Sementi migliorate per l’Africa, benedizione o maledizione?

Due biologi sottolineano il dovere morale di permettere gli OGM

Share this Entry

di Piero Morandini e Ingo Potrykus*

ROMA, venerdì, 16 ottobre 2009 (ZENIT.org).- C’è una diffusa paura nei mezzi di comunicazione, nel pubblico e anche tra i vescovi che le nuove varietà di sementi renderanno i coltivatori africani economicamente dipendenti dalle ditte sementiere. Questa possibilità si può verificare per i semi, ma anche per molti altri prodotti delle biotecnologie, così come per quelli di diverse altre tecnologie.

Molti prodotti sono al giorno d’oggi come delle “scatole nere”. La gente non riesce a capire cosa succeda lì dentro (provate a pensare a telefoni cellulari, TV, motori, etc.) e per questo hanno poca o nessuna capacità di ripararli o cambiarli in qualche modo. Per le tecnologie più antiche il problema è meno sentito. Prendete ad esempio una bicicletta: uno riesce a vedere le varie parti come i pedali, le ruote e la catena che fa da collegamento; si possono facilmente smontare e rimontare i freni e le ruote. In una parola, riusciamo a capire e a controllare meglio questa tecnologia, anche se uno deve ammettere che non sappiamo creare i suoi prodotti da noi stessi. Cose come i calcolatori e i semi sono molto più complicate da capire, e di conseguenza siamo meno capaci di crearle o anche solo alterarle.

Questa aumentata dipendenza da chi ci fornisce la tecnologia potrà anche non piacere, ma è una cosa irreversibile e pervasiva. E non deve essere considerata come negativa di per sé, visto che ci permette di trarre beneficio da tante tecnologie, anche se abbiamo poco controllo su di esse. Sarebbe quindi ingiusto esprimere preoccupazioni per la dipendenza solo per quanto riguarda i semi ed in particolare per i semi prodotti con i metodi delle moderne biotecnologie (comunemente detti geneticamente modificati o GM).

Il problema della sterilità

Uno dei miti che circolano da più di dieci anni su questi semi si è ripresentato recentemente in un articolo di ZENIT a firma di Robert Moynihan [1]. Il mito sostiene che i semi prodotti attraverso le moderne biotecnologie siano sterili. Questo è appunto un mito. Per prima cosa, tutti i metodi di miglioramento genetico creano e usano variabilità genetica per ottenere colture con caratteristiche migliorate (p. es. resistenza a patogeni o insetti, rese migliori, resistenza a condizioni avverse come scarsità o eccesso d’acqua o ancora resistenza a erbicidi) e per questo tutte le colture presentano profonde modificazioni genetiche.

Le nuove varietà migliorate con le biotecnologie moderne sono quindi meglio definite come colture geneticamente ingegnerizzate (GI o, in inglese, GE) poiché le modificazioni genetiche sono più precise e predicibili di quelle fatte in passato. Secondo e più importante punto, nessuna coltura GI commerciale è stata resa sterile per impedire ai contadini di riutilizzare i semi.

Terzo, molte colture, specialmente nei paesi più sviluppati, sono cresciute a partire da semi commerciali. I contadini comprano i semi per diverse, semplici ragioni. In alcuni casi è la biologia stessa della pianta che determina la scelta: molte colture (come mais, barbabietola, riso, girasole e la maggior parte degli ortaggi) sono tipicamente o spesso, a seconda della specie, cresciute come ibridi F1. Questo significa che i semi usati per la semina sono il risultato di un incrocio tra due genitori che sono simili (di solito due varietà della stessa specie) ma distinti per diversi caratteri come ad es. l’altezza o la resa. [2]

Il risultato dell’incrocio è in genere una pianta vigorosa, spesso molto più vigorosa di entrambi i genitori, e le rese sono così aumentate di molto. L’esempio più eclatante è il mais, dove le rese possono aumentare anche 2-3 volte rispetto ai genitori non ibridi. Purtroppo il vigore dell’ibrido diminuisce rapidamente nelle generazioni successive.

Per questo motivo oltre il 99% del mais coltivato nei paesi sviluppati è mais ibrido la cui semente è ricomprata ogni anno dagli agricoltori. Potrebbero benissimo usare parte del raccolto per la semina dell’anno successivo, ma sanno che questo comporta un calo significativo nella resa.

Sono quindi capaci di calcolare la differenza tra le due scelte (ripiantare il seme raccolto o ricomprare nuove semente) e la grande maggioranza decide di ricomprare i semi. Per altre colture, la situazione è più diversificata: il riso e la colza sono solo in parte cresciuti come ibridi, mentre per soia e frumento questo accade molto raramente. Anche quando una coltura non è ibrida, gli agricoltori spesso comprano la semente perché sanno che la qualità del seme è importante. Ma produrre una buona semente è un duro lavoro. I semi devono essere puri (senza semi di erbacce, per esempio), devono germinare velocemente, in modo sincrono e con un’alta percentuale. Devono inoltre essere liberi da malattie (virus, batteri, funghi…) e insetti nocivi, avere una buona resa ed essere capaci di sopportare bene condizioni non ottimali come poca pioggia o caldo forte.

Se una partita di semi manca di una o di diverse di queste caratteristiche, allora il raccolto è a rischio. Per questo ci sono ditte il cui compito è produrre semi di alta qualità, così che sia la ditta sementiera che i contadini possono trarne beneficio. Produrre questi semi comporta delle spese e quindi i semi non possono semplicemente essere donati, altrimenti la ditta smette di esistere. Sta al contadino decidere se i semi valgono veramente il prezzo e se rendono veramente quanto costano. Spesso quindi gli agricoltori fanno piccole prove su nuove varietà per una o due stagioni di seguito prima di comprarne una grossa quantità per la semina. Vogliono prima verificare se la qualità superiore vantata dalla ditta corrisponda a verità. Quando una nuova varietà incontra il favore degli agricoltori, allora potete essere sicuri che è una buona varietà e che il prezzo è ragionevole. Gli agricoltori – i compratori del seme – sono quelli che decidono se un seme e la ditta che lo produce avranno successo.

Sicurezza

Un altro mito è che non ci sono ancora dati per decidere se le colture GI siano sicure per l’uomo o l’ambiente.

Dopo quasi 15 anni di coltivazione a scopo commerciale (e più di 25 anni di ricerca sulle colture GI), con un numero di piante coltivate che si aggira sui 200.000 miliardi su una superficie di quasi un miliardo di ettari, possiamo dire che fino ad oggi non ci sono stati danni maggiori rispetto a quelli causati dalle varietà convenzionali e spesso sono stati minori.

Diverse accademie nazionali ed internazionali (Stati Uniti, India, Brasile, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Cina, Messico, la Pontificia Accademia delle Scienze e l’Accademia del Terzo Mondo) hanno emesso dichiarazioni in favore di questa tecnologia. Esse hanno sottolineato in particolare i benefici ben documentati e quelli potenziali per i contadini poveri del mondo. Anche numerose società scientifiche e organizzazioni internazionali (WHO, FAO) (si veda [3] per una lista lunga ma incompleta) hanno esaminato la questione e sono arrivati alla conclusione che, sulla base della grande esperienza accumulata di migliaia di pubblicazioni scientifiche, le colture GI non presentano rischi nuovi o differenti rispetto alle varietà convenzionali e possono (e di fatto lo fanno) ridurre o alleviare alcuni degli impatti negativi dell’agricoltura convenzionale.

Il fatto che le piante GI non comportino nuovi rischi è illustrato con il seguente esempio. Ci sono diverse piante tolleranti agli erbicidi che sono state sviluppate con tecniche convenzionali meno precise e che sono state approvate per la coltivazione senza il lungo e costoso processo di richiesto per le piante GI. (Il processo include una valutazione del rischio e un processo d’analisi ben regolamentato che dura tra 5 e 10 anni con costi dell’ordine di oltre 10 milioni di dollari). Ebbene, queste varietà convenzionali (ad es. colza, girasole, riso o frumento) coltivate su milioni di
ettari presentano gli stessi rischi, e, talvolta, la stessa modificazione genetica, delle piante GI tolleranti agli erbicidi.

Benefici

Insomma, i dati mostrano in modo evidente che le piante GI offrono grandi benefici. Li offrono oggi in tutto il mondo e in modo particolare per milioni di agricoltori nei paesi in via di sviluppo. Infatti la grande maggioranza (il 90% dei circa 13 milioni) degli agricoltori che usano piante GI sono contadini poveri dei paesi in via di sviluppo, alcuni dei quali in paesi africani come il Burkina Faso e il Sud Africa. [4] Questo dovrebbe essere materia di riflessione per coloro che spargono falsità tra gli africani sulle opzioni a loro disposizione per lo sviluppo agricolo. I lettori indecisi sono invitati a leggere il libro di Robert Paarlberg “Starved for Science.”[5]

Alla luce di quanto detto finora crediamo fermamente che non solo ci sia “un obbligo morale nel permettere che questi paesi facciano la loro sperimentazione”, come suggerito da padre Gonzalo Miranda, professore di bioetica all’Università Pontificia “Regina Apostolorum”, ma anche nel fornire loro gli strumenti (l’educazione) per farlo.

Inoltre consideriamo un lusso inutile, e perciò stesso un peccato da parte dei paesi occidentali, richiedere una maniacale regolamentazione per questa tecnologia quando un’agricoltura africana in parte stagnante significa morte e malnutrizione per molti. La sicurezza alimentare per l’Africa inizia con il produrre più cibo. Ora.

———-

* Piero Morandini è ricercatore in Fisiologia vegetale e docente di Biotecnologie vegetali industriali all’Università di Milano. Ingo Potrykus è Presidente del comitato “Humanitarian Golden Rice” e professore emerito in Scienze vegetali dell’Istituto Svizzero Federale di Tecnologia.

[1] Robert Moynihan, “In Africa le nuove sementi porteranno a una vita migliore?” (cfr. ZENIT 16 ottobre 2009).

[2] http://www.isaaa.org/Kc/inforesources/publications/pocketk/Pocket_K_No._13.htm

[3] Lista di Accademie/società scientifiche/organizzazioni che supportano l’uso di piante GI: http://users.unimi.it/morandin/Sources-Academies-societies.doc

[4] http://www.isaaa.org/resources/publications/briefs/39/executivesummary/default.html

[5] Robert Paarlberg. “Starved for Science: How Biotechnology Is Being Kept Out of Africa,” Harvard University Press, March 2008.

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione