Sorgente viva di questa carità è Gesù, il Cristo. Nella Sua prima Enciclica, la Deus caritas est (2005), Benedetto XVI sintetizza così questa convinzione centrale: “Abbiamo creduto all’amore di Dio – così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). Gesù Cristo è “l’amore incarnato di Dio” (nn.12-15): a Lui occorre tornare per essere rigenerati nel dono della carità per gli uomini. La carità nasce dall’incontro d’amore col Cristo e vive di questo incontro sempre nuovo. Una simile, totale derivazione della carità della Chiesa dall’amore del Signore Gesù è stata espressa dai Padri con un’immagine fortemente evocativa: quella dell’Ecclesia luna2. La Chiesa è paragonata alla luna perché nella notte del mondo non risplende di luce propria, ma della luce che le è donata da Cristo, il solo sole della sua vita: “Questa è la vera luna. Dall’intramontabile luce dell’astro fraterno ottiene la luce dell’immortalità e della grazia. Infatti la Chiesa non rifulge di luce propria, ma della luce di Cristo”3. La Chiesa riflette la luce del suo Sole per illuminare le notti delle solitudini del mondo, del dolore umano, di tutti i bisogni che appellano alla cura e all’impegno dell’altro. Come luna crescente la Chiesa annuncia la Parola di Dio; come luna piena celebra i divini misteri; come luna calante vive le opere della carità, “perdendosi” nella notte del mondo, dopo averla illuminata con i raggi del sole che l’hanno baciata. La Chiesa non deve cercare trionfi agli occhi del mondo, ma piuttosto – dimentica di sé – deve proiettarsi verso l’altro, soprattutto il povero, nell’esercizio della carità, sentendo che la sua gioia (come quella del vecchio Simeone) è di segnalare l’avvento di Colui che è la luce delle genti, di donarlo al mondo e di scomparire nella notte. Un innamorato della Chiesa, San Cirillo d’Alessandria, non esitava perciò a dire: “Intoniamo il canto di lode per la morte della Chiesa, morte che ci riconduce alla sorgente della vita santa in Cristo”4. Quando la Chiesa morirà, verrà il Regno, di cui la Chiesa è il germe e il segno. Ma la Chiesa può morire in un solo modo, quella che la rende vicina alla sorte del suo Signore: non risparmiandosi nella carità, facendo la scelta preferenziale dei poveri.

Rapita dall’amore delle cose celesti, la Chiesa è fatta per vivere questo amore nel lungo intervallo che sta tra la Croce di Cristo e il tempo della gloria, quando il Risorto tornerà circondato dagli angeli e dai santi. Quest’arco temporale può essere evocato nell’immagine del sabato santo, tempo del desiderio e del ricordo, tempo della memoria, della speranza e dell’attesa, ora preziosa della fede custodita da Maria e della carità da Lei vissuta nella compassione, ma anche tempo dell’oscurità e della prova dei discepoli, segnati dalla fatica del vivere e del morire. La Chiesa dell’amore vive la sua carità nel sabato del tempo, frammista alle opere e ai giorni degli uomini: il suo programma non potrà mai essere quello di una fuga mundi, di una ricerca di Dio in extremis, ma dovrà costruirsi nell’obbedienza alla Parola della vita sempre e totalmente nella storia, nel mezzo del villaggio, dove c’è il silenzio delle lacrime, il chiasso del mercato, la festa della lode e la pesante durezza della bestemmia. Il discepolo di Gesù è colui che ha tempo per gli altri, come il suo Dio che ha avuto tempo per lui: vive, cioè, la carità nel sabato del tempo, nella sequela dell’Amato di fronte alle sfide sempre nuove della storia.

Tutto questo non è scontato, deve anzi essere sempre di nuovo motivato, attraversando a volte passaggi epocali, vivendo conversioni di mentalità e di stili radicati: e questo risulta necessario soprattutto nelle comunità religiose, spesso tentate dalla conservazione tranquillizzante, sebbene per vocazione chiamate alla riforma coraggiosa e continua, in obbedienza alle esigenze del Vangelo e ai segni dei tempi. Ecco perché occorre motivare l’impegno sociale come forma autentica di fedeltà al Dio, cui si è consacrata la propria vita. Perché servire l’uomo nella carità è servire Dio? Perché la sequela di Gesù non porta il discepolo alla “fuga mundi”, ma lo stimola all’impegno al servizio della promozione di tutto l’uomo in ogni uomo? Rispondere a questi interrogativi richiede una riflessione sulla maniera in cui va concepito e vissuto il rapporto fra la carità evangelica e l’impegno storico, e più in generale fra la Chiesa e il mondo. Ecco perché vorrei riflettere sul Vangelo della carità quale sorgente, anima e scopo delle opere della comunità cristiana, attraverso una rilettura evocativa della Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes e alla luce dell’Enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI: se la Costituzione conciliare è come un testo fondante del rapporto fra Chiesa e mondo, l’Enciclica mette a fuoco l’anima profonda di questo stile di vita e di impegno. “Il programma del cristiano – afferma il Papa -, è ‘un cuore che vede’. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente” (n. 31).

Proverò a rispondere allora a tre domande, per costruire come tre archi di un ponte che colleghi la riflessione e la vita intorno al Vangelo della carità e alle sue forme. La prima domanda è perché la carità vada vissuta nel sabato del tempo, e cioè “nella” storia, “nel” mondo, ovvero perché l’impegno sociale – con le opere che esso comporta – possa e debba essere vissuto come forma autentica di consacrazione a Dio e di amore al prossimo in Lui. La risposta va cercata nel mostrare come il mondo non sia semplicemente destinatario dell’annuncio, ma anche luogo del Vangelo, luogo della presenza di Dio, santuario dell’adorazione, dove Lui si nasconde e vuole essere amato nei segni della storia. Nel secondo momento vorrei rispondere alla domanda: come abitare da discepoli di Cristo in questo sabato del tempo, e cioè quale deve essere
lo stile proprio della carità del credente e delle opere in cui essa si esprime, specialmente di quelle che impegnano la realizzazione di un carisma di consacrazione religiosa nella Chiesa. Vedremo in questo secondo momento come questo stile consista principalmente nel coraggio del discernimento spirituale e pastorale, continuo e fedele, necessario per liberarsi da ogni sclerotizzazione del carisma e dello slancio per realizzarlo. Infine, nella terza parte, vorrei rispondere alla domanda su quale forma di carità vada privilegiata per mettersi al servizio di un mondo nuovo nel sabato del tempo e vivere la condizione di consacrati che, attraverso le loro opere, vorrebbero suscitare il superamento delle solitudini nelle quali spesso gli uomini si trovano e aiutare a vivere l’incontro vivificante con Cristo e il suo amore che salva. Proverò a tracciare la proposta di una carità umile, discreta e bella, rivelazione e sorgente della “bellezza che salverà il mondo” (Fëdor Dostoevskji).

1. Il mondo come luogo del Vangelo: la forza di un “perché”

Per comprendere fino in fondo perché il mondo sia luogo del Vangelo e perché, di conseguenza, l’amore di Dio non possa prescindere dall’amore degli uomini, dobbiamo chiederci quale fosse l’atteggiamento dominante in un non lontano passato (e qual è forse, ancora oggi, l’atteggiamento di alcuni) nel modo di concepire il rapporto fra la Chiesa e il mondo. Per richiamare questo modo di porsi e mostrare il profondo cambiamento operato dal Concilio Vaticano II, si può ricordare la storia del titolo dello “Schema 13”, che poi divenne la costituzione pastorale Gaudium et Spes. Originariamente esso era De ecclesia et mundo huius temporis, la Chiesa e il mondo del nostro tempo. Dopo una travagliata vicenda il titolo divenne De ecclesia in mundo huius temporis, la Chiesa nel mondo contemporaneo. Questo cambiamento fu la cifra di una radicale conversione teologica e pastorale: la Chiesa non veniva più vista come la “dirimpettaia” del mondo, ma come un popolo mescolato al mondo, lievito nella pasta. La Chiesa veniva così ad identificarsi in qualche modo con la città terrena, pur restando altra da essa: non si chiamava fuori dal tempo e dalla storia, riconosceva anzi la sua vocazione e missione innanzitutto in una solidarietà profonda, perfino in una “scandalosa” compromissione con la complessità del tempo presente, vivendo però tutto questo in obbedienza al Cristo, suo unico Signore.

Secondo l’atteggiamento espresso nel titolo De ecclesia et mundo, il mondo è soprattutto la domanda, la Chiesa è la risposta. In questa concezione del rapporto fra Chiesa e mondo la Chiesa è testimone esclusiva della verità, di cui dispone come del suo tesoro, della sua eredità. E questa verità in sé, che viene dall’alto, donata dal Signore, la Chiesa deve custodirla e annunciarla destinandola a un mondo senza verità, che non conosce la bellezza di Dio. Di conseguenza, l’atteggiamento del credente verso il mondo è unidirezionale: ricevendo tutto da Dio, egli prosegue nel tempo il movimento “kénotico” (cf. Fil 2,6ss) dell’Eterno, la discesa del dono dall’alto per portarlo fin nelle pieghe più recondite della storia. Si tratta di un atteggiamento nobile, che ha motivato la passione del Vangelo in tantissimi santi ed è all’origine del grande impulso missionario dell’epoca moderna: un atteggiamento che spesso ha ispirato i fondatori di grandi famiglie religiose e delle opere sociali e missionarie da esse compiute.

C’è, tuttavia, un elemento che ci rende pensosi di fronte a questa impostazione. Lo esprimo con le parole di Walter Kasper: “La realtà di un mondo senza Dio, di fronte alla quale ci troviamo, è in parte solo la reazione ad un Dio senza mondo”5. Una Chiesa che proclama la verità in sé, che viene dall’alto e deve essere unicamente passata al mondo, rischia di risultare del tutto estranea e indifferente al mondo. È la Chiesa casta meretrix, secondo la formula di sant’Ambrogio6: la Chiesa santa, che, poiché deve dare la sua santità ai peccatori, in qualche modo si contamina avvicinandosi ad essi. È il commercium del dono della santità al mondo, che in quanto puro e semplice destinatario di essa è solo tenebra e peccato. Con la Gaudium et Spes il modo di porsi verso il mondo cambia profondamente: la Chiesa riconosce di essere l’amata, il luogo della verità di Dio, ma insieme scopre che la verità di Dio non abita esclusivamente in lei. La Chiesa contempla la verità, più grande del suo cuore, e, riconoscendo la sua piccolezza davanti ad essa (si pensi alla formula audace della Dei Verbum, n. 8: “la Chiesa tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio”), si apre alla possibilità che il mondo stesso possa essere luogo della verità, che ci siano semi di verità in esso, presenze della gloria di Dio nascoste nei frammenti della storia. Questa constatazione cambia profondamente il modo di guardare il mondo da parte del credente. La Chiesa non è più semplicemente la padrona del vero, che si rivolge alla massa dannata da illuminare e salvare; mentre vive l’obbedienza della fede al Vangelo in cui ha creduto, la comunità credente sente il bisogno di scoprire nelle pieghe della storia la presenza di Dio, e si pone perciò verso il mondo in un atteggiamento di dialogo, di attenzione, di ascolto, senza peraltro rinunciare alla proclamazione della buona novella.

Su questi temi si è a lungo dibattuto e cercato, prima, durante e dopo il Concilio. Che cos’erano i conflitti intraecclesiali della Chiesa all’inizio degli anni Ottanta (come, ad esempio, la polemica fra i cristiani “della presenza” e i cristiani “della mediazione”) se non un ripresa della questione che ho cercato di evocare? Questo dovrebbe però farci capire che non stiamo parlando di altri: “de re nostra agitur”! Qui si decide il destino del nostro modo di essere Chiesa, lo stile della nostra presenza, la passione più profonda del nostro vivere l’annuncio evangelico. Se questo è vero, dobbiamo chiederci per quali ragioni teologiche possiamo e dobbiamo dire che la verità di Dio va riconosciuta nella fatica e nella complessità della storia e che l’amore a Lui è inseparabile dal dono di sé agli altri anche attraverso le opere sociali che la fede sa esprimere. La Costituzione Gaudium et Spes offre tre prospettive di soluzione alla questione. La prima è la motivazione teologica: “Dio vide che ciò era buono” (tov: Gen 1, passim). La bellezza di Dio ha baciato tutte le cose, e dunque in tutto ciò che esiste è presente un segno della divina bellezza, per il semplice fatto di esistere. Ignazio di Loyola mostra questa verità nella sua Contemplazione per ottenere l’amore7: quando Dio crea il mondo, lo crea per amore. Tutto ciò che esiste, esiste per amore. L’essere porta in sé l’impronta dell’amore eterno. Dio ama tutti gli esseri e per Ignazio la conseguenza profonda di questo “essere come amore” è che ogni cosa merita la reverencia, non solo l’essere umano, ma ogni creatura. In tutto ciò che esiste c’è l’amore creatore che lo fa esistere. Dunque, rispettare la creatura, riconoscerne la bellezza, anche sfigurata dal male, vuol dire amare e lodare Colui che è la sorgente di ogni dono perfetto. Sta qui la motivazione teologica “pura”, che porta a riconoscere nel mondo il luogo della grazia, e a vivere perciò nell’amore alle creature l’amore al Creatore: impegnarsi per un mondo migliore è impegnarsi per Dio; servire la causa della promozione umana è rendere gloria all’Eterno. È la tesi della prima parte della Deus caritas est, dedicata a presentare l’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza.

La seconda motivazione presente nella Gaudium et Spes e fortemente ripr
esa dalla Deus caritas est è di tipo cristologico: tutto è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di Lui (cf. l’inno di Col 1,15-16). Da qui derivano due grandi conseguenze: c’è una dimensione cristica della creazione e c’è una dimensione cosmica dell’incarnazione. La dimensione cristica della creazione indica che ogni cosa è destinata al Cristo, porta in sé la vocazione alla Sua luce. La dimensione cosmica dell’incarnazione, invece, ci fa vedere come, facendosi uomo, Cristo abbia assunto la natura umana, per cui tutto in qualche modo è portato in Lui. In ogni cosa il credente può riconoscere il suo Signore amato: “mihi vivere, Christus est” (Fil 1,21). Cristo è in ogni realtà che esiste, perché tutto ha assunto in sé. Cristo è colui che è venuto a far risplendere la luce nascosta in ogni cosa (“Io sono la luce del mondo”, Gv 8,12), a farci riconoscere in tutto ciò che esiste l’originario splendore, come avviene sul Tabor. Seguire Gesù con cuore indiviso vuol dire allora offrire la propria vita, perché in ogni situazione umana risplenda la Sua bellezza e il disegno creatore di Dio, plasmato sul Figlio eterno, venga a realizzarsi nella storia degli uomini.

La terza motivazione, presente nel Concilio a favore di un riconoscimento dell’amore al Creatore nella carità verso le creature, è quella pneumatologica: lo Spirito soffia dove vuole. Dobbiamo ascoltarne i gemiti dovunque siano presenti nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia per aprirci al dono di Dio. È la teologia dei segni dei tempi riscoperta e riproposta dal Vaticano II e di cui si innerva la seconda parte della Deus caritas est, dedicata all’esercizio concreto dell’amore da parte della Chiesa. Qui risulta particolarmente chiaro che l’atteggiamento del cristiano nel mondo non potrà essere unidirezionale, come di chi pensasse di avere tutto per dare a chi non ha niente, ma deve diventare quello di chi vive la fatica di un rapporto vivo e complesso con l’altro, riassumibile in un triplice compito: non dedurre mai la storia dal Vangelo; non ridurre mai il Vangelo alla storia; mantenere sempre in una tensione feconda il Vangelo e la storia. Non dedurre la storia dal Vangelo vuol dire non ritenere mai che di fronte ai problemi e alle sfide della carità abbiamo le soluzioni pronte, quasi che tutto sia già scritto e che da padroni della verità possiamo dispensarla come se il mondo nulla avesse da dirci o da aggiungere. Molte volte la nostra azione pastorale e le opere in cui si esprime risultano irrilevanti perché rispondiamo a domande che nessuno ci pone, o poniamo domande che non interessano nessuno. Il problema vero non è dare risposte, ma saper suscitare e riconoscere le vere domande. La carità vissuta non consiste nel trasmettere anzitutto delle risposte prefabbricate, ma nel far nascere nel cuore dell’uomo l’inquietudine delle domande che fanno crescere.

Il rischio opposto è quello di voler ridurre il Vangelo alla storia, facendo del messaggio evangelico una semplice variante della tendenza ideologica o sociologica di moda. Occorre aver chiaro che il Vangelo è irriducibile alle sole coordinate mondane. Come diceva il giovane Lutero, “vere verbum Dei, si venit, venit contra sensum et votum nostrum”, la Parola di Dio, se arriva, arriva sconvolgendo la nostra sensatezza e il nostro desiderio. Il Vangelo è un fermento critico, una riserva escatologica che inquieta il mondo. Nello Spirito occorre, allora, tener sempre viva la tensione fra Vangelo e storia per discernere i sentieri della carità che edifica e salva. Nessuna formula che sia alla base delle nostre opere può darsi per scontata. Occorre amare Dio ed essere docili al Suo Spirito, mettendosi in continuo ascolto della novità della sua voce: la frase di San Bernardo “non est status in via Dei, immo mora peccatum est”, “non si dà sosta nella via di Dio, perfino l’indugio è peccato”, vale in modo stringente per la continua riforma dell’agire di chi si consacra alla Sua causa in questo mondo nel servizio degli uomini.

Dobbiamo chiederci allora: come vivere questo coraggio della novità sempre nuova, dell’“aggiornamento” delle nostre opere in sintonia col soffio dello Spirito? Come far sì che il sale della carità di tanti consacrati e delle loro famiglie religiose non perda il suo sapore? Come aiutare quella parte dei religiosi, che stanno dirigendo istituzioni di carità già consolidate nel tempo a una nuova docilità al vento di Pentecoste, a passare dalle opere della legge a quelle della fede? Come aiutare i religiosi impegnati sulle frontiere dell’emergenza (tratta, immigrazioni, carceri, pastorale della strada) a saper “dire” ogni giorno, in modo credibile, la freschezza dell’annuncio evangelico in ciò che essi sono e fanno? Un primo orizzonte di luce ci viene da ciò che abbiamo detto: se il mondo è luogo del Vangelo, servire la promozione umana non solo non è contrario all’adorazione di Dio, ma ne è espressione autentica e necessaria. Chi si è consacrato al Signore con tutto il cuore e per tutta la vita, non troverà nelle opere al servizio degli uomini uno spazio neutro o addirittura un ostacolo a quest’unico amore, ma potrà vedervi una realizzazione dell’incontro con l’Amato, l’irradiazione di un unico amore. Questo richiede, però, che le sue opere nascano da una profonda unione con Dio, contino sull’aiuto della Sua grazia più che sui mezzi umani e non avanzino alcuna pretesa di merito: siano, insomma, opere della fede e non della legge, frutto della gratuità di un cuore che ama e non della ricerca di gratificazione di una vita povera di amore. Come assicurare che questo avvenga in noi e nelle nostre opere?

2. Il discernimento dei segni dei tempi: lo stile di un “come”

La seconda arcata del mio itinerario di riflessione riguarda la domanda su come vivere nel sabato del tempo il Vangelo della carità: alla luce delle premesse tracciate, che cosa significa coniugare operosamente il Vangelo e la storia? La risposta mi sembra vada cercata nell’esercizio del discernimento spirituale e pastorale, cioè nella capacità di leggere nella complessità delle situazioni umane i segni dei tempi. È ancora la teologia della Gaudium et Spes a venirci incontro, in modo particolare quella espressa nei numeri 4, 11 e 44, testi programmatici che impegnano la Chiesa a discernere sempre nuovamente i segni di Dio nella storia. Dice Gesù: “Quando si fa sera, voi dite: ‘Bel tempo, perché il cielo rosseggia’; e al mattino: ‘Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo’. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” (Mt 16,2s). Che cosa sono questi segni dei tempi? In generale potremmo definirli come le tracce della gloria divina nascosta sotto gli eventi e le parole della storia. Discernere i segni dei tempi vuol dire allora saper leggere nella complessità della storia la presenza del Dio vivente e del suo Spirito che ci orientano a Cristo e alla costruzione della città futura da lui iniziata e promessa. Per compiere questa lettura occorre unire tre momenti, che scandiscono lo stile del discernimento, che è poi lo stile della Chiesa nel mondo, del cristiano nel tempo, impegnato a vivere il Vangelo della carità: assumere la complessità; confrontarla con il criterio della Parola; avanzare proposte provvisorie e credibili.

Assumere la complessità vuol dire non presumere mai di avere la soluzione pronta ai problemi e alle sfide del cambiamento in atto nelle diverse situazioni in cui vivere il Vangelo della carità. Ai discepoli di Cristo e ai consacrati in particolare va raccomandato di non lasciarsi guidare in nessun caso da un’ideologia prefabbricata, che s’imponga alla storia astrattamente, fosse pure quella costruita sull’idealizzazione di un carisma. Ciò che occorre è “aggiornare” le nostre opere, vivendo sempre di nuovo la fatica dell’ascolto, aprendosi all’audacia della
compagnia, intesa nel senso etimologico dello spezzare insieme il pane: bisogna, insomma, sempre di nuovo “uscire dall’accampamento”, per andare “verso di lui (Cristo)”, se necessario “portando il suo disonore”, e cioè abbracciando la croce, poiché “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura”(Eb 13, 13s). Occorre impegnarci tutti ad essere una Chiesa che ascolta, che condivide, la cui gloria è innanzitutto nell’essere “con” prima che nell’essere “per”, una Chiesa amica degli uomini e della loro fatica di vivere: quella voluta, appunto, dal Vaticano II. Chiamarsi fuori dalla complessità con soluzioni semplicistiche, frutto di schemi ideologici, è tradimento del Dio vivo, che si lascia invece incontrare nella complessità del tempo e delle scelte umane, come abbiamo appena mostrato alla luce della teologia della Gaudium et Spes e dei suoi fondamenti biblici e patristici.

Assumere la complessità vuol dire, in particolare, non avere fretta nella ricerca delle soluzioni, avere anzi la pazienza dell’ascoltare e dell’imparare, accettando la fatica di volersi docili allo Spirito nel raccogliere la sfida delle stagioni che mutano. Dobbiamo qui imparare tutti dalla sapienza dei poveri, che hanno la capacità di “sopportare la fatica” del tempo. Assumere la complessità vuol dire, quindi, ascoltare le competenze, rispettare il rigore di diversi approcci alla complessità del reale: un religioso che volesse parlare di economia, senza ascoltare gli economisti, non sarebbe un maestro, ma un ignorante. Credo che dovremmo tutti educarci a questa sapienza delle competenze da accogliere e da rispettare per leggere la complessità della storia e non fare delle nostre scelte le conseguenze di una sia pur inconsapevole ideologia. Questa pazienza e questa sapienza della carità non giustificano, peraltro, alcun rimando all’infinito: la ricerca necessaria all’“aggiornamento” non potrà mai essere alibi a conservare il già dato per la semplice paura o pigrizia di non rinnovarsi! La nostalgia delle sicurezze passate è chiusura alla novità dello Spirito almeno quanto lo è il prurito di novità che salta sulla ricerca umile e faticosa della comprensione dei segni dei tempi!

Il secondo compito per vivere il discernimento necessario alla carità è quello di valutare la complessità alla luce della Parola di Dio. Come diceva Karl Barth, “il cristiano ha in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”: il criterio ultimo delle sue scelte è la rivelazione divina. Sub verbo Dei vive chi crede: sotto la Parola di Dio, in ascolto e in obbedienza ad essa. La Parola, tuttavia, cresce con chi la legge, come dice san Gregorio Magno: “Scriptura cum legente crescit”8. E questo vuol dire che la Parola, per essere veramente amata, deve essere “trasgredita”: bisogna bussare alla porta delle Scritture con la violenza dei violenti che conquistano il Regno (cfr. Mt 11,12). Che cos’è questa violenza se non l’urgenza delle domande del tempo? Sta qui la fatica di leggere nella complessità la presenza di Dio: quando si mette a confronto la Parola con le sfide della vita e della storia, essa sprigiona tutta la sua luce, assolve alla funzione del servus lampadarius, che nel mondo romano andava avanti nella notte per illuminare il cammino. La Parola non vuole illuminare solo i lunghi orizzonti. Essa dà sì la speranza della vita, ma – come il servus lampadarius – illumina quel tanto di strada che basta ogni giorno per avanzare verso il domani promesso. Così, “ogni giorno è sufficientemente lungo per sostenere la lotta per conservare la fede” (Dietrich Bonhoeffer). Il credente – anche un religioso o una famiglia religiosa – è un povero ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. La fede è agonia, passione, lotta con la Parola, perché dalla Parola si sprigioni la luce delle sorgenti della vita. Dobbiamo “trasgredire” la Parola perché essa ci doni il suo frutto e ce lo faccia gustare nella complessità del presente.

Finalmente, perché ci sia discernimento spirituale e pastorale occorre unire l’ascolto del tempo e l’ascolto della Parola, avanzando proposte provvisorie e credibili. Non si tratta di giungere a soluzioni definitive: non ci sono risposte ideologiche ai mali del mondo. Come credenti, avanzeremo proposte provvisorie, umili, per la situazione e il tempo che ci è dato di vivere. L’importante è che queste proposte siano credibili, caratterizzate, cioè, dalla doppia fedeltà all’eterno e al tempo, alla Parola e alla storia, al mondo presente e al mondo che deve venire. L’etica cristiana è l’etica della duplice fedeltà: e vivere la doppia fedeltà è a volte lacerante, perché ci chiede di essere nel tempo coloro che ricordano la patria di Dio, segno di contraddizione per tener viva la nostalgia del mondo futuro promesso. “L’esilio vero d’Israele – afferma un detto rabbinico – cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio”: l’esilio non comincia con la lontananza fisica, ma con quella del cuore, quando si è persa la nostalgia della patria. Vivere il desiderio della Gerusalemme celeste vuol dire vivere nel presente, fino in fondo, l’inquietudine della ricerca incessante di soluzioni provvisorie e credibili.

Se la Chiesa del Vaticano II è l’“Ecclesia semper reformanda”, “semper renovanda et purificanda”, non di meno sono chiamati a rinnovarsi e riformarsi i religiosi nello spirito dello stesso Concilio. Realizzare e gestire le opere della carità non è compito che possa sottrarsi alla fatica di un tale “aggiornamento”: e la sola condizione possibile per adempierlo è vivere lo stile del discernimento spirituale e pastorale attento ai segni del tempo, aperto all’ascolto della Parola e capace di coniugare le due fedeltà – a Dio e alla storia – nell’unico amore di carità. Ciò richiede libertà dalla paura del nuovo e dalla nostalgia del passato, disponibilità a mettersi in gioco con coraggio, fiducia nell’azione sempre nuova e fedele dello Spirito nel tempo. Solo così potremo trovare le chiavi che ci aiutino a discernere i tempi che stiamo vivendo e arriveremo a ipotizzare nuovi percorsi di carità, o perlomeno modi nuovi per incarnarla credibilmente nell’oggi. Solo così potremo comprendere se e come nella varietà dei contesti la profezia della vita religiosa dovrà essere più “visibile” o più “anonima”, più “istituzionale” o più “di frontiera”, più “creativa” o più “gestionale” e “organizzata”.

Sulla via di un tale ascolto, sincero e docile dello Spirito, potremo trovare – se necessario – il coraggio di lasciare quello che il “welfare” dello Stato già garantisce per “buttarci” sulla strada, in ascolto dei nuovi poveri e delle nuove povertà, confidando più nella Provvidenza di Dio che sulla previdenza degli uomini. Inoltre, sarà solo un attento discernimento che potrà farci comprendere il ruolo preciso della collaborazione dei laici, interessati in prima persona a capire come coniugare la loro professionalità con la necessità di testimoniare il Vangelo e come aiutare i religiosi del proprio istituto a essere fedeli al carisma del loro Fondatore. Non si stanno forse profilando anche per i nostri collaboratori laici nuovi modi per incarnare e vivere la propria fede? Non è urgente anche per loro discernere come stare nel mondo? Basterà che essi vivano la carità come lo chiede il mondo, con le sue leggi e i suoi accreditamenti? Oppure c’è un “quid” in più, richiesto anche a loro? E se c’è, qual è? E che cosa possono fare i religiosi cui essi si riferiscono per non essere né di ostacolo, né di scandalo al loro cammino ed alle loro scelte di obbedienza a Dio?

3. La carità al servizio di un mondo nuovo: umile, discreta e bella

Arriviamo così all’ultimo arco del nostro ponte fra il pensiero e la vita, riflettendo sul Vangelo dell’amore: quale carità siamo chiamati a vi
vere nel sabato del tempo? Alla luce di quello che abbiamo detto – pensando il mondo come “luogo del Vangelo”, e dunque una carità che si edifica nella compagnia degli uomini, e al tempo stesso proponendo una carità che non ha soluzioni facili, ma deve vivere il discernimento come suo stile – è possibile qualificare la carità, cui siamo chiamati, e lo stile delle opere, in cui essa si esprime, con tre aggettivi: umile, discreta e bella.

a) Caritas humilis è quella che non sceglie il suo oggetto in forza della gratificazione che se ne aspetta: è la carità “gratuita”, ex nihilo, che ama perché ama e da null’altro è motivata ad amare che dall’urgenza dell’amore e dall’altrui bisogno. Ricordiamo la frase di san Bernardo, ripetuta tante volte da Lutero: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, Dio ci rende buoni e belli perché ci ama”. Dio non ha ragioni per amare, se non l’amore. Questa è la carità divina, gratuita nelle sue motivazioni. L’umiltà di Dio è il modello dell’amore cui siamo chiamati: Dio ama per amore, soltanto per amore e ci rende capaci di questo possibile   impossibile amore, che è la carità, con la Sua grazia. Un amore impossibile, perché da soli non ce la faremmo mai a viverlo, e possibile perché Lui ce ne rende capaci. L’“impossibile possibilità” di Dio è l’amore gratuito cui Egli ci chiama. La domanda che dobbiamo farci sta allora nel sapere se la nostra carità di persone consacrate nella sequela di Gesù è veramente umile, se, cioè, ciò che facciamo lo facciamo in vista di un secondo scopo, di un interesse, di un ritorno, o per pura gratuità, nella compagnia generosa della vita e della storia. Come dice Paolo, “la carità non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,5-7).

Commentando il versetto della Lettera ai Romani “Siamo giustificati indipendentemente dalle opere della legge” (3, 28), il giovane Lutero distingue le opere della legge, da quelle della grazia e della fede (non le­gis opera sunt, sed gratiae et fidei: Weimarer Ausgabe 56, 264) precisamente in base alla gratuità dell’intenzione che vi si mette nel farle. Ogni opera umana può essere opera della legge o opera della fede, a seconda che essa motivi la presunzione di giustizia o sia motivata dall’invocazione della giustizia: non è l’opera a fare giusto l’ uomo, ma è la fede a rendere giusta l’opera. E la fede è già un appartenere così totalmente al mondo della grazia, da arren­dersi allo scandalo della croce, pronti a morire a se stessi per vivere solo per Dio. Chi compie le opere della fede si lascia far prigioniero dell’invisibile, si consegna al Dio vivente con un amore puro, senza altra motivazione o interesse al di fuori di Dio stesso. Si affaccia qui un tema, che sconcerta per la sua ra­dicalità, ma che va letto nella luce della ricerca del puro amore di Dio: quello della “resignatio ad infernum”. L’atto della totale sottomis­sione alla volontà divina espresso nell’accettare perfino la dannazione eterna se Dio lo volesse, è per Lutero il segno dell’amore puro, necessario a compiere le opere della fede: “Non c’è purificazione, se non ci si ras­segna all’inferno”9. Viene da chiederci: con quale intenzione di gratuità compiamo le nostre opere? Cerchiamo noi stessi, il nostro successo, la considerazione e l’accrescimento del nostro possibile potere mondano, o unicamente l’amore di Dio e dei poveri a cui Lui ci invia? Le nostre sono opere della legge o opere della fede? Sono motivate da logiche di interesse o dalla carità umile e gratuita?

Nell’Enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI avanza in proposito un’idea di grande fascino, che appare suffragata dall’esperienza delle varie forme di “finanza etica” e di “economia di comunione” che vanno sviluppandosi nel mondo: la rilevanza del principio di gratuità in economia (n. 34). Se è vero che non si crescerà se non insieme, il reinvestimento di una parte degli utili al servizio della promozione umana e sociale dei più deboli è garanzia di benessere per tutti: “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica” (n. 35). Il Papa della Deus caritas est lancia in tal modo nell’Enciclica sulla dottrina sociale un messaggio di estrema attualità: senza regole etico-sociali oggettive lo slancio della solidarietà e l’impresa economica sono a rischio per tutti; senza carità l’economia implode, perché resta priva della forza stessa della verità. Questo “principio di gratuità” dovrebbe essere tenuto sempre presente nella conduzione economica delle nostre opere, sia a livello di programmazione, che di esercizio, che di reinvestimento di eventuali utili. Guai se l’economia delle nostre famiglie religiose fosse guidata da una mera logica garantista o di profitto!

b) Discreta è la carità che non vuole imporre i propri modelli o progetti, ma che si mette in ascolto dell’altro, entrando in quel processo del discernimento – “discretio caritatis” – che assume la complessità e la confronta con la Parola di Dio, avanzando proposte provvisorie e credibili. Questa forma di carità sa leggere la complessità perché si pone in essa con un atteggiamento di ascolto attento e obiettivo. I medievali avevano una formula densa per esprimere questa luce che viene dalla carità: Ubi amor, ibi oculos. Se si sta in una situazione veramente per servire, l’amore dà occhi per vedere. “L’essenziale è invisibile agli occhi, solo il cuore lo vede”, dice Le petit prince di Antoine de Saint Exupéry. La carità discreta non è trionfalista, né impositiva di soluzioni arbitrarie o astratte, né ideologica. Essa cerca la sua via in umiltà, come fa il Poverello di Assisi, pregando davanti al Crocifisso
di San Damiano: “Altissimo, glorioso Dio illumina le tenebre del core mio. E damme fede dritta, speranza certa e caritade perfetta, senno e cognoscemento. Signore, che faccia lo tuo santo e verace comandamento”.

Proprio così, la carità è anche docta, capace di coniugarsi alla passione dell’intelligenza. Dice Agostino senza mezzi termini: “Fides nisi cogitetur nulla est”, la fede se non è pensata non è. La carità, se non è esercitata con intelligenza, rischia di non essere vera. Abbiamo bisogno di cristiani adulti, pensosi, non negligenti nel vivere la fatica del pensiero e della fedeltà: cristiani che usano l’intelligenza, che amano il sapere della fede. Ne abbiamo particolarmente bisogno fra i religiosi! Non lasciamo mai la riflessione critica della fede e della carità come riserva di caccia di pochi, ma sappiamo innamorarcene, farla nostra, perché abbiamo bisogno di credenti liberi e pensosi, che vivano la fatica di credere, ma anche l’infinita gioia di lottare con Dio, possibilmente lasciando che egli vinca, e di servirlo con intelligenza d’amore. Questa è la carità cui siamo chiamati, perché soltanto una carità non negligente, attenta e pensosa, saprà discernere ciò cui è veramente chiamata per il bene degli uomini e la gloria dell’Eterno.

c) Una simile carità saprà riconoscere, accogliere e testimoniare la bellezza di Dio: bella è la carità, della bellezza che viene dall’alto. La carità sa che i poveri hanno diritto alla bellezza e vuole loro offrire la possibilità di realizzare questo diritto. Non a caso nel Vangelo di Giovanni (10,11) Gesù viene chiamato “il pastore bello” (o’ poimen o kalòs), buono e bello (o’ kalòs). L’ora pasquale rivelerà il volto di questa bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro: “Due flauti suonano in modo diverso – scrive Agostino -, ma uno stesso Spirito vi soffia dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello t
ra i figli degli uomini’ (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra i figli degli uomini’; ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana’ (Fil 2,7). ‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo… Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”10. È l’amore con cui ci ha amati che trasfigura “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia” (Is 53,3) nel “più bello dei figli degli uomini”: il crocefisso Amore è la bellezza che salva. La via del Vangelo della carità è allora anzitutto quella della conversione del cuore a Cristo: nel Crocefisso Risorto i discepoli incontrano l’Amore incarnato e si lasciano rendere da Lui capaci di amare. La carità delle opere dei religiosi sarà bella se esse saranno animate dalla continua conversione a Cristo del cuore di chi le fa, e nasceranno dunque da un profondo spirito di adorazione e da una continua scelta di sequela evangelica.

C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nella bellezza una via del Vangelo della carità: a notarlo è Pavel Florenskij, il “Leonardo da Vinci russo”, genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di Cristo, morto martire della barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 – “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” – egli osserva che “ ‘i vostri atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: ymòn tà kalà érga vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora”11. La testimonianza della carità, via privilegiata per l’annuncio del Vangelo di Gesù, si compie attraverso lo sfolgorio della bellezza del cuore negli atti del discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si irradia dall’interiorità, trasformata dallo Spirito, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste e cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.

Conclusione: alle sorgenti della carità evangelica

Dove una tale bellezza della carità si offre a noi e ci contagia? È lo stesso Florenskij a indicarci il luogo del misterioso e trasformante incontro fra l’amore divino e la nostra fatica di amare. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la “Lavra”) di Sergiev Possad, cuore del cristianesimo russo, così descrive la paradossale bellezza della liturgia, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel “tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste”: “Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne all’Eden. L’occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era rivolto l’altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di nuvole si stendeva sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l’altare erano visibili le nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al Vespero il canto ‘Luce di pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto ‘Gloria a Te che ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la tenebra esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la finestra dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce, quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola”12. La liturgia è culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa dell’amore, sorgente sempre nuova della carità e delle sue opere, perché è il luogo potente dove il mistero del mondo, che è “il mistero della sera”, si incontra con l’eternità, il “mistero del mattino”, e si lascia trasformare da esso. Nella preghiera che nasce dalla liturgia e ad essa conduce, l’eternità mette le sue tende nel tempo e il Vangelo della carità entra nella vita e nella storia. Come testimoniano i grandi Santi della carità, non ci sono opere di carità autentica che non nascano dall’adorazione di Dio, dall’azione di grazie e dal sacrificio della lode. La bellezza della carità si accoglie all’altare della vita, dove Cristo si dona per noi: “Il pane è importante – scrive il gesuita tedesco Alfred Delp, morto martire della barbarie nazista -, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione vera”. Anche nella vita dei religiosi e nelle opere cui li chiama la fedeltà al loro carisma e allo Spirito che soffia dove vuole e parla in maniera sempre nuova nei segni dei tempi.

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1) J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303.

2) Cf. H. Rahner, L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Roma 1971: Mysterium Lunae, 145-287.

3) S. Ambrogio, Hexaemeron 4, 8, 32: CSEL 32, I, 138, 15-20.

4) S. Cirillo d’Alessandria, Glaphyrorum in Genesim 6: PG

5) W. Kasper, Il mondo come luogo del Vangelo, in Id., Fede e storia, Queriniana, Brescia 1975, 160.

6) Nel Commento al Vangelo di Luca 3, 17-23.

7) Nella Quarta Settimana degli Esercizi Spirituali: nn.230-237.

8) Commento morale a Giobbe, XX,1.

9) Ib. 391-392.

10) Sant’Agostino, In Io. Ep., IX, 9.

11) P.Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 19997, 50.

12) P. Florenskij, Sulla collina Makovec, 20. 5. 1913, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato 1999, 260s.

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ZENIT Staff

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