di Luca Marcolivio
ROMA, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- L’emergenza educativa è un tema che chiama in causa ogni singolo soggetto della nostra società e richiede uno sforzo comune e una collaborazione da parte di tutti. Se ne è parlato il 9 febbraio all’Università Europea di Roma, in un incontro organizzato dalla Fondazione Universitaria Europea.
Prima di introdurre i relatori, il rettore dell’Università Europea, padre Paolo Scarafoni LC, ha fatto accenno al documento pontificio che ha dato lo spunto alla conferenza: la lettera sul “Compito urgente dell’educazione”, indirizzata da Papa Benedetto XVI alla Diocesi di Roma, il 21 gennaio 2008.
“L’educazione alla libertà – ha affermato Scarafoni – è sempre stata vista come una limitazione dell’intervento dell’autorità. Va invece cercato un equilibrio tra libertà e disciplina e servono educatori autorevoli che diano una testimonianza di vita”.
La professoressa Rosa Giannetta Alberoni, docente di sociologia generale allo IULM di Milano, editorialista e scrittrice, secondo la quale del relativismo etico sono responsabili tutte le agenzie educative e di socializzazione, dai genitori agli insegnanti, fino ad arrivare ai conduttori televisivi.
“I nostri figli – ha affermato la professoressa Alberoni – sono il prodotto del nostro modo di agire e del nostro fallimento educativo. Se manca la coscienza di ciò, non potremo mai rimediare al disastro formativo attuale”.
“La famiglia è la prima fonte d’educazione – ha proseguito la saggista –. I genitori tendono a controllare i figli fino a dieci, undici anni, dopodiché i ragazzi sfuggono loro di mano, rifugiandosi nelle comitive di amici, nelle loro ‘piccole tribù’ e nelle guide alternative (rockstar e simili) proposte dai mass media”.
Anche la scuola, secondo Rosa Alberoni, ha responsabilità enormi nello sfascio educativo, avendo trasmesso, dalla fine degli anni ’60 in poi, “l’idea che i bambini siano, in qualche modo ‘creativi’ e che ci si debba sempre e comunque ‘porre in ascolto’ dei figli fino alla maggiore età ed oltre. In compenso giungono all’università carichi di un’ignoranza abissale, ignorando persino i dieci comandamenti”.
Il punto di ripartenza non possono che essere i principi della civiltà giudaico-cristiana “i quali non dovrebbero essere oggetto di discussione, né di opinione, a partire dal quinto comandamento. Ognuno pretende il rispetto delle idee proprie ed altrui ma il punto è che le idee palesemente sbagliate non sono degne di rispetto”.
“La civiltà può evolversi e il sapere cumulativo va trasmesso – ha proseguito la Alberoni -. Tuttavia è ancora più importante insegnare e introiettare i valori cardine della nostra civiltà, validi in ogni tempo e nazione: questi principi dovrebbero essere la nostra ‘stella polare’”.
“Tutti questi valori dovrebbero essere trasmessi sin dall’infanzia. Nella società contadina ciò avveniva in quanto c’era una sana vigilanza sui più giovani. Non esisteva la retorica dell’ascolto del bambino: al contrario erano i figli che dovevano ascoltare i genitori e così dovremmo tornare a fare”, ha poi concluso.
La riflessione di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è partita dalla manipolazione di alcune terminologie legate ai fondamenti stessi della civiltà umana. “I bambini di oggi – ha osservato monsignor Fisichella – su quali concetti di Dio, di libertà, di verità, di uomo, di natura si confronteranno?”.
“La modernità – ha proseguito – ha voluto costruire un concetto di cultura in netto contrasto con quella dei secoli precedenti. Di fronte a luoghi comuni del tipo ‘mica siamo nel Medioevo’, a me viene da rispondere: magari tornassimo al Medioevo! Quell’epoca ha infatti visto la nascita delle prime università, della fioritura delle arti e dell’architettura: penso a grandi cattedrali o monasteri come Notre Dame o Chartres”.
“La postmodernità ha portato a una frammentazione del sapere che non potremo mai superare se non recuperiamo con spirito critico la nostra identità e le nostre radici. È trionfato un concetto di libertà, come valore superiore o indipendente dalla verità, quando entrambe dovrebbero camminare insieme”.
L’emergenza formativa, che ad avviso di Fisichella “fa parte del DNA della Chiesa” e dei cattolici, pone poi il problema della testimonianza e della coerenza. “Come disse una volta Paolo VI, l’uomo d’oggi ascolta più volentieri i testimoni che non i maestri, a meno che i maestri non siano anche dei testimoni”.
“È auspicabile che rinasca una circolarità formativa – ha proseguito il presule -. Famiglia, istituzioni, scuola e comunità cristiana devono collaborare per gli stessi obiettivi e su contenuti unitari. La famiglia può affidare l’educazione dei giovani alla scuola ma non può delegare questo compito”.
Altre chiavi della rinascita dell’educazione sono state individuate da Fisichella nel “rischio educativo”, auspicato anni fa da don Luigi Giussani, nel risveglio della “curiosità intellettuale” nei giovani e nel rifiuto della “teorizzazione della debolezza della ragione”. Tali assiomi devono andare di pari passo con una rivalutazione del ruolo pubblico della religione “Tanto più la vita religiosa è emarginata – ha osservato monsignor Fisichella – tanto meno progredisce la vita sociale”.
In definitiva “i giovani vanno allontanati dalla consuetudine e dall’ovvietà e vanno chiamati a rispondere alla sfida della verità”. “Il mito di Re Mida, che vede trasformarsi in oro anche ciò che mangia, ci insegna che vivendo di soli diritti si può morire e che, al contrario, la nostra vita è piena se c’è apertura all’altro”, ha poi concluso Fisichella.
La conferenza è stata completata da una testimonianza di carattere professionale, fornita da Gianluca Guida, direttore dell’istituto penale minorile di Nisida (Napoli). Guida ha analizzato il fenomeno della devianza giovanile, riscontrando come il fenomeno sia “radicato principalmente nelle grandi città e maggiormente percepito al Nord”, mentre al Sud prevalgono l’assuefazione e la rassegnazione che portano ad un numero limitato di denunce dei crimini.
La crisi di identità e il condizionamento del ‘branco’, si associano al “desiderio di apparire a tutti i costi, al punto che il compimento di un’azione deviante non è fine a se stessa ma strettamente legata al vedersi osservati mentre si delinque, come è successo per i baby-stupratori filmati dagli amici con il videofonino”. Si riscontra anche “una cura esagerata del proprio corpo e della propria immagine, dietro la quale c’è il vuoto più assoluto”.
Nella realtà degradata di Napoli e dintorni “la famiglia e le istituzioni sono in crisi come e più che altrove e il ruolo di aggregatore sociale è stato sostituito da un nuovo soggetto: la camorra. I boss della malavita locale costituiscono il vero modello, spopolano anche tra i giovani delle classi più agiate, trasmettendo il totale non-rispetto delle regole e un unico obiettivo: il proprio interesse”.
Sullo sfondo di questo scenario sconfortante “la detenzione carceraria svolge la funzione paradossale di rieducare al senso vero della libertà. Le regole non vanno viste più come imposizioni ma come strumenti utili a costruire la propria identità”. Dall’altro lato “i genitori hanno completamente perduto la credibilità e l’autorevolezza, quest’ultima intesa non come potere ma come legittimazione a trasmettere valori”.