Chiesa versus Sinagoga?

Ed P. Sanders spiega le tensioni interne alla missione cristiana delle origini

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ROMA, lunedì, 12 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una intervista apparsa sul nuovo numero di Paulus, dedicato a “Paolo il lavoratore”.

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Texano di origine, Ed Parish Sanders è stato immerso nella Scrittura fin dalla nascita, in quella fascia degli Stati Uniti chiamata “cintura della Bibbia”. «Tutti quelli che conoscevo andavano in chiesa – ci racconta. – Era una chiesa protestante liberale, in senso umanistico, che accentuava il vangelo sociale e non badava molto alle dottrine teologiche. Sono cresciuto pensando che la religione fosse la cosa più importante del mondo, quindi decisi di dedicarmi al suo studio». Uno studio che lo porterà prima in Inghilterra e poi in Israele, per conoscere a fondo il giudaismo, perché «solo studiando le somiglianze e le differenze tra due cose, puoi capirle davvero». La scelta comparativa lo porta ad approfondire la figura dell’apostolo Paolo, vera “summa” dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo. Diventando così uno dei maggiori paolinisti a livello internazionale, soprattutto con studi come Paolo e il giudaismo palestinese (1977) e Paolo, la legge e il popolo giudaico (1983).

Paolo vedeva se stesso come apostolo delle genti, ma cominciò la sua predicazione tra i giudei, come gli altri apostoli, secondo il mandato di Gesù (Mt 10,6; 15,24). In seguito egli smise del tutto di rivolgersi ai giudei per dedicarsi soltanto ai pagani?

«Penso sia un ricordo storicamente attendibile che Gesù abbia detto ai suoi discepoli di andare dalla “pecore perdute della casa d’Israele”. Diversamente ha fatto Paolo, ma quest’aspetto della missione primitiva è difficile da ricostruire. Secondo gli Atti degli Apostoli, che accentuano gli sforzi dei cristiani per “guadagnare” i giudei, Paolo è andato più volte nelle sinagoghe ed è stato rifiutato. Nelle Lettere di Paolo però non troviamo nulla del genere: egli si presenta come uno chiamato a estendere la missione a tutte le genti. Bisogna quindi distinguere le fonti: secondo gli Atti, Paolo era anzitutto apostolo dei giudei nel mondo di lingua greca, mentre Paolo dice di essere stato chiamato a essere apostolo dei pagani».

Eppure Paolo continuò a frequentare l’ampia rete delle comunità giudaiche, forse come basi d’appoggio per evangelizzare l’Impero romano. Ma le sinagoghe erano il suo obiettivo principale?

«Non secondo la sua autodescrizione. Secondo Galati 2,7-10 Pietro e Paolo si consultarono e raggiunsero un accordo: uno si sarebbe rivolto ai circoncisi, l’altro agli incirconcisi… non, dunque, secondo una divisione geografica tra Medioriente e Occidente. Si noti pure che Paolo, pur non avendo fondato la Chiesa di Roma, si ritiene autorizzato a scrivere ai Romani proprio perché apostolo delle genti, come ripete enfaticamente».

Lei ha affermato che Paolo vedeva le chiese o comunità da lui fondate come realtà nuove, non più interne al giudaismo, eppure eredi delle promesse di Abramo. Il “nuovo Israele”?

«Minimizzo la concezione che i cristiani siano i “veri” israeliti in favore dell’idea che essi siano un terzo gruppo, né giudei né pagani. Negli scritti paolini troviamo, almeno per implicazione, entrambe le concezioni, ma qual è la prevalente? In Galati 3,15-16 Paolo argomenta che Abramo aveva una sola discendenza, cioè Gesù; pertanto i battezzati, che sono diventati una sola persona con Lui, sarebbero discendenti di Abramo. Corollario implicito di quest’affermazione è che i giudei non sono discendenti di Abramo, mentre la Chiesa cristiana sarebbe il “vero Israele” (teologia della sostituzione). Ma si tratta, per l’appunto, di qualcosa d’implicito: Paolo – l’orgoglioso Paolo, fiero delle sue radici – avrebbe mai detto esplicitamente che i cristiani sono i soli veri giudei e che i giudei… non sono giudei? Decisamente no, anche perché, descrivendo i cristiani, egli ripete che alcuni sono stati scelti tra i giudei e altri tra le nazioni (Rm 9,24), negando quindi qualsivoglia “sostituzione”. C’è poi la descrizione molto positiva della religione giudaica in Romani 9-11, in cui si nominano tutti i doni irrevocabili di Dio: le promesse, le benedizioni, i patriarchi, il culto, ma soprattutto la chiamata. I giudei continuano a essere l’Israele di Dio. Chiamare i cristiani “vero Israele” è un’interpretazione posteriore, che troviamo ad esempio in sant’Agostino».

I profeti dell’Antico Testamento parlano di un “resto”. Forse Paolo riprende questo linguaggio dicendo che un “resto” sarà salvato, cioè quelli che credono in Cristo?

«Paolo usa il termine “resto” mentre cita Osea in Romani 9,27, ma in Romani 11,25.32 conclude che la salvezza è per “tutto Israele” e per “tutti”. Secondo il mio modo di leggere Paolo, è sempre necessario cercare la conclusione: talvolta egli si esprime con incisi, considerazioni e argomentazioni di passaggio, che però si comprendono correttamente solo alla luce della conclusione. Se ci fermassimo a metà ragionamento con Romani 9,27 potremmo sostenere che solo pochi Israeliti saranno salvati, cioè il “resto”. Ma Romani 9-11 è un’unità. Se si legge tutta l’argomentazione fino alla fine, cioè Romani 11, si rimarca che tutto Israele sarà salvato».

Secondo lei, Paolo aveva un’idea molto ottimistica della sua missione tra i pagani: egli pensava che in seguito i giudei, ingelositi, sarebbero tornati sui loro passi. Riteneva, quindi, che la missione di Pietro tra i giudei fosse fallimentare?

«Questo confronto tra Paolo e Pietro l’ho fatto io, e Paolo non lo pone mai esplicitamente. Ma che Pietro abbia avuto meno successo è una deduzione che possiamo ipotizzare a partire dal capovolgimento dello schema paolino. Lo schema standard riguardo agli “ultimi giorni” comincia con Dio che riunisce il popolo d’Israele: i profeti, come anche Filone d’Alessandria, dicono che i giudei sarebbero ritornati dalle nazioni e avrebbero avuto la loro patria, dopo di che i pagani si sarebbero convertiti al Dio d’Israele e sarebbero venuti sul monte Sion portando doni (cfr. Is 60). Ora, i cristiani stanno facendo proprio questo e Paolo è colui che fa sì che le nazioni portino doni a Israele: ecco il significato profondo della colletta per Gerusalemme che egli promuove tra le chiese dei “gentili”. Questa colletta, che lo occupa a lungo, rappresenta l’omaggio delle genti al monte Sion. Dunque Paolo aveva ben chiara la visione profetica – prima Israele, poi le nazioni pagane – ma in Romani 11 egli capovolge questo schema».

…perché la realizzazione di questa visione profetica era avvenuta tramite Cristo.

«Sì, perché Cristo era venuto dagli ebrei. Teniamo presente che Gesù non è andato oltre Israele e non vuole neppure parlare con la donna siro-fenicia (Mt 15,23). Prima della sua resurrezione, egli non ha mai detto ai suoi discepoli di spingersi oltre Israele. Paolo dunque ha ampliato e completato il piano profetico per includere i pagani che si volgono ad adorare il Dio d’Israele negli ultimi giorni. Gli ultimi giorni sono arrivati, ma lo schema principale – prima la riunione d’Israele e poi il riversarsi delle nazioni – viene rivisto. Paolo lo capovolge per ben tre volte (Rm 11,13-14.25-26.30-32), ripetendo per tre volte “prima le genti e poi, per gelosia, i giudei”».

Questo perché i pagani hanno riconosciuto Cristo per primi?

«Poiché i giudei non hanno accettato Cristo, il disegno di Dio non può essere “prima Israele e poi le nazioni”. “Perciò devo concludere – scrive Paolo – che Dio ha deciso di rendere i giudei disobbedienti per un tempo, così da dare una chance agli altri popoli. Così voi ora entrate e poi, quando i giudei vedranno questo, saranno gelosi e verranno. E allora saranno salvati tutti”. Questo cambio di prospettiva implica che Pietro non
ebbe molto successo nella missione tra i giudei, mentre la missione tra i pagani procedeva molto bene».

Alcuni collaboratori di Paolo, Prisca e Aquila, correggono e insegnano la vera fede ad Apollo. Eppure Paolo lo considerava un apostolo, dunque al vertice nella scala del servizio ecclesiale. Come si spiega?

«Non so se Prisca e Aquila contassero come apostoli nella mente di Paolo. Ancora una volta, l’uso del vocabolo “apostolo” da parte di Paolo, come il suo concetto di missione, non segue quello del libro degli Atti. Paolo non dà mai ad intendere, ad esempio, che gli apostoli fossero soltanto i Dodici, e ritiene al contrario che molte persone fossero state “mandate”(questo è il significato della parola “apostolo”). In 1Corinzi 15 Paolo distingue “i Dodici” (v. 5) da “tutti gli apostoli” (v. 7). Altre volte non è chiaro il significato che egli attribuisce ad “apostolo”. In Romani 16, ad esempio, non siamo sicuri se egli stia affermando che Andronico e Giunia sono ritenuti tali. E ancora: Paolo include se stesso tra gli apostoli, benché non sia stato nel gruppo dei discepoli chiamati da Gesù. Ciò nonostante, egli aveva una visione gerarchica dei missionari cristiani, con in cima gli apostoli; e tra gli apostoli c’erano alcuni capi, come Pietro e come lui stesso. Il loro primato è chiarito nel momento in cui si dividono tra loro il mondo da evangelizzare. Tuttavia la visione gerarchica di Paolo non produsse una struttura rigida, perché temperata dalla fiducia nello Spirito e nei doni spirituali, i charismata. Chiunque può avere un dono o una rivelazione, che gli altri accolgono. Quindi, alla domanda se Paolo abbia approvato o meno che Prisca e Aquila insegnassero all’apostolo Apollo, penso che la risposta sia “sì”. E in particolare se Paolo era d’accordo con quello che Prisca e Aquila dicevano, mentre nutriva qualche dubbio riguardo ad Apollo».

Lei prima citava la profezia di Isaia 60. Il riunire tutti i popoli in Cristo si riallaccia a quell’universalismo della speranza giudaica?

«Credo che questo sia il nodo teologico da evidenziare nel dialogo tra cristiani ed ebrei, perché l’unità del mondo finalizzata ad adorare l’unico Dio si trova sia nelle Scritture giudaiche che in quelle cristiane. Sottolineo un punto: per la riflessione intracristiana è molto importante la mistica paolina contenuta nelle parole “in Cristo”. I protestanti hanno perso il contatto con questo tema da tempo, dimenticando spesso il sentimento dell’unione con Cristo in favore di un processo intellettuale di autocomprensione. Penso che i cattolici abbiano una buona opportunità di restare a contatto con il lato mistico del cristianesimo… perché, non dimentichiamolo, Paolo era un mistico. Se leggiamo con attenzione il suo “viaggio spirituale” in 2Corinzi 12, scopriamo che tutte le frasi sull’essere una cosa sola con Cristo – “non sono io che vivo, ma Cristo vive in me” e simili – sono molto importanti per lo sviluppo della vita cristiana. Penso che questa nozione sia fondamentale, quasi quanto quella che Dio ha creato il mondo, dunque tutti ugualmente, e che ognuno è da Lui amato. Una delle idee più significative di Paolo è infatti questa: poiché Dio è il Creatore del mondo, egli salverà tutto il mondo. Se Paolo fosse qui, oggi, sarebbe di certo una personalità controversa, ma con una visione universale della benevolenza di Dio».

Kenneth Brimaud

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ZENIT Staff

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