Papa Benedetto XVI e la liturgia

BOLOGNA, sabato, 28 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata dal prof. Davide Ventura sul tema “Papa Benedetto XVI e la liturgia – Importanza e centralità della liturgia”, intervenendo il 22 febbraio scorso a Bologna, presso la  chiesa di S. Maria della Pietà, in occasione del III  anniversario dell’apertura della causa di beatificazione del Servo di Dio Tomas Josef M. Tyn O.P.

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Importanza e centralità della liturgia

Che la liturgia sia un tema che sta a cuore a Papa Benedetto XVI è cosa ampiamente dimostrata dalla mole e dalla frequenza dei suoi interventi in tale materia in questi primi anni del suo pontificato. Innumerevoli sono ormai i discorsi, le allocuzioni, le catechesi rivolte a tale soggetto, che ritorna poi con insistenza anche nei documenti “maggiori”, dalle encicliche al recente motu proprio “Summorum Pontificum”. Questi interventi, avvenuti in tempi a noi prossimi e “sotto i riflettori” del pontificato, sono abbastanza noti, anche se non risulterà inutile rivolgere loro uno sguardo d’assieme. Meno note ai più sono forse invece le tante opere che il Papa ha scritto riguardo alla liturgia prima della sua elezione, come teologo – insieme a svariate interviste e discorsi. Tutto questo materiale manifesta una totale continuità con il suo attuale magistero, e si svolge con una potenza di pensiero e una profondità di analisi che lascia ammirato il lettore. Inoltre, per il loro essere meno “irrigiditi” dei documenti magisteriali, di norma relativamente brevi e mirati a circostanze particolari, gli scritti dell’allora Cardinal Ratzinger sono di grande aiuto per manifestarne pienamente il pensiero nella sua ispirazione di fondo. Senza pretendere di sostituire una lettura delle opere in questione (che è al contrario fortemente raccomandata), queste pagine mirano a prendere in esame alcune direttive fondamentali del pensiero liturgico del Papa basandosi sulle sue parole, scritte o pronunciate sia prima che dopo la sua elezione; e questo per aiutare a meglio orizzontarsi anche nelle controversie che tale insegnamento ha occasionalmente suscitato – come sempre capita quando il sale del Vangelo si rifiuta ostinatamente di perdere il suo sapore.

Perché mai un tale posto centrale per la liturgia? Non hanno piuttosto ragione quegli ambienti ecclesiali che tendono a relegarla in secondo piano, come se si trattasse di un semplice elemento formale – una questione in fondo poco importante di usi e di abitudini? Non per il Papa. Nel libro-intervista Rapporto sulla fede così si esprime l’allora cardinale: “Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia  ci sono, come di consueto, modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell’uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede cristiana“.

Il punto non è banale: se il fine dell’uomo è conoscere, amare e servire Dio, allora diviene del tutto essenziale il modo in cui ci si pone di fronte a Lui per riceverne i doni sacramentali, per espiare le proprie cadute, per rendere grazie della salvezza offerta in Cristo. La vita cristiana è un rapporto personale con il Padre che chiama a sé i suoi figli; è dunque fondamentalmente dialogo. Questo dialogo può ben essere privato e individuale; ma per essere realmente tale ha comunque bisogno di essere sorretto e quasi immerso in quel perenne canto d’amore della Sposa per il suo Sposo che è la liturgia pubblica della Chiesa. E questo canto ha ritmi e tonalità tutti propri, che divengono essi stessi contenuto, e non meramente forma. Lex orandi, lex credendi, dicevano i cristiani dei primi secoli: i modi e le forme del pregare – inteso come pregare pubblico, liturgico – determinano i contenuti del credere. E, storicamente, è innegabile che i cambiamenti avvenuti nella lex orandi accompagnano e segnalano invariabilmente parallele mutazioni delle accentuazioni e della comprensione dei contenuti di fede.

In un’altra opera, l’allora cardinale riprende lo stesso tema richiamando l’atteggiamento a suo parere superficiale con cui da più parti venne accolto l’invito del Concilio Vaticano II a un rinnovamento della liturgia: “Poté sembrare a molti che la preoccupazione per una forma corretta della liturgia fosse una questione di pura prassi, una ricerca della forma di Messa più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo si è visto sempre più chiaramente che nella liturgia si tratta della nostra comprensione di Dio e del mondo, del nostro rapporto a Cristo, alla Chiesa e a noi stessi. Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Così  la questione liturgica ha acquistato oggi un’importanza che prima non potevamo prevedere” (J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, p. 9).

In un altro luogo ancora lo stesso concetto viene espresso con drastica concisione: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (J. Ratzinger, La mia vita, p. 112).

Ma nel pensiero del Papa l’importanza della liturgia si estende persino al di là dei limiti della Chiesa, per costituire un elemento fondamentale della vita e dell’ambiente umano: “Il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione. […] Solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create – possono funzionare” (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 16). È un testo estremamente impegnativo, e verrebbe la tentazione di metterlo in dubbio se le circostanze dei nostri tempi non ne confermassero così clamorosamente la validità. Ma dove risiede il fondamento di questa influenza del culto liturgico sulla vita umana in generale? Il futuro Papa risponde nel seguito del testo citato: “L’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo: essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del «cielo», del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. […] (Il culto) prefigura una vita più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota”. Si tratta di una visione di notevole potenza: per il Papa la liturgia della Chiesa diviene il canale privilegiato del governo divino sulla terra, e possiede di per sé una potenza demiurgica che plasma sul suo modello gli eventi mondani, facendosi “misura” alla “vita presente”. La liturgia è il cielo sulla terra; essa perciò deve parlare la lingua del cielo – questo è il motivo per cui non si tratta di cercare la forma “più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo”, come riportato sopra.

Il valore del messale antico e il “Motu proprio” Summorum Pontificum

Paghiamo subito il necessario tributo all’attualità, e fra le tante questioni aperte legate alla liturgia soffermiamoci su quella che il magistero del Papa ha più di recente affrontato – e che ha suscitato le maggiori reazioni anche nell’opinione “laica”. È noto ai più che nel 1970 Papa Paolo VI promulgò il nuovo messale elaborato negli anni precedenti dalla commissione incaricata dell’attuazione della riforma liturgica avviata per impulso del concilio Vaticano II. Tale messale conteneva in effetti sostanziosi cambiamenti rispetto a quello fino ad allora in vigore, edito a sua volta da Giovanni XXIII nel 1962. Quest’ultimo non era in effetti altro che l’ultima revisione minore di un tipo liturgico che risaliva con continuità alla riforma effettuata dal Concilio di Trento (il cosiddetto messale di Pio V). A sua volta, Pio V aveva nel XVI secolo semplicemente rivisto e riproposto un repertorio di testi liturgici che si era tramandato con minimi cambiamenti durante tutto il Medio Evo, risaliva nella sua sostanza a Gregorio Magno (VI secolo), e conteneva parti che risalivano alla più remota antichità cristiana.

E qui si dà il problema: mentre, come si è visto, il messale romano ha conosciuto fino al 1962 – lungo diciasse
tte secoli di storia – solo modifiche graduali e non particolarmente sostanziali, di un tratto nel 1970 venne introdotta una forma liturgica che si discostava in modo significativo da tale immemorabile tradizione. Contestualmente all’introduzione del nuovo si ebbe nella pratica la proibizione dell’uso del messale tradizionale, cosa che provocò vivaci reazioni in molti ambienti, fino a divenire una delle maggiori motivazioni dietro allo scisma promosso da Mons. Lefebvre.

Il documento pubblicato da Benedetto XVI il 7 luglio scorso, dal titolo “Summorum Pontificum”, mette finalmente ordine definendo la situazione giuridica, che era divenuta alquanto ambigua, della liturgia tradizionale di fronte a quella riformata. Vale la pena, vista la storica importanza del documento, scorrere i suoi contenuti fondamentali. In primo luogo il Papa dichiara che il precedente messale non è mai stato abrogato. Non si tratta perciò di una “reintroduzione”, bensì del riconoscimento di una perenne validità che l’introduzione del nuovo messale del 1970 non ha affatto menomato. Al contrario, dopo alcune osservazioni storiche che ne lodano l’antichità e la continuità di uso durante tutta la storia della Chiesa latina, il Papa definisce il rapporto fra i due Messali con le seguenti parole: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della «lex orandi» della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa «lex orandi» e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della «lex orandi» della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella «lex credendi» della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa”.

Dopo questa capitale affermazione, il Papa prosegue definendo che ogni sacerdote può usare del messale tradizionale nelle sue Messe private, a cui possono di propria volontà associarsi anche altri fedeli. Gli istituti di vita consacrata sono poi liberi di celebrare, saltuariamente o anche abitualmente, con il vecchio messale. Gruppi stabili di fedeli all’interno delle parrocchie possono a loro volta chiedere al parroco di celebrare per loro con il messale del 1962. Il parroco è invitato ad “accogliere volentieri” le loro richieste; qualora sia personalmente impossibilitato (e – si suppone – per validi e non pretestuosi motivi), la richiesta deve passare al Vescovo diocesano. “Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei». Il vescovo che vuole soddisfare a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause ne è impedito, può affidare la questione alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», che gli darà consiglio ed aiuto”. Se la situazione lo consiglia, il Vescovo può raggruppare le richieste con la costituzione di una “parrocchia personale”.

Si comprende chiaramente l’intenzione del Papa: la Messa tradizionale, essendo tuttora in vigore, costituisce un diritto dei fedeli; le loro richieste (purché non fatte per spargere discordia…) di accedere a tale forma liturgica vanno esaudite: a livello parrocchiale, ove possibile, ovvero diocesano. In nessun caso tale richiesta può essere semplicemente ignorata – l’autorità stessa della Santa Sede, tramite la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, se ne fa garante.

Viene poi riconosciuto che i membri del clero, obbligati alla recita quotidiana del breviario, possono adempiere a tale obbligo mediante il breviario pubblicato da Giovanni XXIII.

Estremamente ricca di contenuto è anche la lettera inviata dal Papa a tutti i vescovi in concomitanza con l’uscita del Motu proprio. Vi si dice che, all’atto della pubblicazione del nuovo messale di Paolo VI, vi era chi pensava che l’uso della forma più antica sarebbe sparita da sé. Questo non è però avvenuto, e l’attaccamento all’uso antico è rimasto proprio “nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica”. Non si tratta perciò necessariamente, secondo il Papa, di una forma di ribellione contro l’autorità della Chiesa, anzi “… molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia”. E non si tratta solo di anziani: “È emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia”.

Se questa liturgia, così antica e venerabile, non è mai stata giuridicamente abrogata, da cosa nasce la sua pressoché totale sparizione, specialmente considerando che già Papa Giovanni Paolo II aveva pubblicato durante il suo pontificato atti che chiedevano ai vescovi di provvedere affinché le legittime richieste di celebrare secondo tale forma venissero più largamente accolte? Più che da Roma, il problema è evidentemente sorto dagli episcopati nazionali, “anzitutto perché spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio”. Così, mentre i documenti di Giovanni Paolo II avevano lasciato ai vescovi un largo margine applicativo, Benedetto XVI conclude che “è sorto un bisogno di un regolamento giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988 non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni”.

“Roma locuta, causa soluta” dicevano gli antichi: Roma ha parlato, la causa è risolta. Oggi, purtroppo, questo è lontano dall’essere un fatto scontato; ma che Roma abbia parlato chiaro, questo nessuno potrà metterlo in dubbio.

L’applicazione della riforma liturgica

Il Vaticano II ha richiamato in molti documenti la necessità di un rinnovamento liturgico, che accogliesse le acquisizioni migliori di un movimento liturgico che aveva saputo nei decenni precedenti investigare i tesori storici della Chiesa per trovare il modo di restituire al loro originario splendore forme rituali che il tempo aveva ricoperto di un velo di polvere. Se poi, come osserva il Papa nel documento citato, proprio persone di “cospicua formazione liturgica” hanno preso partito di non seguire le forme liturgiche emerse dall’auspicato rinnovamento liturgico, è segno che qualcosa non ha funzionato. Sentiamo di nuovo il Papa nella citata lettera di accompagnamento al Motu proprio: “Questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

Papa Benedetto parla quindi di “deformazioni arbitrarie”; si tratta, secondo questa analisi, di applicazioni errate sopraggiunte più tardi, e non del messale di Paolo VI in sé. Circa quest’ultimo, in più riprese nei suoi scritti il Papa ammonisce quelli che lo ritengono esso stesso una deformazione della tradizione ecclesiale ed
espressione di una teologia eterodossa. Non a caso preferisce non parlare di due riti, ma di “due forme di uno stesso rito”: forma extraordinaria, l’antico messale; forma ordinaria il nuovo; e “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum”. La stessa cosa l’allora cardinale Ratzinger la aveva dichiarata più estesamente in un discorso del 24 ottobre 1998: “Si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l’antica e la nuova liturgia, quando l’una e l’altra vengono celebrate in conformità con le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino secondo il vecchio messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al messale di Paolo VI e la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà di partecipazione e di creatività, quella differenza sì che può essere enorme!”.

Questa affermazione, netta e reiterata, che la differenza fra il vecchio e il nuovo “ordo Missae” non è sostanziale, e che si tratta anzi di due forme dello stesso rito, può piacere o meno – si tratta in ogni caso del parere del Papa, espresso in modo piuttosto formale in atti di elevato valore magisteriale. Prestiamo dunque a tale parere il religioso assenso che esso richiede, e passiamo ad esaminare quali siano le deformazioni “al limite del sopportabile” di cui si parla, avvertiti dalle stesse parole del Papa che “… resta da vedere sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto, banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario, sconsiderate” (J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, pp. 123-124).

La liturgia non è prodotto umano

Nel “mirino” del Papa, sia prima che dopo la sua elezione, c’è in primo luogo il concetto di “creatività liturgica”: è parso infatti spesso, in questi ultimi decenni, che ogni comunità, ogni singolo sacerdote, fossero chiamati a “inventare” le forme del culto secondo la propria sensibilità. In una intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale dichiara: “In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità.  La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari . Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell’incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l’essenza della liturgia. Con l’essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l’idea essenziale della liturgia – capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l’universalità della liturgia sia essenziale”. Le ultime righe sono fondamentali: nel pensiero costante del Papa, la liturgia è data dall’alto. Poi certo, questo dono passa attraverso mediazioni umane (ciò che costituisce la Chiesa come comunità profetica), ma rimane tutt’altro che un prodotto umano; e visto il suo carattere di culto pubblico, esso è e deve rimanere universale.

Nel libro “Introduzione allo spirito della liturgia”, p. 17-18, troviamo espresso in modo molto forte lo stesso concetto. Parlando della nascita del culto del popolo di Dio sul Sinai, ma pensando all’oggi, il cardinal Ratzinger scrive: “L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. […] la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma”. Questo carattere non arbitrario del culto emerge per contrasto in modo drammatico nell’episodio del vitello d’oro. “Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. […] non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni. […] L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. […] Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso […] La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a  propria misura e alla ricerca di se stessi […]. Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero incontro con il Dio vivente”.

A queste righe impressionanti si può obiettare (come di fatto si è da più parti obiettato): ma la comprensibilità della liturgia non è un valore positivo? Se essa è “segno”, il segno non deve necessariamente essere decifrabile dal suo destinatario umano? Nel libro “Il sale della terra”, p. 199, il cardinal Ratzinger risponde: “Nella nostra riforma liturgica c’è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più «piatta». In questo modo, però, l’essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall’eternità”. È la condanna del razionalismo teologico, la stessa in fondo che già nel XVI secolo la Chiesa aveva opposto a Lutero: Dio, ragione assoluta, è al di sopra della nostra ragione limitata. E la liturgia, con i suoi simboli sottili, è appunto una delle modalità soprarazionali con cui Dio si comunica all’uomo.

In seguito all’abuso della “creatività” “è andato disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro  che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi” (dal libro-intervista “Rapporto sulla fede”). Continua lo stesso testo: “Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere «predeterminata», «imperturbabile», perché attraverso il rito si manifesta
la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata «la vecchia rigidità rubricistica», accusata di togliere «creatività», ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del «fai-da-te», banalizzandola perché l’ha resa conforme alla nostra mediocre misura
”.

Lo sviluppo organico della liturgia

Questo carattere ultramondano della liturgia ne determina due caratteri apparentemente in contrasto fra loro. Da una parte, come si è appena visto, essa è “predeterminata” e “imperturbabile”, sottratta quindi agli arbitri del celebrante della comunità o del celebrante. D’altra parte essa non è fissa in senso assoluto. Come tutte le forme della Chiesa, essa accompagna l’uomo nel suo corso storico; e come mutano le condizioni storiche e culturali dell’uomo, anche essa può mutare, e di fatto è mutata. Ma lo fa in modo “organico”. Il termine è del concilio Vaticano II, che lo introduce normativamente al punto 23 della costituzione Sacrosanctum Concilium: “Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”.

Questo termine significa che la liturgia cresce e si modifica come lo fanno gli organismi vitali, cioè lentamente, senza strappi, e in virtù non di forze esterne ma di un impulso vitale interno (in questo caso rappresentato dallo Spirito Santo). Così come avviene nelle Chiese orientali, e come è sempre avvenuto anche in Occidente fino a tempi recenti, i cambiamenti possono sopraggiungere, ma devono essere interpretabili nel senso della continuità con l’esistente; e il giudizio su di essi non deve soggiacere solo alla Gerarchia: è anche l’uso e l’accettazione dei fedeli che, nei secoli, determina l’accoglimento di una modifica o la soppressione di un’altra.

Quello della “organicità” del cambiamento è per Benedetto XVI l’unico e vero criterio di legittimità liturgica. “La liturgia non è paragonabile a una apparecchiatura tecnica, a qualcosa che si fa, ma a una pianta, a qualcosa, cioè, di organico, che cresce e le cui leggi di crescita determinano le possibilità di un ulteriore sviluppo” (Introduzione allo spirito della liturgia, p. 161). Nel seguito dello stesso testo il Papa si pone il problema del ruolo dello stesso papato nella definizione dello sviluppo liturgico. Il pontefice, osserva, “ha sempre più chiaramente rivendicato anche la legislazione liturgica”. Ma “quanto più fortemente si imponeva questo primato, tanto più emergeva la questione dell’estensione e dei limiti di tale autorità che, certamente, non è mai stata, in quanto tale, oggetto di riflessione. Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere «fatta» a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente. Difatti, però, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza rispetto alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. Essa non è «fatta» da funzionari. Anche il papa può solo essere umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità”. Questa sorprendente riflessione prosegue comparando l’esperienza dell’Oriente cristiano con quella occidentale, concludendo che “… la via battuta dall’Occidente, con la sua specificità e lo spazio lasciato alla libertà e alla storia, non può essere in nessun modo condannata in blocco. Ma se si abbandonano le intuizioni fondamentali dell’Oriente, che sono le intuizioni fondamentali della Chiesa antica, si giungerebbe davvero alla dissoluzione dei fondamenti dell’identità cristiana. L’autorità del papa non è illimitata; essa sta al servizio della santa tradizione”. Ci sia consentito di osservare che queste fondamentali righe, se prese sul serio da entrambe le parti, sarebbero probabilmente sufficienti al superamento del fossato creatosi fra la Chiesa romana e quelle ortodosse…

Da questi principi fondamentali, Papa Benedetto XVI trae le logiche conclusioni: la liturgia tradizionale, anche dopo l’introduzione del nuovo messale, non è mai stata abrogata in quanto non abrogabile. “Nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa” (dalla conferenza “A dieci anni del Motu proprio Ecclesia Dei”, 24 ottobre 1998). Lo stesso concetto è ripreso, come abbiamo visto, anche dal recente Motu proprio “Summorum pontificum”. Ma, al di là delle pur importanti forme giuridiche, è l’atteggiamento stesso verso la liturgia tradizionale a provocare il corruccio del Papa. “Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente del genere; così è l’intero passato della Chiesa ad essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, ad essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa”. (Dio e il mondo. Una conversazione con Peter Seewald, p. 380).

Ma il testo più significativo per una valutazione storica della rottura di continuità avvenuta nel 1970 si trova ne “La mia vita: ricordi, 1927-1977”, p. 110. All’atto della pubblicazione del nuovo messale, dice l’allora cardinale, “rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale”. L’autore prosegue rammentando una possibile obiezione: anche Pio V, esattamente quattro secoli prima, con l’introduzione del suo messale aveva proibito l’uso dei testi precedenti. Ma si trattava di una circostanza completamente diversa: la diffusione della riforma protestante si era insinuata in molti rituali, approfittando del pluralismo liturgico che aveva caratterizzato la Chiesa medievale, “tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire”. In questa situazione di emergenza, nell’impossibilità di controllare una per una tutte le innumerevoli varianti locali, Pio V impose di adottare il Messale romano, sicuramente ortodosso, a tutte le chiese locali i cui rituali non potessero vantare una antichità di almeno due secoli. Svariati usi liturgici, come quello mozarabico in Spagna o quello ambrosiano a Milano, rimasero dunque intatti accanto a quello romano. Alcuni riti ortodossi finirono sicuramente vittime di questa prescrizione, ma non intenzionalmente: l’intenzione del papa fu quella di supporre che qualunque rituale nato dopo il 1370 fosse a forte rischio di deviazione dall’ortodossia, e fu in base a questa presupposizione che essi vennero aboliti. “Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati”, prosegue il testo. “Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin d
al tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell’introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c’è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita
”.

Si scorge in questo lungo testo che il punto fondamentale non è, come si è detto, la natura del nuovo rituale, per sé perfettamente ortodosso, bensì la soppressione (mediante abuso di autorità) di quello tradizionale, cosa che ha generato una artificiale contrapposizione fra un “vecchio” da eliminare frettolosamente e un “nuovo” prodotto a tavolino da una commissione di esperti.

Esiste un’altra obiezione: per alcuni, l’essenza della riforma liturgica sarebbe determinata non tanto dalla rottura della tradizione, ma al contrario dal tentativo di ricondurre il rito a una sua “primitiva purezza”, disincrostandolo dalle aggiunte accumulate nei secoli. Al capitolo nono del citato “Rapporto sulla fede”, l’allora cardinal Ratzinger risponde a tale “archeologismo romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio Magno sarebbe da eliminare come un’incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: «Come deve essere oggi?», ma l’altra: «Come era allora?». Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione”.

L’abbandono della bellezza

Delineato a sufficienza il “trauma” ecclesiale determinato dalla abolizione forzata delle forme tradizionali, rimane da esaminare nel dettaglio i principali elementi che le parole del Papa chiamano “deformazioni arbitrarie della liturgia” intervenute in quegli anni.

Vi è in primo luogo il fattore estetico e artistico. È noto come nei secoli la Chiesa abbia tributato culto a Dio anche tramite l’impiego delle migliori e più magnifiche forme di espressione artistica, non accontentandosi delle esistenti, ma suscitando dal suo interno continuamente nuovi stili di espressione del bello e del sublime.

Durante l’ultimo mezzo secolo (con consistenti anticipi anteriori) si è invece manifestata all’interno della Chiesa l’opposta tendenza alla semplificazione delle forme estetiche, all’insegna della “povertà” del culto, nella presupposizione che il “trionfalismo” delle forme artistiche, figurative, architettoniche e sonore, non farebbe che ricoprire e falsare la vera natura della liturgia.

Ora, per Benedetto XVI “«l’abbandono della bellezza» si è dimostrato, alla prova dei fatti, un motivo di sconfitta pastorale” (Rapporto sulla fede, p. 132). Il testo continua: “È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all’utile. L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del «comprensibile a tutti» non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia «semplice» non significa misera o a buon mercato: c’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica”.

Per quanto il Papa abbia dedicato pagine notevoli alla iconografia e alla architettura religiosa, è soprattutto la musica sacra che attira la sua attenzione come insostituibile veicolo di reale partecipazione liturgica. Il testo citato sopra continua: “Si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della «partecipazione attiva»: ma questa «partecipazione» non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c’è proprio nulla di «attivo» nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi? Non c’è qui un rimpicciolire l’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla «musica d’uso»: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali”. E ancora: “Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica «corrente» cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche «città della gloria», luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.

“Actuosa participatio”

Come ricordato in quest’ultimo testo, il concilio Vaticano II ha in più riprese richiesto una “actuosa participatio”, una “partecipazione attiva” dei fedeli al culto. Come si sa, questo è stato di solito interpretato nel senso di una condanna al preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli. La frase sopra citata, “Non c’è proprio nulla di «attivo» nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi?”, rivela chiaramente il pensiero del Papa in merito. Più notevoli ancora, e in parte sorprendenti, sono le righe che leggiamo in “Introduzione allo spirito della liturgia” a p. 167: “In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte”. Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, questa azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? Come accenna il Papa, si sa che di solito si è dato a questa domanda la risposta pratica di moltiplicare e distribuire a quante più
persone possibile i servizi paraliturgici durante la celebrazione: vi è chi accende le candele e chi le spegne, chi bada all’acqua e chi al vino, chi legge il profeta e chi l’epistola, chi canta il salmo e chi il Gloria; la preghiera dei fedeli deve vedersi alternare una persona diversa per ogni invocazione, e la processione dell’offertorio deve a volte somigliare a un corteo. Non così per il Papa. Continua il testo citato: “Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» – è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta”. Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle interpretazioni sociologiche banalizzanti di cui si diceva. E infatti prosegue il Papa: “La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell’essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia”.

Il problema della lingua liturgica

Chi abbia poco frequentato i testi (invero voluminosi) del concilio Vaticano II, è di solito persuaso che esso abbia decretato la soppressione della lingua latina nella Messa a favore di quella volgare. Si resta perciò colpiti nel leggere, all’inizio del punto 36 della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, la perentoria affermazione: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (cioè salvo che nei riti orientali, N.d.R.)”. La medesima costituzione delimita con precisione il possibile ambito della lingua volgare: “Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti. Il successivo punto 54, dopo aver ripreso tali possibili concessioni, definisce che “si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi. È del tutto evidente che i Padri conciliari, nell’approvare questo testo, non avevano minimamente l’intenzione di provocare la totale o quasi scomparsa della lingua latina dalla liturgia, cosa che invece accadde ben presto.

Non valendo per i chierici, che si supponeva ovviamente istruiti nella antica lingua liturgica, il problema di comprensibilità dei riti, la medesima costituzione conciliare afferma perentoriamente al punto 101: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina”. Come è noto, anche questa richiesta del concilio è stata quasi immediatamente e totalmente disattesa.

Nella già menzionata intervista del 5 settembre 2003, l’allora cardinal Ratzinger chiarisce in merito il suo pensiero. “In generale”, dichiara, “io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: «io sono nella stessa Chiesa». Perciò in generale, le lingue parlate sono una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.

In “Dio e il mondo”, p. 381, dice: “Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti”.

Oltre alla lingua latina, anche un’altra lingua liturgica comune è caduta, salvo qualche eccezione, sotto i colpi delle riforme postconciliari: la lingua del silenzio. Nella liturgia tradizionale, offertorio e canone eucaristico formavano grandi zone di silenzio sacro, in cui il sacerdote celebrava sottovoce di fronte all’altare, mentre il popolo accompagnava l’azione in silenzio orante. Come si è visto, sotto i colpi della interpretazione sociologica della “actuosa participatio” questo sacro silenzio si è ridotto a una breve pausa durante l’elevazione.

Nel più volte citato e fondamentale “Introduzione allo spirito della liturgia”, a p. 210-211, l’allora cardinale scrive: “Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ di comprensione. […] Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l’unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cos’è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito”.

Versus orientem

L’attuale papa ha sempre sostenuto, con numerosi interventi orali e scritti, il carattere arbitrario, contrario a una tradizione risalente ai tempi apostolici e pastoralmente poco produttivo, dell’orientamento verso il popolo del celebrante. Fino all’antichità cristiana più remota risale invece il fatto liturgico del comune orientamento di assemblea e celebrante, orientamento che – secondo la stessa etimologia del termine – era rivolto ad oriente, verso la direzione del sole nascente, simbolo del Cristo e della sua futura, definitiva venuta.

Nella citata intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale Ratzinger afferma: “«Versus orientem», direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi
questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune – prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia
”.

Un intero capitolo di “Introduzione allo spirito della liturgia” è dedicato a questo problema. Vi si legge ad esempio: “Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene” (p. 70-71).

Si dà di solito una duplice motivazione dell’innovazione consistente nell’orientamento del sacerdote verso il popolo: in primo luogo, egli rappresenterebbe Cristo nell’ultima cena seduto a tavola dirimpetto agli Apostoli; in secondo luogo, le grandi basiliche romane, e in primis San Pietro, sono rivolte verso occidente: il celebrante, se voleva volgersi a oriente durante la preghiera, doveva perciò guardare verso l’ingresso, e quindi verso il popolo. Nel testo sopra citato, il cardinal Ratzinger rivolge queste osservazioni a tali tesi, citando a sua volta e facendo proprio il testo di L. Bouyer “Architettura e liturgia”: “È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. […] Cito in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o solo anche qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente … Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui”.

Quanto all’Ultima Cena, si legge: “In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma. Da nessuna parte, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola”.

In ogni caso, l’autore si prende immediatamente cura di segnalare che secondo la dottrina cattolica l’immagine del “pasto” e del “banchetto” è totalmente insufficiente a determinare la natura della celebrazione eucaristica. Per l’allora cardinale “il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripeter questa novità, non il banchetto come tale”.

All’atto pratico, l’effetto più notevole della modifica apportata è di aver reso il sacerdote (e non più Dio) il centro della celebrazione. “Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione […]. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone […]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la parete», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importante” (p. 76 del testo cit.). Insomma “si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza” – in stridente contrasto con i fini dichiarati della riforma.

Vale la pena di sottolineare che le righe citate poco sopra, in cui l’attuale Papa disapprova la riduzione della celebrazione eucaristica a memoria di una cena, vanno a toccare tutto l’argomento della svalutazione dell’aspetto sacrificale proprio dell’eucaristia, svalutazione portata avanti da molti ambienti nel postconcilio. Nel citato libro-intervista “Rapporto sulla fede” leggiamo: “La Messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo”. La presenza reale del Signore nelle specie consacrate genera poi del tutto legittimamente forme di culto eucaristico anche esterne al rito della Messa: “Si è dimenticato che l’adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione «individualistica» ma della prosecuzione o della preparazione del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli «archeologi» della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato”.

Unità nella diversità

Abbiamo seguito i dettagli di una riforma liturgica che, secondo papa Benedetto XVI, non ha rispettato al meglio le richieste del concilio Vaticano II. Nelle parole del Papa che abbiamo riportato sono emerse varie proposte concrete di revisione della riforma: reintroduzione della celebrazione verso oriente, valorizzazione del sacro silenzio nel canone eucaristico, maggior spazio alla lingua liturgica universale e al canto gregoriano – e si tratta sempre di punti che vanno nella direzione di una maggiore aderenza all’ultimo concilio, nello spirito da più parti richiamato di una “riforma della riforma”. Un altro punto caldeggiato nei suoi scritti precedenti l’elezione papale, cioè la liberalizzazione dell’antica liturgia, è oggi in via di compimento per impulso del suo motu proprio Summorum Pontificum. Quale dovrebbe essere dunque l’evoluzione della riforma liturgica secondo il Papa? I due filoni menzionati sono infatti ben distinti: Benedetto XVI mira a una restaurazione della antica liturgia, ovvero punta a rettificare la liturgia esistente? Il Papa stesso non ha mancato di accennare una risposta a questa fondamentale questione. Ne “Il sale della terra”, p. 200, in replica a una domanda sulla opportunità di restaurare il rito tradizionale, il futuro Benedetto XVI risponde: “Da sola, questa non è una soluzione. […] un semplice ritorno all’antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent’anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un’esperienza di estraniamento insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. […] I luoghi dove la liturgia viene celeb
rata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli
”. Indietro non si torna. Piaccia o meno, l’atteggiamento che prevede la pura e semplice restaurazione del passato non è in sintonia con l’intenzione del Papa. I motivi allegati sono stringenti: un conto è non piegarsi a concessioni eccessive e gratuite alla attualità, un altro è il non accorgersi dei devastanti mutamenti culturali sopraggiunti dagli anni dell’ultimo concilio in poi. In un altro luogo Papa Benedetto XVI rammenta come, da professore in Germania, poteva ancora permettersi di citare passi in latino all’uditorio studentesco certo di essere compreso; adesso non più.

Si tratta dunque di prendere in esame la liturgia riformata, espungerne gli abusi mano a mano introdotti, e ricondurla nell’alveo delle intenzioni espresse a chiare lettere dal concilio Vaticano II. Qual è in tale progetto il ruolo della restituzione all’uso della liturgia tradizionale? Lo stesso Pontefice lo spiega nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum scritta ai vescovi: “Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione «Ecclesia Dei» in contatto con i diversi enti dedicati all’ «usus antiquior» studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”. La evoluzione “organica” delle due forme del rito romano deve dunque, per il Papa, riprendere di nuovo. Ed esse possono influenzarsi a vicenda: la forma tradizionale dovrà compiere gli aggiornamenti minimali (ad esempio circa il calendario liturgico) richiesti dal suo essere rimasta cristallizzata per quarantacinque anni. E soprattutto la forma riformata potrà e dovrà riconoscere nella forma antica un polo di attrazione, una norma a cui ispirarsi per tornare gradualmente nell’alveo della medesima evoluzione organica da cui gli anni della sperimentazione estrema l’avevano fatta uscire.

Le due forme potranno poi in futuro confluire in una – il Papa lascia aperta questa eventualità. Ma se anche non dovessero farlo, molte dichiarazioni passate e presenti dello stesso Pontefice lasciano capire che un certo pluralismo liturgico – pur nell’unità di fondo del rito – non sarebbe un male. Anzi, tale situazione di pluralismo si è sempre data all’interno del rito latino, senza minimamente danneggiare il culto: “Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico” (Rapporto sulla fede, cap. 9).

Nel già citato discorso tenuto a Roma, presso l’Hotel Ergife il 24 ottobre 1998, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio “Ecclesia Dei”, il futuro Papa Benedetto pronuncia le seguenti parole, che citiamo per esteso a conclusione di queste pagine: “C’è una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto – un pretesto asserito imperativo – che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all’assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione.

Esiste anche, fortunatamente, una certa avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di certi liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla “Oxford Declaration on the Liturgy” del 1996. Occorre riconoscere, d’altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell’individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può certo considerare questo come l’ideale di una celebrazione liturgica. Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dei vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c’era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio – come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all’azione liturgica — proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all’esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.

Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della «Costituzione sulla sacra liturgia», che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.

Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede.

Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto «un nuovo movimento liturgico» per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l’unità della fede e l’unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo, viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba né rompe l’unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori.

Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo.


Bibliografia

Riportiamo una bibliografia essenziale dei libri pubblicati dall’attuale Pontefice, dandone l’edizione italiana consultata. Le citazioni nel testo, per quanto estese, non fanno ovviamente giustizia a un pensiero vasto e articolato, in cui il tema liturgico ricorre di f
requente, a volte anche intrecciato insieme ad altri argomenti. Laddove possibile, un accesso diretto a tali opere è quindi insostituibile.

La festa della fede – Jaca Book – 1984

Rapporto sulla fede – Edizioni Paoline – 1985

Il sale della terra – San Paolo – 1997

Introduzione allo spitito della liturgia – San Paolo – 2001

Il Dio vicino – San Paolo – 2003

La comunione nella Chiesa – 2004

La fraternità cristiana – Queriniana – 2005

Fede, verità e tolleranza – Cantagalli – 2005

L’Europa di Benedetto – Cantagalli – 2005

Ragione e fede in dialogo – Marsilio – 2005

 (prefazione a) Uwe Michael Lang – Rivolti al Signore – Cantagalli – 2006

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ZENIT Staff

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