ROMA, lunedì, 16 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre di Antonio Spadaro, SJ, Redattore letterario de “La Civiltà Cattolica” e docente di “Introduzione all’esperienza della letteratura” presso la Pontificia Università Gregoriana, apparso sull’ottavo numero della rivista “Paulus” (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.
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di Antonio Spadaro SJ
Il lettore di un testo letterario non è mai semplicemente il destinatario di un messaggio, quello cioè dello scrittore. Al contrario, è una persona attivamente coinvolta a inoltrarsi in un terreno poco stabile e definito, perché la letteratura, come giustamente ebbe a dire Carlo Bo, tende ad avere la stessa qualità della vita. Leggere non significa innanzitutto “interiorizzare” un testo, quanto piuttosto “interagire” con la pagina. L’atto della lettura è allora come un atto di “discernimento”, nel quale il lettore è implicato in prima persona come soggetto di lettura e, nello stesso tempo, oggetto di ciò che legge. Il lettore, leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà vive l’esperienza di “essere letto” dalle parole che legge. Così il lettore è simile a un giocatore sul campo: egli fa il gioco, ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente preso dalla situazione che vive. È questa anche l’esperienza cristiana della letteratura che, a mio avviso, deve sempre avere come modello di riferimento la lettura della parola di Dio. Per i cristiani, tutte le parole umane vivono un’intrinseca nostalgia di Dio e tendono alla sua Parola. Lo ha scritto anni fa Karl Rahner: «La parola poetica invoca la parola di Dio».
Seguendo questo ragionamento, san Paolo diventa una guida praticamente imprescindibile. Basta ricordare gli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (At 17,16-34). In particolare Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: «Poiché di lui stirpe noi siamo». In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove cita il poeta Epimenide (sec. VI a.C.), che riecheggia la triade platonica di vita-movimento-essere; e una diretta, dove cita i Fenomeni del poeta Arato di Soli (sec. III a.C.), che canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo.
Paolo, insomma, qui si rivela radicalmente “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo si accostarsi al testo letterario. Egli viene definito dagli ateniesi spermológos, cioè «cornacchia, chiacchierone, ciarlatano»… un vocabolo che però, alla lettera, significa «raccoglitore di semi». Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo, interagendo con quella manciata di versi letti chissà dove e chissà come, raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come «religiosissimi» e vede in quelle pagine una vera e propria preparatio evangelica.
Si potrebbe dire allora che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della parola di Dio, così come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (4,12-13), probabilmente di un collaboratore di Paolo. Così dunque la parola poetica autentica «è vivente [zón: è viva, brulicante; è – come affermò lo scrittore statunitense H. D. Thoreau – così vera e forte da schiudersi come gemma a primavera] ed energica [energhés: non è “atto”, ma “potenza”, energia] e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetrante fino a dividere anima e spirito, articolazioni [cioè la spina dorsale] e midollo; capace di discernere [kriticós: la parola poetica è il vero “critico”! Se la parola è poetica essa stessa ha una funzione critica nei confronti della mia vita] sentimenti e pensieri. Non c’è creatura invisibile [aphanés: la parola poetica vede il mondo, vede tutto, non oscura, ma illumina anche il dettaglio più apparentemente trascurabile; il suo sguardo è aperto] davanti ad essa, ma tutto è nudo e vulnerabile ai suoi occhi». È tutta qui la capacità di penetrazione di un testo che muove la persona a un coinvolgimento pieno.
Come, allora, non avvertire in sintonia con la parola creativa della poesia la parafrasi di Baldovino di Canterbury (sec. XII): «Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima». Del resto, Kafka, in una sua lettera all’amico Oscar Pollak, aveva scritto: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? […] un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.