A Emmaus per guardare negli occhi il Viandante

CHIETI, sabato, 5 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’articolo scritto da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, e apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 23 agosto, nell’ambito della serie Il giorno che avrei voluto vivere.

 

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Abu Gosh – identificata al tempo dei Crociati come il villaggio di Emmaus – era l’ultima tappa del nostro pellegrinaggio in Terra Santa. Salimmo dapprima in alto sulla collina, dove dal giardino a terrazza delle Suore di Maria, Arca dell’Alleanza, avremmo potuto ammirare ancora una volta Gerusalemme, netta fra le colline all’orizzonte, solenne nelle sue sagome di pietra, immersa nella sua ineguagliabile luce dorata. In quel posto gli “ozevanim” – gli Ebrei costretti a lasciare la Città Santa – solevano piangere e strapparsi le vesti, per esprimere il senso di lacerazione e perfino di bestemmia provato nel separarsi da Sion. La nostalgia prendeva anche il nostro cuore. Dalla collina scendemmo alla Chiesa crociata, purissima nelle sue linee gotiche. Un’antica iscrizione marmorea all’esterno della Cripta riportava il nome della “X Legio Fretensis”, la legione romana di occupazione ai tempi del cristianesimo nascente. La Comunità monastica, col suo canto in latino, ebraico e francese, rendeva quel luogo una sorta di sigillo orante del dialogo necessario fra le fedi e le culture. Lo splendore del giardino, inondato dal sole dell’estate, che esaltava i colori e bruciava nell’aria i profumi, rendendoli quasi tocchi d’incenso, sembrò ancor più illuminarsi alla luce del racconto: era la narrazione del giorno della storia che avrei voluto vivere, “il primo giorno della settimana” dopo i dolorosi e misteriosi eventi di quella Pasqua singolare. In quel giorno, anonimo agli occhi delle cronache, due discepoli del Nazareno erano in cammino verso quel villaggio, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre discutevano, lo Straniero si avvicinò e prese a camminare accanto a loro. I loro occhi erano però impediti nel riconoscerlo. Fu lui a rompere il ghiaccio. «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?», chiese. Si fermarono, col volto che tradiva la profonda tristezza del cuore: essi lo avevano amato, avevano creduto in lui, giocando la loro vita nella decisione di seguirlo. Ed ora tutto era finito, nel modo più doloroso, certamente il più scandaloso per loro: morto appeso al palo della vergogna, il Rabbi che li aveva incantati, il loro Maestro, pareva essere stato smentito dai fatti. Quel suo grido sulla Croce aveva fatto risuonare assordante il silenzio del Padre, di cui pure tanto aveva parlato: «Elì, Elì, lemà sabactàni?» – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L’amore non può perdonare la morte: perciò il loro cuore era triste, perché la morte pareva aver inghiottito il loro Signore, e con lui ogni loro speranza, per sempre.

Uno dei due – si chiamava Clèopa – rispose allo Straniero con una battuta, fra il lamentoso e l’ironico: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Lo Straniero sembrò far più caso al dolore, che all’ironia, e domandò col tono che scioglie le labbra e fa venir fuori la pena nascosta: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele; invece, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Solo alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Le parole erano uscite dalla bocca di Clèopa come un fiume in piena. Il suo compagno (chi era? io? tu?) era rimasto in silenzio, del tutto partecipe, come se l’altro avesse saputo esprimere perfettamente il tumulto del suo cuore. Lo Straniero ebbe una reazione singolare. Senza mezzi termini apostrofò i due: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Da pii figli d’Israele, i due erano abituati a far memoria della straordinaria storia d’amore fra il Dio unico e il popolo eletto, rivivendola ogni volta con partecipazione intensa, in ogni tappa. Mai però il loro cuore si era acceso così all’ascolto di qualcuno. Fra lo stupore e il timore cominciò a farsi strada in loro una domanda: perché le parole di quello Straniero prendevano così la loro anima? Non aveva qualcosa in comune quella voce con quella del Profeta di Galilea, in cui avevano creduto? Possibile che fosse lui? La sua morte era fuori discussione. Ma profezie enigmatiche non erano mancate nella sua predicazione: «Distruggete questo tempio – aveva ad esempio detto una volta – e in tre giorni lo farò risorgere». Chiunque fosse quell’uomo, era bello ascoltarlo e il cuore si struggeva alle sue parole. Era come una tenebra che andava rischiarandosi, come quella della notte prossima alla luce dell’aurora.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andar oltre. Perderlo proprio ora appariva loro inaccettabile. Che chiarisse l’enigma. O, almeno, che il balsamo della sua parola continuasse ancora per un po’ a scendere sulle ferite del loro cuore. Fu per questo che insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Per un curioso paradosso quelle parole, mentre descrivevano l’esteriore calare della notte nei tramonti infuocati sulle alture della Giudea, evocavano ai due le tenebre scese dentro di loro, l’assenza di futuro che era seguita al rantolo del Profeta abbandonato sulle braccia della Croce. Forse perciò egli cedette alla richiesta con remissività, quasi per un atto di tenerezza compassionevole ed entrò per rimanere con loro. La locanda era semplice, una delle tante disposte ad accogliere i viandanti per il ristoro del cibo e del riposo sulle strade polverose della terra d’Israele al termine del giorno. Una volta a tavola, lo Straniero prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Era il gesto del capofamiglia nella cena pasquale. Era il gesto che Lui aveva compiuto per loro la sera di quell’ultima cena. Ed ora a compierlo era quello che avevano pensato fosse solo uno Straniero. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Ma egli sparì dalla loro vista. Non aveva detto alla donna, andata al sepolcro il mattino del giorno dopo il sabato: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre»? Non aveva promesso ai discepoli di precederli in Galilea? E al profeta Elia sul monte il Signore non era passato accanto fugace, come una “voce del silenzio”?

Storditi com’erano dall’emozione, cominciarono a ridirsi l’uno all’altro ciò che avevano vissuto con lui lungo la strada: al racconto si sovrapponevano le domande. Come avevano potuto non capire? Quelle parole, quella voce, la luce sulle Scritture… Perché non l’avevano riconosciuto subito? La tristezza a volte fa brutti scherzi, e ancor più la paura e la diffidenza verso l’altro. Ma ora la luce era così grande che – pur essendo notte, e perciò sconsigliabile il viaggio – decisero di partire senza indugio per far ritorno a Gerusalemme. Il tempo volò, tanto che quando giunsero era mattino e trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, mentre dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Da allora la loro vita fu cambiata per sempre. E con la loro lo fu la vi
ta del mondo. Nulla sarebbe più stato lo stesso. Il fatto che Dio avesse fatto sua la morte e che così l’avesse vinta era la notizia più sconvolgente della storia, quella che avrebbe dato a tutti la speranza della vita. Perciò avrei voluto essere lì quel giorno, come il compagno di Cléopa: a quello Straniero fattosi compagno del cammino, come tanti altri nel tempo, più di me e meglio di me, ho dato la mia fede e la vita. Anche a me è accaduto che le sue parole facessero ardere il cuore. Perciò, anche per me tutto è cambiato allora. Nella locanda di Emmaus si sono aperti anche i miei occhi: e quel giorno qualunque è diventato per me, come per tanti, il giorno più importante della storia, il giorno dell’incontro che ti dà luce per vivere e per morire e la speranza di vincere la morte in te e in tutti, per sempre. È il giorno che ha illuminato la vita dei santi, da Paolo ad Agostino, da Francesco a Tommaso, da Domenico a Ignazio di Loyola, da Alfonso de’ Liguori a Madre Teresa di Calcutta, fino agli innumerevoli, nascosti profeti della carità, che nelle situazioni più difficili danno la vita per chi manca di tutto, o agli innamorati servitori del Vangelo, che lo ascoltano per vivere di esso ed annunciarlo fino agli estremi confini della terra… Un’incontro, quello di Emmaus, che le cronache non riportano, ma che la testimonianza di fede dell’evangelista Luca alla fine del suo Vangelo ha saputo trasmetterci con freschezza singolare, tanto che il cuore di chi crede vi si può riconoscere, fino a identificarsi con l’innominato compagno di Clèopa, fino a percepire quel tramonto, vissuto un giorno di duemila anni fa, in una locanda sulle alture della Giudea, come l’alba del nuovo inizio di tutto, per tutti…

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ZENIT Staff

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