La Scrittura tra eternità e tempo

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ROMA, sabato, 31 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi stralci dell’introduzione generale scritta da monsignor Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, per l’edizione San Paolo della Bibbia con la nuova traduzione della Conferenza episcopale italiana (La Bibbia. Via, verità e vita, Cinisello Balsamo, 2008, pagine 2672, euro 29).

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di Gianfranco Ravasi

Parola divina e parole umane, Verbo e carne, eternità e tempo, infinito e spazio umano, Dio e uomo. Sono sempre due le prospettive da adottare nella lettura della Bibbia e due sono le luci che devono illuminare il cammino interpretativo del lettore credente.

C’è innanzitutto l’aspetto storico-letterario. Esso esige nel lettore una certa attrezzatura critica fatta di conoscenze specifiche. È questo il lavoro che compie l’esegesi, un termine che nella sua origine greca indica un «tirare fuori» dal testo tutta la sua ricchezza di contenuti e di messaggio, identificandone i mezzi espressivi e le sue forme. A quest’ultimo riguardo è importante saper identificare i cosiddetti generi letterari, cioè le varie modalità con cui si esprimono i diversi contenuti: differenti sono, infatti, i linguaggi adottati quando si deve codificare un testo giuridico, si innalza un inno di lode, si descrive un evento storico, si invoca un sostegno nella supplica, si elabora una lettera, si approfondisce con la riflessione un tema, si narra una parabola per illustrare un concetto, si proclama un oracolo sacrale e profetico, si ammonisce e si esorta a scegliere un comportamento morale e così via.

Naturalmente, oltre ai generi, sono molte altre le forme letterarie, i simboli, le tipologie espressive come anche le ricerche di taglio storiografico da condurre così da interpretare correttamente i testi biblici nel loro profilo storico-letterario. Anzi, soprattutto nella seconda metà del Novecento si sono moltiplicati altri metodi di scavo nella pagina biblica per coglierne meglio il suo aspetto letterario e il suo contenuto. Si è attenti, ad esempio, alla dimensione sociale in cui sono vissuti gli uomini e le donne della Bibbia e che è poi riflessa negli scritti sacri.

Si ricorre alla psicologia e alla psicanalisi per meglio decifrare alcune esperienze profetiche o il linguaggio delle immagini e dei simboli biblici e per penetrare nel mondo dei miracoli. Ci sono letture «femministe» della Bibbia, preoccupate di non confondere alcuni modelli storici ed espressivi patriarcali della società ebraica antica col messaggio della Sacra Scrittura sulla creatura umana. Altre volte l’attenzione si fissa sull’analisi delle narrazioni bibliche, sulle tecniche di convincimento che in alcuni testi sacri sono sviluppate attraverso la retorica, ossia l’arte della persuasione, come non manca il ricorso a moderni approcci di studio del testo nelle sue strutture (la semiotica).

Due sono gli ambiti nei quali l’esercizio della corretta interpretazione storico-letteraria si accende spesso di interesse vivace, anche perché tocca la nostra sensibilità attuale. Il primo è quello della «verità» che la Scrittura vuole comunicarci. In passato si confondevano i piani tra espressione e contenuto e così scattavano forti tensioni tra scienza e fede: tanto per fare un esempio, pensiamo alla teoria dell’evoluzionismo. Certo, l’autore sacro viveva in una cultura nella quale il modello scientifico era quello «fissista» per cui l’uomo era già compiuto e completo nel suo apparire all’interno di un mondo concepito, tra l’altro, in modo geocentrico. Era questo l’insegnamento che la Bibbia voleva offrire?

In realtà essa non voleva rispondere a domande di scienza riguardanti l’antropologia o l’astrofisica, bensì a interrogazioni esistenziali e religiose sul senso della vita, della creatura umana, dell’essere e del loro legame col Creatore. È per questo che pittorescamente sant’Agostino affermava che «non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: “Vi manderò il Paraclito per insegnarvi come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”» (De Genesi ad litteram, 2, 9, 20). Bisogna, dunque, interrogare la Bibbia in modo corretto, senza costringerla a risposte che non vuole offrire e che solo artificiosamente le possiamo strappare.

L’«inerranza» della Sacra Scrittura — come si era soliti dire in passato — non riguarda la scienza o la storiografia ma gli asserti religiosi. O meglio, la «verità» che la Bibbia ci vuole comunicare non è di tipo scientifico ma teologico, come ha sottolineato in modo nitido il concilio Vaticano ii: «I libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore, la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (Dei Verbum, 11). Le verità che le pagine sacre ci insegnano sono, perciò, quelle finalizzate alla nostra salvezza.

Non possiamo, però, ignorare che molti testi biblici sono striati di sangue e di violenza, di immoralità di ogni genere, non di rado senza un giudizio negativo, anzi, talora con una tacita o diretta, apparente o implicita approvazione divina. Essi generano reazioni scandalizzate nel lettore che sia sensibile non solo al messaggio dell’amore evangelico ma anche ai puri e semplici valori umani. È, questa, l’altra questione interpretativa, ancor più delicata e lacerante. Basta, infatti, sfogliare i primi capitoli del libro di Giosuè, che descrivono la conquista della terra promessa, per scoprirvi un cumulo di efferatezze e di stermini, posti sotto il sigillo dell’ordine divino. Altrettanto impressionante è la collera furibonda che pervade i cosiddetti «Salmi imprecatori» (ad esempio, Salmi, 58; 109; 137, 8-9). È indubbio che l’analisi letteraria fa capire subito che queste pagine risentono del linguaggio e dello stile caratteristici della cultura dell’antico Vicino Oriente che amava l’eccesso verbale, i colori accesi, l’esasperazione dei toni e aveva fiducia nella forza «offensiva» della parola stessa, fondamentale in una civiltà di tipo orale. L’odio per il male e l’ansia per la giustizia si esercitano, perciò, prima di tutto a livello verbale.

Ma tutto questo non basta per giustificare l’«immoralità» di quei testi. Decisiva per rimuovere questo ostacolo che si para davanti al lettore della Scrittura è un’altra considerazione. La via maestra per comprendere correttamente simili testi marziali o violenti o immorali è ancora una volta quella di tener presente la qualità specifica della rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica. La parola e l’azione divina non sono sospese in cieli mitici e mistici ma sono innescate nella trama tormentata e faticosa della vicenda umana. Esse non sono simili a una serie di tesi o verità astratte, raccolte in un florilegio scritto, ma sono come un seme che germoglia sotto il terreno arido, sassoso e opaco della storia e dell’esistenza. Dio, allora, si fa vicino e paziente, si adatta al limite e persino alla brutalità della creatura umana libera e progressivamente cerca di condurla verso un orizzonte più alto che ha nella legge evangelica dell’amore e del perdono il suo apice, ma che ha già nell’Antico Testamento squarci luminosi: «Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza (…) Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità» (Sapienza, 12, 18-19).

Proprio questa dimensione storica e progressiva della rivelazione biblica ci fa comprendere quanto pericolosa e illusoria sia la lettura «fondamentalista» della Bibbia, praticata da alcuni movimenti religiosi. Essa vorrebbe presentarsi come esemplare perché la sua fedeltà al testo è letterale, assoluta, ciecamente affidata alle parole e alle frasi così come esse materialmente suonano, senza applicare quella corretta interpretazione che conduce alla scoperta di ciò che veramente l’autore sacro voleva comunicare attraverso un linguaggio connotato e datato,
legato a un mondo culturale e sociale concreto e ormai lontano da quello in cui noi ora viviamo.

È, quindi, indispensabile il contributo dell’esegesi e dell’interpretazione — naturalmente ottenuto attraverso un metodo corretto — per essere autenticamente fedeli al senso vero della Sacra Scrittura. Per questa via non si dissolve la «lettera» della Bibbia e la sua storicità, ma si riesce a cogliere la «verità» che essa ci vuole comunicare così da divenire «lampada per i passi e la luce sul cammino» della vita del lettore (Salmi, 119, 105). In questa linea si riesce a comprendere il monito di san Paolo secondo il quale «la lettera uccide, è lo Spirito che dà vita» (2 Corinzi, 3, 6).

È per questo che la Bibbia è nel cuore stesso della liturgia, ove è proclamata, commentata, meditata e attualizzata. Essa è anche l’anima dell’annunzio della fede e della catechesi; è l’alimento della vita spirituale attraverso la lectio divina, ossia la lettura intima e fruttuosa che trasferisce l’appello di Dio nell’esistenza personale del credente. La Bibbia è alla base della teologia che a quella fonte attinge la verità da illustrare e approfondire e la norma morale da seguire nelle scelte personali e comunitarie. La Bibbia è alla radice del nostro legame con l’ebraismo ed è il terreno privilegiato per il dialogo ecumenico tra i cristiani che alla Scrittura guardano come a una stella polare. Anzi, figure, eventi e temi biblici pervadono, sia pure elaborati e trasformati, lo stesso libro sacro dell’islam, il Corano.

La Bibbia è il «grande codice» di riferimento della cultura. Per secoli personaggi, eventi, simboli, idee, temi biblici hanno offerto le immagini per le creazioni più alte della pittura e della scultura, sono stati trasfigurati nella musica, sono stati ripresi e ricreati dalla letteratura, hanno stimolato la riflessione filosofica e sostanziato la ricerca morale. Per rendere più disponibili le Scritture ai lettori di nuovi ambiti culturali e spirituali, fin dall’antichità si è proceduto a tradurre in nuove lingue quei libri.

In greco nacque, tra il iii e il ii secolo prima dell’era cristiana, la versione dei Settanta, così chiamata per una tradizione leggendaria che ne attribuiva la paternità a settanta studiosi riuniti ad Alessandria di Egitto per compiere questa impresa. In latino san Girolamo, tra il 383 e il 406, tra Roma e Betlemme, ove si era ritirato, si dedicò a preparare la Vulgata, cioè la traduzione «popolare» che dominerà nella Chiesa cattolica nei secoli successivi; le varie comunità cristiane antiche affrontarono altre versioni nelle loro lingue e così si continuò a fare fino ai nostri giorni, in tutte le lingue del nostro pianeta. Lo stesso accade anche a questa traduzione italiana che è quella ufficiale della Conferenza episcopale italiana, giunta ormai a una definitiva redazione.

Conservata alle origini su papiri, poi su codici di pergamena e persino su cocci di terracotta, divenuta il primo libro stampato (la Bibbia di Gutenberg del 1452), la Sacra Scrittura approda anche nella civiltà informatica sulle pagine elettroniche, testimoniando la sua presenza sempre vitale nella cultura dell’umanità e nella fede dei credenti. Ora è davanti a noi in questa traduzione rinnovata ed efficace, accompagnata da un commento che coniuga essenzialità e ricchezza di contenuti, offrendo spunti preziosi per l’uso liturgico e pastorale, senza però venir meno alle esigenze di una corretta e rigorosa esegesi e interpretazione.

Si ritrovano, così, in azione le due dimensioni della Parola divina e delle parole umane, della fede e della storia, del «Verbo» e della «carne». La Bibbia potrà, così, diventare «la via, la verità e la vita» del fedele nel cammino della sua esistenza e nella luce della sua presenza.

[Fonte: “L’Osservatore Romano”]

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ZENIT Staff

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