CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 26 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Ogni storia di migrazione è legata alla speranza: a quella di trovare altrove migliori condizioni di vita per sé e per la propria famiglia, ma anche quella di poter un giorno tornare nella propria patria.
Lo ha affermato l'Arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo questo giovedì sul tema “Emigrazione e speranza” all’Incontro di studio promosso dall’Associazione internazionale “Carità e Politica”, presso Caritas Internationalis, in Vaticano.
Durante l'incontro, organizzato a conclusione di un ciclo di conferenze sull’Enciclica di Benedetto XVI Spe salvi, il presule ha infatti osservato che emigrazione e speranza formano “un binomio inscindibile”.
Se “non può esserci emigrazione senza la speranza e il desiderio di una vita migliore, di lasciarsi dietro la 'disperazione' di un lavoro che non c’è e di un futuro impossibile da costruire”, al tempo stesso “i viaggi sono animati dalla speranza del ritorno, dal momento che le fatiche e la difficile vita del migrante sembrano più facili da sopportare se, un giorno, si potrà tornare a casa”, ha osservato.
L'Arcivescovo ricorda che l'Enciclica papale prende l’avvio dalle parole che San Paolo indirizza alla comunità cristiana di Roma, “Spe salvi facti sumus” (Rm 8,24) – “nella speranza siamo stati salvati” –, “per spiegare che in tale espressione è racchiuso il senso della fede in Cristo e, quindi, anche della redenzione, proprio perché essa – la salvezza – è offerta nella speranza”.
La speranza cristiana, osserva, “riguarda certo in modo personale ciascuno di noi, la salvezza eterna del nostro io e la sua vita in questo mondo”, ma è anche “speranza comunitaria, speranza per la Chiesa e per l’intera famiglia umana, è cioè sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me”.
La sollecitudine pastorale della Chiesa verso i migranti, ha sottolineato il presule, ha proprio questo compito e questa forza, cioè generare speranza.
Chi parte, del resto, “è generalmente disposto a tutto e, talora, tutto deve subire pur di non essere costretto a tornare fallito da un’avventura mal riuscita”, ha constatato.
“E' la speranza umana che illumina le vie dell’emigrazione e che rende possibile sopportare anni di fatica, lavori umilianti e condizioni di vita proibitive. Alcuni falliscono, ma altri riescono e ricostituiscono possibilità di vita per sé e per i propri figli, senza dimenticare che lo sviluppo e il benessere di molti Paesi, nel mondo, sono stati costruiti proprio da migranti capaci di avere speranze, di nutrirsi di sogni e di credere alle promesse”.
“Così, essi hanno dato un notevole contributo sia ai Paesi d’origine che a quelli d’accoglienza: si compiono in tal modo anche le speranze delle Nazioni e non solo quelle individuali e familiari”.
L’annuncio della speranza, nei contesti migratori, ha proseguito il presule, “sospinge verso inediti orizzonti”.
“Le nostre comunità cristiane devono diventare grandi nell’amore che dà speranza e che va oltre le pur legittime speranze terrene, poiché queste ultime sono tali che, una volta raggiunte, vengono già superate e non riescono a permeare di quella gioia che può venire solo dall’Alto, dall’Eterno”.
L'Arcivescovo ha quindi rivolto un pensiero alla Vergine Maria, “icona vivente della donna migrante”: “Ella dà alla luce suo Figlio lontano da casa ed è costretta a fuggire in Egitto. La devozione popolare considera quindi giustamente Maria come Madonna del cammino”.