ROMA, domenica, 8 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la lettera aperta a Beppino Englaro scritta per ilsussidiario.net da Mario Dupuis, fondatore e presidente dell’opera Edimar (realtà educativa che accoglie ragazzi disagiati), nel 14° anniversario della morte della figlia Anna, cerebrolesa grave.
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Carissimo sig. Englaro,
le parlo da padre a padre. Ho avuto una figlia, Anna, cerebrolesa gravissima dalla nascita, colpita da asfissia neonatale, il suo cervello ha smesso di funzionare per sempre. Oggi ricorre il 14mo anniversario dalla sua morte, Anna è vissuta per 15 anni, non ha mai parlato, non ha mangiato, né bevuto da sola. Era nutrita attraverso la P.E.G. e per farla respirare dovevamo somministrarle ossigeno, ogni giorno aspirarle il catarro e drenare i suoi polmoni.
Ho provato a dire “Anna è un dono di Dio, la vita ha un valore inviolabile”, ma non mi bastava, perché quando la realtà appare in tutta la sua crudezza, vuoi capire che cosa hai davanti e cosa c’entra il limite con il tuo desiderio di felicità. Si passa dalla ribellione alla rassegnazione, ma la domanda sempre più assillante e implacabile era: come faccio a guardare tutto questo senza soccombere, senza diventare cinico e rinnegare che la vita ha un significato seppure misterioso?
Ferito da questa impotenza ed incompiutezza, ma allo stesso tempo leale con queste domande, non volendo eluderle con facili risposte teoriche, mi sono “attaccato” a chi guardava Anna con una “strana” profondità e un’umanità diversa, che io, che ero suo padre non avevo. Questo è stato per me, all’inizio, motivo di grande disagio, fino a destare curiosità, percepivo che quella figlia lì, chiedeva qualcosa di profondo e di grande a me prima di tutto. Anna non si accontentava di essere trattata come figlia, non voleva essere ridotta al suo “stato”, Anna voleva essere trattata come qualcosa di più grande; Anna c’era per sfidare il mio solito modo – pur comprensibile e inevitabile – di ragionare e di reagire, che però censurava un fatto evidente: nella realtà c’è un quid che va oltre quello che vediamo. Se non ci accade qualcosa nella vita, non sappiamo dare un nome a questo “quid”, ma ciò non toglie che ci sia. Era evidente che ci fosse in Anna qualcosa di più grande che non riuscivo a nascondere a me stesso solo perché non lo vedevo, mentre ciò che vedevo mi generava dolore. Così ho imparato a conoscere Anna in modo nuovo, diverso, se non fosse stato così, avrei detto come tutti: sarebbe meglio se non fosse sopravvissuta.
Quando la realtà si presenta con il pungiglione della diversità e del limite esasperato, capisco che se uno non va fino in fondo, è costretto a rinnegare la realtà, ed è costretto a “staccare”, perché non ce la fa a sopportare una cosa che non sa guardare. Non ce la fa, e così si nega l’esperienza più umana che un uomo possa fare, quella di provare a guardare il limite fino al punto di desiderare con tutto se stesso qualcosa, qualcuno che può abbracciarlo. Non è innanzitutto una questione di “fede” o di valori condivisi; per me è stata una questione di lealtà con ciò che mi accadeva. E’ come se Anna mi dicesse: “Guarda papà che se il tuo cuore è fatto per un destino di felicità, allora è fatto per questo destino anche il mio, guardami così”. Questa è una sfida da accettare, non ci si può nascondere, questa sfida è come un tunnel, va percorso tutto, la devi fare tutta la strada per poter fare un’esperienza di bellezza anche dentro lì, fino ad arrivare alla certezza di un destino di felicità dentro l’apparenza di morte. Tutto ciò mi ha cambiato fino al midollo delle ossa, Anna è morta nel momento in cui cominciava ad essere più usuale trattarla così: non come essere bisognoso di tutto, ma come una persona che per il semplice fatto che c’è, è segno evidente che c’è un Altro che la vuole e che la porta al suo destino di felicità. Altro che rassegnazione in attesa dell’aldilà, perché questo destino di felicità era così evidente che chi, guardandola, ne prendeva coscienza, cambiava.
Così è cambiato il mio modo di guardare tutto il reale, me stesso e i miei figli e non solo gli handicappati. E’ successo così anche a tutti quegli amici che ci aiutavano e che a turno venivano ogni giorno a casa nostra a darci una mano e a fare compagnia ad Anna. Così è nata Ca’ Edimar a Padova: l’opera di accoglienza per adolescenti in difficoltà, dove viviamo in due famiglie insieme a 14 ragazzi, che per un certo periodo hanno bisogno di stare lontano da casa. Dove ogni giorno altri 60-70 ragazzi vengono a scuola di cucina. Gli amici di Anna da allora si dedicano ad opere di carità e accoglienza, tutto questo è nato dalla vita “inutile” di una bimba così!
Non la voglio convincere di nulla con questa mia testimonianza, ma solo dirle che mai avrei mai potuto immaginare che da un dolore così sarebbe nato un germoglio di novità umana. È proprio vero che la realtà ci sorprende oltre quello che noi vediamo e decidiamo. È così inutile la vita di una figlia immobile, quanti si domandano oggi grazie ad Eluana il significato della loro vita, perché chiudere la partita? Mi perdoni se ho osato scriverle.
Mario