Umanesimo e desiderio di Dio

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ROMA, sabato, 31 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’editoriale del Direttore della Rivista di studi e ricerche sulla dottrina sociale della Chiesa, “La Società”, sul tema “Umanesimo e desiderio di Dio” (n. 6-2008 www.fondazionetoniolo.it/lasocieta).

 

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di Claudio Gentili

La Chiesa non cambia opinione seguendo i sondaggi, nè ispira ai sondaggi di opinione la sua azione. Purtroppo capita invece che alcuni cristiani, credendo di essere moderni, si conformino alla mentalità dominante e allo spirito del tempo. È sempre accaduto e sempre accadrà. D’altro canto non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare nel dibattito pubblico a evocare il tema della verità. La verità non è un passatempo per teologi. La sete di Dio e la sete della verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il prescinderne ne comprometterebbe l’esistenza. La ricerca di Dio e della verità è una esigenza insita in ogni persona che voglia arrivare a dare risposta alle domande fondamentali che toccano il senso della vita.

Due attacchi frontali a queste idee sono stati portati dalle tecnoscienze, con la pretesa di manipolare la creazione e dal relativismo, con la ragione umana che si chiude alla dimensione trascendente e considera vero solo ciò che è misurabile. Il XXI secolo è stato definito il secolo del “meticciato” e il multiculturalismo è diventato la nuova religione universale. Per assicurare libertà e tolleranza l’unica soluzione sembra eliminare la questione della verità e assumere come dogma universale che tutto è relativo. Tre filosofie dell’esistenza sono state esplorate nelle loro conseguenze sulla idea della verità da Henry De Lubac nel suo celebre libro “Il dramma dell’umanesimo ateo”. Un libro edito nel 1943, che conserva una straordinaria attualità. I padri fondatori di queste tre filosofie, sono Marx, Nietzsche, Comte. Sono grandi pensatori che hanno accompagnato il rinnegamento da parte dell’Occidente delle sue origini cristiane. E chi si attarda ancora oggi sul pericolo di identificazione tra Chiesa e Occidente ha riflettuto poco su questi fenomeni.

Umanesimo marxista, umanesimo nichilista, umanesimo positivista, sono la seducente proposta anticristiana che ci ha consegnato il secolo che si è concluso. In questi tre umanesimi c’è sicuramente qualcosa di vero e di buono che ha affascinato anche i cristiani. Nell’umanesimo marxista infatti il cristiano ritrova la predilezione di Cristo per i poveri. Nell’umanesimo comtiano (positivista) trova la parabola dei talenti. Nell’umanesimo nietzschiano ritrova la grandezza dell’uomo di cui parla il Salmo 8 (“Lo hai fatto poco meno degli angeli…”). Ognuno di questi tre sistemi di pensiero ha una logica interna che impercettibilmente e progressivamente allontana da Dio. Il collettivismo annulla il principio-persona. Lo scientismo si trasforma in dispotismo tecnologico. Il “superuomo” distrugge il senso della fraternità e della unità della famiglia umana. E non si dica che queste ideologie ce le siamo ormai lasciate alle spalle. I loro esiti culturali sono largamente presenti nel nostro tempo. Basti pensare al narcisismo, all’emozionalismo, al consumismo, allo statalismo, all’idolatria del denaro e alla fiducia cieca nella tecnica.

La crisi finanziaria che tanto ci angoscia e ci preoccupa nasce in fondo da una crisi morale. Non sembri fuori luogo ricordare che Adam Smith, il principale pensatore del moderno capitalismo, era professore di filosofia morale a Glasgow e prima di scrivere “La ricchezza delle nazioni” ha scritto “La teoria dei sentimenti morali”. Le proteste studentesche che dalla Pantera del 1989 contro il grande Ministro innovatore Ruberti e la sua legge sull’autonomia universitaria alle proteste degli universitari dell’autunno 2008 contro il Ministro Gelmini (che non aveva ancora fatto nessuna riforma universitaria) sono lo specchio di una condizione giovanile che si sente più sicura conservando l’esistente che innovando. Il diffuso dibattito pubblico sul precariato, da un lato manifesta l’angoscia legittima e comprensibilissima per il futuro di tanti giovani che non riescono a metter su famiglia, ma dall’altro (nella variante della ideologia del “precarismo”) rivela una concezione che rifugge il rischio e la fatica, predilige il posto pubblico e trova nella stabilità il massimo valore in un mercato del lavoro che è e sarà sempre più flessibile e turbolento.

Le indagini recenti (come quella della Diocesi di Firenze presentata nel dicembre 2008 sul “Protagonismo della famiglia nella ricerca del lavoro dei figli”) ci offrono uno spaccato per alcuni versi sconcertante in cui al biblico “Lascerà suo padre e sua madre…” si à sostituita una adolescenza che si prolunga oltre i 30 anni con giovani ventottenni accompagnati dai genitori ai colloqui di lavoro. Paura e ricerca di sicurezza sembrano la cifra del tempo che viviamo, un tempo lambito da una vera e propria crisi della speranza. Mai come oggi dobbiamo dire che cambiare il mondo significa toglier agli uomini le loro paure, ridurre le aggressività, dare una patria in cui ci si senta sicuri, a tutti ma soprattutto a bambini, stranieri, moribondi, malati, ridurre il divario tra il Nord e il Sud del mondo. In questo senso mettere il bavaglio alla Dottrina Sociale della Chiesa sarebbe un gesto contro i poveri. Se poi sono i cattolici a privilegiare una presenza pubblica low profile, in cui il silenzio sui temi politicamente più sensibili sia ritenuto saggio e opportuno, allora siamo all’autogoal. Questa semplice constatazione di buon senso è stata smarrita anche da quei cristiani che si rinchiudono negli spazi sacri e abbandonano lo spazio pubblico. Ma un’agorà senza lo spirito del Vangelo è più povera per tutti. La fede in Dio d’altro canto non ci rende tranquilli, non ha come scopo di farci dimenticare i problemi sociali del nostro tempo. Cristo, con le beatitudini, turba la nostra tranquillità.

La Dottrina sociale della Chiesa ci offre le coordinate per essere fermento di ecologia umana. La signoria di Dio non ci permette di offrire l’incenso ad alcun altro assoluto, ideologico, politico, scientifico. La riserva escatologica ci impedisce di identificare una qualche realizzazione storica con il Regno di Dio. La memoria dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, ci incalza e mette in questione il nostro presente. Benedetto XVI, nel suo straordinario discorso agli intellettuali, a Parigi, al collegio dei Bernardini, il 12 settembre 2008, ci ha ricordato la profonda relazione che esiste tra desiderio di Dio e sviluppo umano. Con il loro quaerere Deum i monaci benedettini hanno fatto cultura e sviluppato ricerca, hanno dato dignità al lavoro umano (sottovalutato nella concezione greca e latina che contrapponeva otium a negotium), coltivato le lettere. Con la musica traducevano l’adesione dell’uomo al mistero di Dio. Con il lavoro partecipavano alla creazione. L’esempio dei monaci, vale anche per noi. Nella confusione dei tempi che viviamo, piuttosto che diventare “cattoconfusi”, cercare, custodire, tramandare ciò che vale. Dietro le cose provvisorie cercare le cose definitive. È un messaggio che vale anche per noi e per il nostro tempo e che ci invita alla serietà e alla fatica dello studio e del discernimento.

La nostra Rivista ha in fondo questa ambizione e si propone non solo come strumento di studio ma anche come stimolo per avviare percorsi di formazione alla Dottrina sociale della Chiesa. C’è una sproporzione tra la povertà culturale dell’era delle veline e la grandezza culturale del Pontefice che lo Spirito ha suggerito per il nostro tempo. Benedetto XVI, la sua storia culturale e il suo Magistero, costituiscono per noi una grande occasione di rigenerazione e rinnovamento culturale. La cultura positivista oggi, vuole rimuovere nel campo soggettivo, come non scientifica la domanda su Dio. Ma questa sarebbe
la capitolazione della ragione e il tracollo dell’umanesimo. La fede, attraverso la DSC, viene educata a guardare nella verità il mondo, a fare discernimento sul bene della persona, a formarsi una coscienza sociale, a dare testimonianza fino al martirio.

L’individualismo imposto dalla globalizzazione, – come sostiene Alain Touraine nel suo ultimo libro “La globalizzazione e la fine del sociale” – ha sradicato i movimenti di massa, ha reso inservibili le categorie politiche e sociali con cui pensavamo il sociale. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per capire il presente e progettare il futuro. La riserva etica del movimento cattolico torna d’attualità nonostante il tentativo delle due maggiori coalizioni politiche di affogare nella neutralità del bipartitismo ogni specificità culturale e politica. La fede non può restare socialmente sterile o farsi irretire dalle sirene del relativismo e da una concezione falsamente neutrale della laicità. Anche oggi come nell’era del monachesimo, la fede diventa cultura e suscita nuove forme di presenza sociale e culturale. Nascono nuovi movimenti e si rinnovano le associazioni laicali di più lunga tradizione. La fede genera pensiero e opere sociali. Il volontariato si diffonde. I cattolici diventano fermento della società civile. La parrocchia per i giovani diventa competitiva con i luoghi dello sballo. La formazione genera una nuova classe politica meno legata al mero esercizio del potere e aperta alla speranza.

E accogliamo, come viatico per questo cammino non breve e non facile, l’invito rivolto da Benedetto XVI il 17 agosto 2008 nel suo viaggio in Sardegna: “Maria vi renda capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”. Una “nuova generazione”. È per questo che ci servono i tempi lunghi della formazione di una nuova coscienza sociale. Capace di coltivare il desiderio di Dio e la passione per la storia.

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ZENIT Staff

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