di Mirko Testa
NAPOLI, venerdì, 13 febbraio 2009 (ZENIT.org).- La prima giornata di lavori del Convegno svoltosi a Napoli sul tema “Chiesa nel Sud, Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili”, ha messo in luce due aspetti fondamentali nel chiaroscuro della realtà odierna del Mezzogiorno: la crisi generata dall’individualismo post-moderno e la necessità di un impegno formativo rivolto a tutte le parti attive di una comunità ecclesiale.
Nella sua relazione, il prof. Giuseppe Savagnone, Direttore del Centro diocesano per la pastorale della cultura di Palermo e membro del Forum per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha rilevato come l’ambito ecclesiale soffra una sorta di dualismo tra il “piano nobile” e il “pianterreno”.
Esiste infatti, ha notato, da un parte “un piano nobile, sede dei convegni, dei consigli pastorali, dove si riuniscono gli esperti e si fanno discussioni belle e vere, dove si lanciano appelli, e dove ci si incontra spesso sempre con gli stessi”; e dall’altra “un pianterreno dove vive il popolo di Dio, che opera nelle parrocchie e dove questi messaggi non arrivano”, perché “i parroci lottano con il problema di organizzare la veglia o con il problema del turno delle prime comunioni”.
“Allora, il grande problema è che le Chiese del Sud dovrebbero rispondere alle emergenze in cui si trova il Mezzogiorno con tutta la forza del popolo di Dio, instaurando un nuovo stile del popolo di Dio. Ma questo invece non avviene”, ha commentato.
Savagnone non ha poi mancato di sottolineare alcune problematiche che caratterizzano il Meridione, come la scarsa propensione all’impegno sociale, civile e politico della gente spesso “prigioniera del fatalismo”.
“Noi abbiamo stentato a sostituire all’oscuro mito del fato la speranza cristiana – ha detto – e ci è piovuto addosso una cultura come quella post-moderna che ha annullato il senso della storia”.
Quello che si avverte è quindi il “senso di un destino da cui non si può uscire”, il “ritorno senza fine dell’identico per cui è inutile battersi per cambiare le cose” e chi si batte lo fa solo per quel “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, di cui parlava Tomasi da Lampedusa.
In particolare, ha spiegato, l’“individualismo post-moderno” ha prodotto diversi fenomeni: “la società si è disgregata, non ci sono più le appartenenze forti” e “lo stesso legame familiare sembra dissolvere in una specie di società per azioni che dura finché dura, come nelle coppie di fatto”.
E proprio qui, ha aggiunto, si gioca “la lotta contro la criminalità che dovrebbe essere frutto di una diffusa percezione della speranza cristiana, perché la criminalità è il sigillo del fatalismo”.
“L’individualismo nella società – ha tenuto però a osservare – si combatte se la Chiesa non è più individualista. Le nostre comunità spesso sono profondamente segnate dall’individualismo che poi condanniamo nei documenti, nell’ambiente che ci circonda. Non c’è la capacità di collaborare”.
“Ma se non smuoviamo l’individualismo nelle nostre comunità”, se non si riesce a instaurare una comunicazione che rispecchi “la franchezza della critica fraterna”, “la comunione – ha continuato – resta uno slogan teologico che possiamo ripetere all’infinito”.
“Noi vediamo spesso l’apostolato fatto da gente che cammina in ordine sparso – ha aggiunto – , senza un briciolo di capacità di cooperare per costruire qualcosa che vada al di là del proprio angusto orticello, un’opera veramente per il Regno di Dio”.
Quello che si avverte è anche “il dramma del sacro” che si manifesta nella “mancanza di laicità”: “il sacro consiste nel dire che Dio si può incontrare solo in certi riti, solo in certi luoghi, in certi momenti e da parte di certe persone per cui tutto il resto della vita resta fuori, resta profano, davanti alla porta del tempio”.
“Il cristianesimo è nella vita”, ha sottolineato mentre nelle parrocchie del Sud d’Italia è stato ridotto “a qualche cosa che si compie varcando la soglia del tempio, per cui il laico vale solo se diventa un vice-prete, un fedelissimo del vice-parroco. Ma non è questa la laicità”.
“Il vero problema è di formazione, di educazione – ha indicato poi –. Educare significa che quello che si svolge al piano nobile invece di appagarsi di se stesso si impegna con tutte le sue forze a penetrare nel pianterreno. Questo è inutile dirlo implicherebbe però un cambiamento drastico nei sistemi pastorali”.
Religiosità e impegno sociale
Nel prendere la parola prima delle due relazioni principali del giovedì, monsignor Paolo Romeo, Arcivescovo di Palermo, aveva notato come sebbene “la religiosità al Sud […] soprattutto a differenza di altre regioni d’Italia o del Nord Europa” sia “ancora legata ai valori religiosi”, la gente sembra avere uno “scarso senso dello Stato” e di “appartenenza alla cosa pubblica”.
“Cos’è mancato nella nostra azione pastorale? Perché non si è provveduto anche a una attenzione a quella religiosità che naturalmente dovrebbe portare anche a un impegno nella vita pubblica e nella vita civile”, si è chiesto.
A questa domanda ha poi fatto eco monsignor Antonio di Donna, Vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di Napoli: “come mai di fronte a tanto impegno pastorale che viene profuso nelle nostre chiese e nelle nostre comunità, stenta a nascere quel cristiano adulto capace di saldare fede e storia, pratica religiosa e giustizia, fede individuale e impegno nella città degli uomini?”.
Secondo il presule, la ragione va rintracciata in “un deficit di incarnazione di contenuti”, perché nella pastorale ordinaria, “gli orientamenti pur ricchi e generosi non si incarnano nella pietà popolare, nella catechesi, nella predicazione, nella preghiera”.
Per questo, ha detto monsignor Antonio di Donna, “bisogna ripartire da un rinnovato e più incisivo impegno formativo. Si tratta di rinnovare lo sforzo di educare tutto il popolo di Dio a partire dai sacerdoti, dai catechisti, fino agli operatori pastorali”.
Il presule ha poi lanciato come proposta che “i prossimi orientamenti della CEI sulla sfida educativa del secondo decennio del 2000 siano coniugati e tradotti nel contesto delle Chiese del Sud”, nella salvaguardia della loro specificità.
“In questo testo, particolare rilievo dovrebbe essere dato assolutamente all’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa – ha aggiunto –, molto citata ma poco conosciuta, che non è affatto divenuta parte costitutiva della catechesi e della evangelizzazione”, ponendo l’accento sull’“educazione alla giustizia, alla salvaguardia del creato e alla storia della santità meridionale”.
Tra Nord e Sud
Nel prendere la parola nella sere di interventi liberi al termine della sessione di lavori di giovedì, monsignor Bruno Schettino, Arcivescovo di Capua, ha invitato a “non calcare troppo la mano sulla diversità”, per il fatto che tra Nord e Sud del mondo esiste una “osmosi continua”, che si riflette in fenomeni come il “fallimento dei matrimoni”, oppure l’”odio razziale e per il diverso”.
“Noi, come sacerdoti, Vescovi e laici del Sud, dobbiamo sempre più realizzare un nuovo progetto culturale, un neo umanesimo nazionale e solidale, altrimenti cadiamo nel particolare che sicuramente offende e dà fastidio alle diverse componenti presenti anche nell’ambito delle comunità diocesane”, ha detto monsignor Schettino.
“Certi fenomeni come la caduta del mercato, il momento di forte crisi occupazionale, il calo di produttività sono il frutto amaro di una visione globale del mondo”, posto di fronte allo “scontro di universi culturali”.
“Il Sud oggi non è come vent’anni fa. Il Sud è profondamente cambi
ato anche in termini di negatività – ha continuato l’ Arcivescovo di Capua – . Non c’è più la solidarietà, l’unità delle famiglie, la gioventù buona che va in Chiesa”.
“Oggi il bullismo, il degrado morale, spirituale e culturale pervade il Sud per cui la lettura del Sud non è una lettura alla De Amicis ma è una lettura tragica dipendente dalla situazione globale presente in modo negativo in mezzo a noi”, ha osservato.
Prendendo la parola monsignor Giuseppe Greco, Vicario generale della diocesi di Siracusa, ha quindi voluto rileggere in chiave pastorale la questione degli immigrati, oggi più che mai al centro dell’opinione pubblica in Italia.
“Noi che siamo Sud – ha detto –, siamo nella condizione storica di accogliere tutti i Sud del mondo”, “i disperati della terra, che giungono sui barconi sfidando la morte”.
Per questo si è domandato: “Siamo noi attrezzati culturalmente non solo per accogliere – perché la Chiesa fa un’opera meritoria, le istituzioni pubbliche meno – ma anche per dialogare con loro, per accogliere ciò che portano di buono? Quale sarà lo sviluppo del dialogo a livello religioso, culturale tra noi e loro? Questo è un problema che non possiamo sottovalutare!”.
Anche monsignor Greco ha rintracciato nella “disaffezione alla cosa pubblica” e nella scarsa “sensibilità sociale e civile”, il sintomo di quel diffuso individualismo, che è “la più grave piaga da combattere”.
Per questo, il presule ha richiamato la necessità di una “educazione al senso della comunità e al senso della socialità a livello ecclesiale” come un impegno che non può essere disatteso dal cristiano.