Tempo di riconciliazione della Chiesa con l'arte

CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 12 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento che Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, ha pronunciato il 10 settembre durante la conferenza stampa di presentazione dell’Incontro con gli artisti che Benedetto XVI celebrerà il 21 novembre prossimo, riportato da “L’Osservatore Romano”.

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Il 21 novembre prossimo Papa Benedetto XVI incontrerà  gli artisti: uomini e donne di culture e di lingue diverse, pittori, scultori, architetti; ma anche scrittori, musicisti, maestri del teatro e del cinema.

Il mondo delle arti si avvicinerà al successore di Pietro con prevedibile orgoglio, certo con soddisfazione perché essere invitati dal Papa è  già di per sé un segno di status, ma anche, per molti, con un misto di curiosità, di diffidenza, di imbarazzo.

Era già accaduto il 7 maggio del 1964, data memorabile nella storia dei rapporti fra la Chiesa e le arti nei tempi moderni. Quel giorno Giovanni Battista Montini, che appena l’anno prima era stato eletto Papa col nome di Paolo vi, volle incontrare, in cappella Sistina, gli artisti. Il discorso pronunciato dal Pontefice in quella occasione elabora e propone una dottrina estetica destinata a rimanere una delle pagine in assoluto più alte nella storia intellettuale del cattolicesimo novecentesco. Partendo dalla consapevolezza della apparentemente incolmabile frattura fra la Chiesa e il mondo delle arti e offrendo le condizioni per un nuovo statuto di amicizia, il Papa affermava la libertà dell’artista, il rispetto per la forza innovativa dei linguaggi espressivi e lo faceva con parole di dura radicale critica nei confronti della istituzione da lui rappresentata: «Vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori (…) vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, alla oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa (…) e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per noi – il culto di Dio sono stati mal serviti». E ancora ritornava Papa Paolo vi, in quel documento memorabile, sulla «missione» dell’artista chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell’esercizio della sua responsabilità di creatore, ciò che è trascendente, inesprimibile, «ineffabile».

Più tardi, nel 1973, nel discorso di inaugurazione del Museo di Arte Religiosa Moderna, Paolo vi ulteriormente affermando i principi fondamentali, affina la sua teoria estetica, distinguendo fra arte sacra e arte religiosa. Se la prima ha una precisa connotazione di ruolo e di funzione perché è destinata a qualificare il culto divino, la seconda offre all’artista uno spettro di possibilità creative virtualmente infinito.

Tutto ciò  che esprime la umana spiritualità – stupore di fronte al miracolo della natura, culto degli affetti, ascolto e riflessione di fronte ai supremi interrogativi della vita, della morte, dell’assoluto e dell’altrove – tutto questo può essere argomento di «arte religiosa».

Nasceva da queste riflessioni la Collezione che quel giorno di giugno del 1973  Paolo vi consegnava alla gestione dei Musei Vaticani, dopo averla personalmente e amorosamente costruita insieme al suo segretario monsignor Pasquale Macchi. Era, infatti, una collezione destinata a testimoniare la «religiosità» presente nell’arte moderna e contemporanea, ora affidata a iconografie tradizionali (Crocifissioni, Natività e così via ) ora sottesa a soggetti «secolari» quali paesaggi, nature morte, ritratti, composizioni informali, proposte sperimentali. Partendo dal riconoscimento e dalla accettazione della «religiosità» immanente alle forme figurative della modernità sarebbe stato possibile – era questo il pensiero ultimo di Paolo vi – avviare la ricomposizione del divorzio tra Chiesa e artisti e preparare la strada all’«arte sacra del futuro» prefigurata da Giovanni Battista Montini già negli anni Trenta, nelle riflessioni e negli articoli della giovinezza.

Un grande Papa intellettuale del rango di Benedetto xvi, un filosofo e un teologo del suo livello, non poteva non essere sensibile agli argomenti affrontati con straordinario profetico coraggio da Paolo vi. Ed ecco l’incontro con gli artisti organizzato per il 21 novembre prossimo. Agli esordi del secolo e del millennio la questione del rapporto fra la Chiesa e le arti  – quelle figurative  ma  non  solo –  non ha perso di significato né di attualità. Semmai, dopo il dibattito avviato da Paolo vi, se ne avverte sempre di più la drammatica urgenza e sempre di più ci si interroga sulle ragioni del divorzio.

Chi, come me, dall’osservatorio privilegiato dei Musei Vaticani considera la storia delle arti sotto il segno della Chiesa di Roma non può non provare sentimenti di stupore e di gratitudine. Gratitudine, naturalmente, per i capolavori di bellezza e di sapienza che il messaggio cristiano ci ha regalato ma anche, e soprattutto, stupore e ammirazione di fronte ai meravigliosi azzardi che, nei secoli, la nostra Chiesa ha saputo giocare.

Come quando, per esempio, fra quarto e quinto secolo, ha scelto come sua lingua figurativa l’arte greco-romana, l’ellenismo naturalistico e illusionistico. Azzardo immenso e carico di futuro è stato quello se si pensa che il cristianesimo veniva dall’ebraismo, la più ferocemente aniconica fra le culture del Mediterraneo e che senza quella scelta, il destino dell’arte in Occidente  – Michelangelo e Rembrandt, Velasquez e Goya, Monet e Picasso –  rischiava di identificarsi con la cifra e col segno, di diventare «ieroscrittura», come nell’islam.

Oppure quando  – è l’epoca che i manuali chiamano del rinascimento –  la Chiesa riconobbe nello splendore del vero visibile, l’epifania dell’Altissimo, l’ombra di Dio sulla terra. Non avremmo avuto, altrimenti, le nuvole di Giovanni Bellini, i riflessi nello specchio di Jan Van Eyck, la Stanza della Segnatura di Raffaello, la Canestra di frutta di Caravaggio, la Zattera di Medusa di Géricault.

Tutto questo per dire che la Chiesa per molti secoli ha saputo guardare al mondo delle arti con spregiudicato coraggio. Ne ha accettato gli stili, li ha vivificati e trasfigurati con i suoi contenuti, senza per questo mortificare o condizionare le ragioni dell’arte. Che sempre, nei secoli che precedono la modernità, è stata messa in condizione di esprimere la sua sovrana autonomia.

Poi, a far data dall’Ottocento, la Chiesa si è chiusa in difesa, non ha più saputo né voluto rischiare confronti con i movimenti artistici che devastavano e sconvolgevano il mondo. Quando, per dare immagine ai suoi messaggi, adottava uno stile, si attestava su quelli più tradizionali e consolanti. Così si è consumato il grande divorzio. Le risorse spirituali e intellettuali del cristianesimo hanno scelto di disertare il mondo della contemporaneità artistica inabissandosi come un fiume carsico. Oppure  – è il fenomeno di cui tutti ai nostri giorni siamo testimoni –  aprendosi alle forme di un caotico eclettismo che cerca di tenere insieme astrazione e figura, novità e tradizione, liturgia e funzione, segno e messaggio.

Questo è  oggi, nel momento in cui il Papa si appresta a ricevere gli artisti, lo stato della questione.

Eppure mai come oggi è arrivato il momento di far tesoro dell’aforisma cinese che ha attraversato la nostra giovinezza: «Grande è il disordine sotto il cielo.  La  situazione  è  dunque  eccellente».

Intendo dire con questo che forse oggi ci sono le condizioni favorevoli perché  la Chiesa possa giocare con successo l’ultimo azzardo. Nella dissoluzione dei linguaggi e dei modelli, nell’afasia espressiva che distingue il nostro tempo, la Chiesa deve farsi sguardo e ascolto.

Occorre guardare, ascoltare, con umiltà, con pazienza, senza pregiudizi, senza preconcetti, nella consapevolezza che l’impresa è immensa, ardua fino alla temerarietà e tuttavia necessaria, ineludibile.

Nel deserto abitato dalla desolazione e dai miraggi, bisogna saper riconoscere le pepite d’oro che pure sappiamo esistere. Non è possibile che i tesori della spiritualità cristiana si siano inabissati in modo definitivo e irreversibile. Che sia loro preclusa l’occasione di riemergere nelle figure e nei colori, nello spazio abitato, nella musica, nel teatro, nel cinema,
nella letteratura. Quali forme d’arte abiteranno il terzo millennio cristiano, non lo sappiamo. Oggi possiamo solo riconoscere e per quanto possibile onorare e valorizzare i frammenti di sapienza e di bellezza che potranno un giorno costruire il nuovo ordine estetico.

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ZENIT Staff

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