di padre Angelo del Favero*  


ROMA, venerdì, 6 febbraio 2009 (ZENIT.org).- “La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1,30-31).

Per molti anni sono stati pochi quelli che parlavano di Eluana a Gesù. Ora, invece, da mesi tutta l’Italia non cessa di supplicare ardentemente l’ “Autore della vita” (At 3,15) per lei e per i suoi cari. E in questi giorni, il pensiero semplicemente atroce che il luogo dove l’hanno portata diventi per lei un “bunker della fame e della sete”, sta suscitando quella popolare, umanissima, vera e propria “idiosincrasia” della Vita nei confronti della morte che Gesù per primo manifestò davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro.

Informa infatti l’evangelista Giovanni che Gesù, saputo che ormai Lazzaro era morto, “quando vide piangere Maria e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: 'Dove lo avete posto?'” (Gv 11,33-34).

Dove lo avete posto”! Il senso profondo di tale domanda è rivelato dalla impressionante reazione del Signore davanti al sepolcro: “Gesù scoppiò in pianto” (11,35).  

E’ questa l’unica volta nel Nuovo Testamento che si usa il verbo “dakryo”, che indica un abbondante spargimento di lacrime. Esso non dice solo un intensissimo coinvolgimento emotivo del Signore, ma l’effusione umana di una piena divina, quella di una sorta di “rabbia” ontologica di Colui che è “la Risurrezione e la Vita” (11,25), per la constatazione che ancora una volta la morte ha esercitato il suo potere.

Allora alla domanda “Dove lo avete posto?”, Gesù stesso oggi sembra dare questa risposta di senso: “Dio ha creato l’uomo perché abbia la vita, e l’abbia 'in abbondanza' (Gv 10,10): non consegnatelo alla morte! Voi non dovete pensare che il sepolcro sia la “tomba della vita”, ma il vestibolo di quella vera e definitiva che ne è il compimento, la “vita eterna”. Ogni tomba sarà svuotata per sempre, grazie alla vittoria definitiva che Io sto per riportare sulla morte: l’Amore è più forte e fa vincere la vita!”.

Anche l’esperienza clinica ha dimostrato che quando una persona in coma neurologico, perfettamente viva ma in uno stato di vitalità che non può esprimersi esteriormente, si trova al centro di relazioni affettive intense e persistenti, può accadere d’un tratto che si “riaccenda” in lei la normale vitalità di un tempo, come prende fuoco un punto sul quale una lente concentra i raggi del sole.

Tutto ciò vale ancora per Eluana, crudelmente sottratta alla dolce amicizia di volti sereni, e rinchiusa nella gelida quiete di una sinistra stanza d’ospedale, come un’anticamera d’obitorio preparata per lei da una perversa volontà di morte.

Ma chi ha fede sa che “Colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare” (Ef 3,20), come già fece con la suocera di Pietro e con la figlia ormai morta di Giairo (Mc 5,35-43), e che da 17 anni è vicinissimo ad Eluana, da un momento all’altro potrebbe prenderla per mano e farla rialzare: miracolo assai più facile di quello della conversione alla Vita dei suoi falsi amici che non la sopportano viva. Ma per entrambe le cose “nulla  è impossibile a Dio” (Lc 1,37).

In questa V Domenica del tempo ordinario, “ottava” della XXXI Giornata per la vita (“La forza della vita nella sofferenza”), la Parola di Dio, incarnata nella persona e nella vicenda profetica di Eluana e delle suore che l’assistevano fino a pochi giorni fa, continua a parlarci del soffrire e del morire dell’uomo, un mistero esistenziale ineludibile ed inspiegabile al cuore, al di fuori della fede in Gesù crocifisso e risorto.

 La prima lettura, ci presenta lo sfogo di Giobbe, uomo giusto,  prostrato dal dolore che si è abbattuto all’improvviso sopra di lui: “L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario? […] i miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza” (Gb 7,6).

Tale pacato lamento di Giobbe era tuttavia cominciato in maniera molto più forte e  drammatica: “Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: 'Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un maschio!'”(Gb 3,1-3).

Commenta il cardinale A. Vanhoye: “Sono parole amarissime e rivelano l’estrema disperazione di un uomo che giunge a maledire la vita e ad invocare la morte, in un desiderio di dissoluzione che è totalmente contrario alla mente umana” (in “Il pane quotidiano della Parola”, p. 696). E’ necessario partire da questo testo per capire il messaggio di quello odierno, più sfumato.

Qual è l’argomento del libro di Giobbe? Esattamente ciò che è accaduto ad Eluana. E’ il passaggio sconvolgente ed inaspettato da una situazione di felicità e di pace a quella di un’abissale miseria.

Giobbe è un uomo felice, benedetto dal suo Dio con ogni benedizione, spirituale e materiale. Ed ecco che, per decreto divino, improvvisamente si vede precipitato in un baratro di dolore, senza apparente ragione. Giobbe, consapevole della propria fedeltà a Dio, vede in ciò una profonda ingiustizia e con i suoi amici ne vuole affrontare la causa invisibile.

Sì, l’uomo è la debolezza stessa fatta carne, e inoltre su questa terra è assoggettato ad un duro lavoro, un lavoro a tempo determinato, poiché i suoi giorni sono simili a quelli di un mercenario assoldato per un breve servizio. A causa della continua sofferenza i giorni e le notti sono lunghi, ma nello stesso tempo scorrono veloci, “più veloci di una spola”, e sono ormai senza speranza poiché l’uomo è “un soffio che va e non ritorna” (Salmo 78/77,39b).

Da un lato Giobbe desidera la pace del sepolcro, dall’altra vede giungere inesorabilmente la fine dei suoi giorni, e ne soffre come per una spasmodica astinenza di vita. Piuttosto che vivere così preferisce morire, ma, nello stesso tempo, desidera insopprimibilmente la vita. Ecco la sua lacerante sofferenza: anelito alla morte come riposo, e amarezza di vivere inutilmente. Dov’è andato il suo Dio?

E’ l’esperienza dell’uomo di ogni tempo, in balìa del ghigno sarcastico del dolore che ne tormenta l’anima assai più del corpo, perché sembra sottrarre quella risorsa della fede nell’esistenza di Dio, che da significato alla vita e senso ad ogni sofferenza.

Dov’era Dio il giorno e l’ora dell’incidente di Eluana? E di milioni come lei?  E dov’era in infinite altre situazioni simili e peggiori? La risposta non sta sul piano della sola ragione, ma su quello del rapporto di fede e amore con Dio.

Al termine del messaggio per la XXXI Giornata per la Vita  i vescovi hanno scritto: “Quando il peso della vita ci appare intollerabile, viene in nostro soccorso la virtù della fortezza”.  

La ammiriamo nella prima reazione di Giobbe, quando la sequenza catastrofica della disgrazie lo colpisce in un sol giorno: “Allora Giobbe si alzò…e disse: 'Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!'. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto” (Gb 1,21-22).

Lo stesso Giobbe, tuttavia, in seguito ad altre incalzanti disgrazie, dopo “sette giorni e sette notti” (2,13) di silenzio, come chi non ne può più, maledice il dono della vita rasentando la bestemmia: “e perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? [...]Perché dare la luce ad un infelice […] ad un uomo la cui via […] Dio ha sbarrato da ogni parte?“ (3,20.23).

< p>Ecco: “Questo che è in rivolta è il vero Giobbe. Questo è l’uomo reale – non ideale – che sussiste in noi, al di là delle immediate apparenze. In questo Giobbe tutti ci possiamo davvero riconoscere, mentre in quel Giobbe che era un gigante di fede, in quell’uomo quasi imperturbabile, che appena colpito dalle più gravi sventure sapeva dire: va bene così, non ci potevamo identificare. Era come il personaggio di una leggenda. L’uomo di fede non è soltanto quello che dice subito 'sì'. L’uomo di fede è un lottatore” (A.M. Cànopi, “Fammi sapere perché..”, p. 22).

Anche il padre di Eluana ha lottato e lotta contro il dolore, ma sembra farsene sopraffare, anziché riuscire a vincerlo mediante quella speranza che è sempre donata a chi si affida al Dio di Gesù Cristo. Gesù, infatti, è “L’uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3), e che perciò si è fatto “debole con i deboli, per guadagnare i deboli; […] tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22).

La conclusione del libro di Giobbe è esemplare per ogni uomo, oggi in particolare per la persona e la vicenda di Eluana, dei suoi familiari, e di tutti noi.

Giobbe dichiara: “Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. […] Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,2.5).

La fede nell’onnipotenza divina prima faceva dire a Giobbe che Dio è un despota spietato e che le creature non Gli toccano il cuore. Ora che la tenebra del dolore ha purificato il suo sguardo, egli comprende che tutto è pervaso dalla bontà del Signore e che Egli agisce secondo un progetto che nessuno può impedire.  Le prove e il dolore degli uomini sono all’interno del disegno buono di Dio.

Dio gli appare mentre è ancora in vita e gli concede di guardare al Suo cuore, eliminando tutte le contraddizioni che fanno soffrire l’uomo. In Dio la ‘ coincidenza degli opposti’ è una realtà viva e vivificante” (A. Weiser, Giobbe, 1975).

Non dobbiamo aspettare la sofferenza perché la grazia di un simile sguardo si posi sul nostro cuore. Basta far nostro il metodo di Gesù: “Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava”  (Mc 1,35).

---------

* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.