Wim Wenders rende omaggio ad Antonioni e a Bergman

ROMA, sabato, 10 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo scritto da padre Virgilio Fantuzzi, S.I., e apparso sull’ultimo numero della rivista “La Civiltà Cattolica”.

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Nel luglio del 2007 il regista Wim Wenders si trovava nella cittadina siciliana di Gangi, dove stava preparando le riprese del film Palermo Shooting, quando fu raggiunto dalla notizia della morte di Ingmar Bergman e di Michelangelo Antonioni, deceduti nel giro di poche ore l’uno dall’altro. Il film allora in preparazione, adesso sugli schermi, narra la storia di un fotografo che parla a tu per tu con la morte. Wenders non poté fare a meno di pensare al fotografo protagonista di Blow up (1966) di Antonioni e all’incontro del cavaliere con la morte ne Il settimo sigillo (1956) di Bergman. La dedica del film ai due maestri, che le circostanze hanno reso non soltanto opportuna, ma doverosa, non è dovuta esclusivamente a un sovrapporsi di strane coincidenze, ma a motivi profondi che legano la visione cinematografica del regista tedesco a quella dei due «poeti» della celluloide, appartenenti entrambi alla generazione che ha preceduto la sua.

Tra la veglia e il sonno

Il film inizia con immagini riprese in soggettiva nelle «catacombe» del convento dei Cappuccini di Palermo, dove si allineano cadaveri mummificati. A questa immagine si affianca quella di un orologio «liquido» come quelli che si vedono in certi quadri di Dalì. Siamo all’interno di un sogno. Un uomo dorme nella sua bella casa di Düsseldorf. È Finn, un fotografo di successo sulla quarantina, interpretato da Andreas Frege (nome d’arte Campino) star della band rock tedesca Die Toten Hosen, esponente di spicco della cultura punk. Wenders e Campino, amici di vecchia data, hanno già collaborato in altri film. Le «note di produzione» avvertono che è la prima volta che il regista gira un film (sia pure parzialmente) nella città natale.

Svegliatosi di primo mattino, Finn osserva da una vetrata la luce del cielo riflessa nelle anse del fiume che scorre ai piedi della collina dove sorge la sua casa. La voce off del protagonista cerca di dipanare i pensieri che si susseguono nella sua mente: «Che giorno è oggi? Non ne ho la minima idea. Prima il tempo, in un certo senso, trascorreva diversamente. Da piccoli le cose si percepiscono in modo diverso. Tutto sembra durare un tempo prodigiosamente lungo. Ma adesso non dormo più molto. Appena precipito in un sogno subito mi sveglio di soprassalto come se il sonno fosse ogni volta una piccola morte». Queste parole, poste all’inizio del film, enunciano gli elementi che ne costituiscono la sostanza. Sono le idee che, ripercuotendosi di film in film, caratterizzano da sempre il cinema di Wenders: lo scorrere del tempo e la sua percezione, il rapporto tra tempo e fotografia (tempo e cinema), il confronto tra la veglia e il sogno, il sonno inteso come anticipazione della morte.

Diviso nella professione tra l’impegnativa attività di fotografo artista, che gli ha procurato fama internazionale, e quella più lucrativa di fotografo per le riviste di moda, Finn vive una vita brillante, ma disordinata e, in definitiva, stressante. Non dorme mai, il suo cellulare suona in continuazione. Lo vediamo sovente alla guida di una fuoriserie di lusso, una spider d’epoca, di marca inglese, che corre con la velocità di un proiettile. Alterna il lavoro nello studio con passatempi rumorosi nei locali notturni. Ha una vita sentimentale ingarbugliata. Preferisce incontri occasionali a relazioni durevoli. L’i-Pod gli spara negli auricolari musica a tutto volume che lo isola dalla realtà circostante. Tra i gadgets di lusso che lo circondano, predilige una Nikon panoramica che potrebbe giocargli brutti scherzi, soprattutto quando la maneggia con disinvoltura mentre sta al volante della sua Austin Healey lanciata ad alta velocità, tanto è vero che, sul più bello, incappa in un pericoloso incidente, un crash evitato per un soffio, se si crede a certe immagini del film, mentre altre, che mostrano un rapido accartocciarsi di lamiere, sembrano indicare che le cose potrebbero essere andate diversamente.

A un certo punto, sarà per via dell’incidente oppure per una forma patologica di stanchezza che si manifesta con sintomi persistenti di narcolessia, Finn decide di staccare con la sua vecchia vita e di cominciarne una nuova. Il pretesto gli è offerto da un servizio fotografico con la modella Milla Jovovich che, incinta al settimo mese, chiede che gli scatti avvengano in un luogo tranquillo. Finn decide di punto in bianco di recarsi con la modella e uno staff ridotto a Palermo. «Panormus tutto porto», precisa indicando l’etimologia del nome greco della città. Terminato il lavoro, Finn decide di prolungare la sua permanenza nel capoluogo siciliano.

Armato di un apparecchio fotografico a soffietto, dal quale non si separa mai, Finn si immerge nel dedalo dei vicoli che vanno dalla Vucciria a Ballarò. Passa e ripassa per il crocevia dei Quattro Canti che, con le sue quinte barocche ornate di balconi, cornici, finestre e nicchie dalle quali troneggiano le «santuzze» protettrici delle città (santa Cristina, santa Ninfa, santa Oliva e santa Rosalia), costituisce per lui un centro di attrazione ideale, dove si addormenta sul basamento di una fontana, salvo destarsi di soprassalto quando il frastuono del traffico veicolare e pedonale si fa particolarmente insistente e perfino aggressivo. Nel corso delle sue peregrinazioni, tra un sonno e l’altro, visitato sovente da immagini oniriche nelle quali si sovrappongono elementi desunti dall’ambiente circostante e reciprocamente accostati secondo i ghiribizzi di una fantasia scatenata, Finn incontra Flavia (Giovanna Mezzogiorno, figlia dell’attore Vittorio), una ragazza che assomiglia a una Madonna del Rinascimento e, a detta di Wenders, riflette la stessa luce interiore che palpita sul volto della Vergine Annunziata dipinta da Antonello da Messina, capolavoro che si ammira nella Galleria regionale della Sicilia, ambiente dove Flavia lavora come restauratrice.

Fotografo lui, restauratrice lei, i due vivono entrambi a stretto contatto con le immagini. Ma sulla diversità del rispettivo punto di vista torneremo più avanti. Per ora ci basta vederli salire assieme sulla luccicante vespa rossa della quale lei dispone e destreggiarsi tra il traffico cittadino per andare alla ricerca di un letto dove lui potrà finalmente dormire. Ossessionato dalla presenza (non si sa se reale o immaginaria) di un misterioso uomo incappucciato che tenta di ucciderlo con arco e frecce, Finn si lascia convincere ad accompagnare Flavia a Gangi, dove lei si reca a trascorrere qualche giorno nella casa di famiglia rimasta vuota dopo la morte di sua madre. La ridente cittadina, incastonata nel verde delle Madonie, sembra voler offrire ai due un’oasi di serenità dopo i rumori assordanti e la confusione da cui sono stati scombussolati nel centro caotico della città.

Il rovescio della trama

Può darsi, però, che il film racconti una storia diversa da quella che abbiamo cercato di seguire finora. Quando Finn e Flavia si incontrano per la prima volta, lui dorme su una panca con il capo riverso. Lei, armata di fogli da disegno e carboncino, lo ritrae senza che lui se ne accorga. Quando lui si sveglia, lei gli chiede di rimanere nella stessa posizione per poter ultimare il lavoro. Lui vorrebbe fotografarla. Obiettivo contro disegno a mano. Lei non accetta la sfida che le sembra innaturale. Il breve dialogo tra i due vede alternarsi sullo schermo i primi piani degli interlocutori inquadrati sottosopra. Lui ha il capo che pende dalla panca sulla quale è sdraiato. Lei, vista dagli occhi capovolti di lui, appare come se fosse capovolta. Ma dove vanno questi due esseri viventi che sembrano camminare con i piedi in aria e il capo in giù? Camminano forse sulla terra? Evidentemente no. Sono vivi o sono morti?

Sia che si tratti di persone vive, sia che si tratti di morti che indugiano in questo mondo prima di avviarsi definitivamente verso l’eterna dimora, Finn e Flavia sono caratterizzati da uno stretto legame con la morte. Finn ha paura dell’acqua. Esita a lun
go prima di immergersi in una piscina. «È una fortuna imparare a nuotare da bambini — riflette —. In questo modo ti puoi risparmiare delle figuracce. È dipeso da mia madre. Aveva paura dell’acqua…». Quando si decide a scendere in acqua e comincia a nuotare, la macchina da presa lo inquadra da sotto e da sopra la superficie. È un’anticipazione di quanto accadrà nel porto di Palermo, dove Finn affonda credendosi colpito dalla freccia del misterioso arciere che lo perseguita. L’acqua, la mamma, la paura di morire annegato… Sono simboli che si intrecciano nell’ordito del film e rimandano in continuazione al punto in cui la vita entra in contatto con la morte.

La situazione deve essere affrontata con un coraggio che, per il momento, Finn non ha. La paura che toglie lucidità alla mente non giova a nulla. Dopo l’incidente automobilistico Finn vaga in una sorta di limbo. Non sa se è vivo o morto. «Potrei essere morto — balbetta —, invece no. Potrei sentirmi doppiamente vivo, invece no». Gli appare un fantasma che ha il volto di un noto chitarrista e cantante (Lou Reed) e gli chiede a bruciapelo: «Di che cosa hai più paura? Cos’è che ti fa inorridire? La morte?». «Vorrei tanto che cambiasse qualcosa — risponde Finn con aria trasognata —, anzi, che cambiasse tutto». In effetti, tutto sta per cambiare. Oppure tutto è già cambiato da tempo. L’incidente mortale potrebbe essere accaduto prima ancora che il film abbia inizio. Il montaggio per così dire rapsodico della pellicola, con il continuo sovrapporsi e mescolarsi di tempi e luoghi diversi, con il reciproco confondersi di realtà e di sogno, talvolta sognato a occhi aperti, consente diverse interpretazioni delle immagini che appaiono sullo schermo.

Dopo l’incidente, ad esempio, torna la soggettiva sulle «catacombe» dei Cappuccini, già vista all’inizio del film, ma questa volta è Finn stesso che attraversa gli ambulacri camminando tra i cadaveri mummificati con sulle spalle il corpo della madre malata, la quale tenta di coprire con le mani gli occhi del figlio. Quale differenza tra l’ostentazione dello spettacolo macabro della morte nel sottosuolo di Palermo e l’ameno giardino tra le cui aiuole fiorite sono disseminate le tombe nel cimitero di Düsseldorf, dove ogni traccia della morte è accuratamente dissimulata!

Elaboratori di immagini

Il senso del film può essere colto, a nostro avviso, mettendo a confronto due grandi scene nelle quali Finn e Flavia esercitano, indipendentemente l’uno dall’altra, la propria professione di elaboratori di immagini. Nello spazioso e attrezzatissimo studio fotografico dove Finn lavora con i suoi assistenti a Düsseldorf, lo vediamo impartire ordini a coloro che stanno per modificare con l’uso della tecnologia digitale una grande foto destinata a una mostra che sta per essere allestita nel museo di San Paolo del Brasile. La foto rappresenta un vasto paesaggio urbano al quale vengono aggiunti sul davanti un paio di edifici, a destra e a sinistra, per renderlo più compresso. Altri edifici sono stati alzati di qualche piano. L’orizzonte appare in questo modo più dilatato e ha guadagnato in profondità. Per quanto riguarda il cielo, c’è la possibilità di sceglierne più di uno nella vasta gamma di quelli che sono a disposizione. «Montiamo il cielo all’alba lì a sinistra — dice Finn —. Le nuvole dell’Arizona in mezzo. A destra il tramonto dell’Australia occidentale… Qui sulla vetrata della terrazza si specchia il sole del mattino e nella piscina sul tetto il cielo e le nuvole… E adesso il tocco finale: da sopra, giù giù nel corpo della città deve lentamente diventare notte».

La possibilità di manipolare le immagini fotografiche avvalendosi della tecnologia digitale è spinta, in questa scena del film, fino al parossismo. A questa scena, inserita nella parte del film ambientata in Germania, se ne contrappone un’altra, nella parte ambientata in Sicilia. Flavia lavora nella Galleria regionale, che si trova nel palazzo Abatellis di Palermo, al restauro di un grande affresco che rappresenta il Trionfo della morte. È una tipica allegoria medievale, dove la morte appare in figura di scheletro che cavalca un destriero tutto pelle e ossa, con le costole bene in vista. Sembra uno dei cavalieri dell’Apocalisse, che colpisce con frecce accuminate i poveri mortali. Piomba in mezzo a un gruppo di giovani gaudenti i quali non sanno che stanno per morire. Sotto gli zoccoli del cavallo giacciono i corpi dei potenti (il papa, l’antipapa, l’arcivescovo di Palermo, il re allora regnante…) che già sono stati colpiti dagli strali del cavaliere. Da un lato si vede un gruppo di miserabili (storpi e mendicanti) i quali sembrano supplicare la morte di toglierli da questo mondo per mettere fine alle loro sofferenze, ma la morte non si cura di loro e li lascia in vita. L’affresco è stato eseguito verso la metà del XV secolo da un pittore anonimo che, con ogni probabilità, è stato in contatto con il Pisanello quando questi, per qualche tempo, soggiornò presso la corte reale di Napoli dove fu accolto con tutti gli onori.

Con pazienza, degna di un certosino, Flavia cerca di ridare forma ai frammenti dell’affresco che sono stati danneggiati nel corso del tempo. La sua azione riflette, nei confronti dell’immagine, un atteggiamento diametralmente opposto rispetto a quello di Finn. È vero che ci troviamo in ambiti diversi, che non consentono confronti diretti. Una cosa è modificare una foto servendosi di mezzi elettronici, altra cosa è restaurare un’immagine danneggiata dal tempo. Tuttavia, è evidente che, mentre Flavia cerca nell’immagine una verità che sfugge alla percezione dei sensi perché parzialmente cancellata, Finn cancella dall’immagine quello che si vede, modificando arbitrariamente l’aspetto delle cose. La diversità dei due atteggiamenti è esplicitata da alcuni dialoghi che nel film seguono le due grandi scene sulle quali ci siamo soffermati.

In un’aula scolastica dove Finn è alle prese con un’alunna che non sopporta le osservazioni dell’insegnante assistiamo a uno strano battibecco. «Vorrei dirle cosa mi disturba del suo lavoro — dice la giovane rivolgendosi a Finn con tono aggressivo —. Visto che trova vuote le mie foto, vorrei sapere per lei cosa si nasconde sotto la superficie». «Niente — risponde Finn —. Le cose sono soltanto superficie. Non è poi così difficile da capire». È questo il suo credo, ma la giovane non ne è assolutamente persuasa. «No — dice —. Se non c’è niente dietro le cose, allora non c’è neanche bisogno che le fotografiamo. È inutile darsi tanto da fare. Tanto vale ubriacarsi aspettando di andare in pensione. O morire in anticipo». Questo è il punto. La ragazza di Düsseldorf fa sapere al suo maestro che ormai lui è arrivato al capolinea. Con la sua pseudo-arte basata sulla convinzione che dietro la superficie delle cose non c’è niente e che le immagini possono essere modificate con un clic, non ha più nulla da dire. La morte, che può sopraggiungere in qualsiasi momento, non toglierà nulla alla sua vita che ha perduto, nel corso del tempo, il suo significato originario. Ma questo discorso, che sembra concludersi a Düsseldorf, è destinato a essere ripreso sotto un altro cielo.

A Palermo, dove si sente insidiato, come si è visto, da un arciere che tenta più volte di colpirlo con le sue frecce, Finn non sa se credere o non credere ai propri occhi. Pensa di avere delle allucinazioni. Ne parla con Flavia e si stupisce nel constatare che la giovane crede alle sue parole. «Fino a pochi giorni fa — dice Finn — credevo soltanto a quello che vedevo. Adesso sono confuso». Poi, rivolto a Flavia, domanda: «Tu credi nelle cose che non puoi vedere?». «In realtà — è la risposta —, io credo soltanto nelle cose che non posso vedere, cioè Dio, l’amore, la vita». L’atto di fede di Flavia si contrappone, dentro il film, alla professione di agnosticismo espressa da Finn nel suo dialogo con l’alunna che si è permessa di criti
care il suo lavoro. Turbato dalla presenza della morte che incombe sulla sua vita e aiutato dalla «fede» di Flavia, il fotografo passa da una certezza negativa a una condizione di dubbio. Non ha ancora trovato un porto dove gettare l’àncora, ma sente che ci si sta avvicinando.

A tu per tu con la morte

Nel corso di una conferenza stampa per la presentazione del film, che si è svolta lo scorso 11 novembre a Palermo nel palazzo Abatellis, davanti all’affresco del Trionfo della morte, Wenders ha dichiarato: «Nelle tematiche dei miei film c’è sempre una tensione verso il trascendente di matrice cristiana. Nell’era del consumismo c’è l’idea di mettere da parte il pensiero della morte, di rimuoverlo del tutto. La restauratrice Flavia crede nelle cose invisibili, mentre Finn è un agnostico che crede soltanto in quello che vede. Dall’incontro di questi due diversi modi di pensare esce fuori il senso del percorso dell’essere umano. Palermo diventa una metafora del vero senso della vita, di ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Ma il senso della vita lo si può scoprire soltanto se si ha il coraggio di scoprire il senso della morte. Questa è una città ideale per rappresentare il rapporto che c’è tra la vita e la morte. Palermo è una città molto vitale, ma qui ci sono anche le “catacombe” del convento dei Cappuccini, c’è questo autentico capolavoro che è il Trionfo della morte, c’è la festa dei morti che si celebra con solennità il 2 novembre… Una città che, vista in superficie, può sembrare povera, ma che diventa straordinariamente ricca agli occhi di chi sa guardare in profondità».

Prima che il film si concluda, Finn incontra la morte, interpretata dall’attore Dennis Hopper. L’incontro avviene in un’antica biblioteca che ha la forma di un labirinto. A Finn che terrorizzato tenta di fuggire, la morte grida: «Non c’è nessuna uscita qui. Sono io l’uscita. Non esiste uscita dall’uscita». La morte si lamenta per tutto quello che deve fare. «C’è molto lavoro. Si rimane sempre indietro. C’è troppa gente che muore. Aids, guerra, povertà, catastrofi… E va sempre peggio, giorno dopo giorno». Dopo aver recuperato un po’ di calma, Finn dice di non avere nessuna intenzione di morire: «Io amo la mia vita». «A me, veramente, non sembrava — soggiunge la morte —. Ho guardato con molta attenzione». Il dialogo si fa più serrato: «Può darsi che fossi troppo impegnato». «No. Non è questo. Tu non hai onorato la vita». «Io sto per cambiare». «Mi dicono tutti così quando mi incontrano. Comunque abbiano pasticciato con la loro vita, vogliono tutti rifarsi del tempo perduto». La morte mostra di conoscere ogni aspetto della vita del suo interlocutore. Poi, riconoscendo in lui un fotografo, si mette a parlare di fotografia.

«Io non ho niente contro la fotografia — dice la morte —. Sono addirittura entusiasta di quell’invenzione. Mostra gli sforzi del mio lavoro più di ogni altra cosa… La  morte al lavoro… È così che la maggior parte delle fotografie dovrebbe essere chiamata. Immortalare la vita. Mi piaceva tantissimo l’idea del negativo: l’altra faccia della vita, l’altra faccia della luce». «Le macchine fotografiche non lo usano più — dice Finn —. Ora siamo passati a una cosa chiamata digitale». «Questo è esattamente il punto in questione — dice la morte —. Con il digitale non devo credere in quello che c’è lì davanti. È un aperto invito alla manipolazione. Tutte le cose diventano casuali, mescolate, disordinate, confuse. Perdi l’essenza». Poi, cambiando tono di voce, aggiunge: «E tu l’hai persa spesso e volentieri, Finn. Tu hai paura del mondo reale, della luce reale, dell’oscurità reale. Tu vuoi dirigere, vuoi imbellettare la realtà o, peggio, cerchi di ricrearla. Questa è la paura della morte. La paura della vita. Tu non hai capito la mia vera natura. Io amo la vita. La porto nel cuore. Voi mortali non avreste nessun apprezzamento della vita senza di me».

È questa la chiave di volta del film. Nella già ricordata conferenza stampa Wenders ha così precisato il suo rapporto con le immagini digitali: «Nel cinema sono stato tra i primi a utilizzare la tecnologia digitale. Come tutti i registi anch’io tendo a modificare l’immagine in maniera creativa, come faceva Méliès ne Il viaggio nella luna (1902). Anche in questo film ci sono trucchi alla Méliès, nelle sequenze dei sogni o nelle apparizioni dei fantasmi, ottenuti con tecnologia digitale come si fa oggi. Anche quando si utilizzano le nuove tecnologie, l’importante è che la loro funzione resti quella di guardare e capire la realtà. Con la fotografia però è differente. Io penso che la diffusione del digitale abbia contribuito a modificare l’etica della fotografia. All’inizio, con la pellicola normale si rappresentava un’azione unica nel tempo, ogni foto rappresentava un evento vivo. Oggi non è più così. Non esiste più il concetto di verità. Ogni pixel la modifica. Mi piange il cuore quando penso che fra qualche anno nessuno ricorderà più cosa sia un negativo. Credo di non esagerare se dico che si tratta di una delle rivoluzioni più radicali del nostro tempo, perché con il digitale muta anche il nostro rapporto con la morte e la mortalità. Ormai percepiamo ogni cosa come immortale e abbiamo perso completamente la coscienza del nostro essere mortali. La morte è un punto di vista privilegiato per guardare la propria vita, l’unico che consente di farlo in maniera radicale. Questo è il messaggio del film».

Nel dialogo con Finn, la morte si concede un momento di debolezza. Tutti se la prendono con lei credendo che sia una cosa cattiva. Gli uomini pensano a lei come se fosse qualcosa di crudele, mentre invece è gentile e tenera. «Io sono l’apertura, sono il mezzo di connessione, non una strada senza uscita. Sono la sola via di uscita». Commosso dalle parole di questo sfogo, Finn domanda: «C’è qualcosa che posso fare per te?». La morte non nasconde la sorpresa di fronte a tanta delicatezza d’animo. È il momento dell’incontro ravvicinato tra i due. Dai primi piani, che si alternano, si passa ai primissimi piani. «C’è qualcosa che tu potresti fare per me», dice la morte. «Cosa?», domanda Finn. «Mostrarmi che hai perso tutta la tua paura… e che capisci». Finn abbraccia la morte che ricambia l’abbraccio con tenerezza. «Adesso fammi onore — conclude la morte —. Mostrami agli uomini facendo sì che essi vedano me in loro stessi. Fa vedere che io sono in ognuno di loro. La mia faccia è quella di ognuno di loro. Che l’orrenda faccia della morte è soltanto opera loro». Prima di accomiatarsi, la morte chiede a Finn di farle una foto, ma al momento dello scatto la morte cede il posto alla madre di Finn, morta ormai da molto tempo, la quale scompare a sua volta in un alone di luce.

Finn e Flavia si risvegliano a Gangi nel lettone che era stato dei genitori di lei, morti entrambi. Alla «fede» della giovane Finn ha aggiunto il coraggio che ci vuole per affrontare il problema alla radice. «Quanto tempo è passato? — si domanda —. Un paio di giorni? Una settimana? Due? A me sembra un’eternità. Per la prima volta dopo tanto tempo questo istante è soltanto questo istante. Forse ora tutto dura nuovamente di più…». Rivolto a Flavia aggiunge: «E forse ora io posso conoscere meglio te e tu me». Flavia risponde semplicemente: «Tu». I due sono adagiati sul letto. Senza che i loro capi si sollevino dai guanciali la macchina da presa gira su se stessa di 90 gradi facendo passare i loro volti dalla posizione orizzontale a quella eretta. Allusione alla possibilità di stabilire un rinnovato rapporto con la vita dopo l’esperienza del duro confronto con la morte.

© La Civiltà Cattolica 2009 I 37-46  quaderno 3805

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ZENIT Staff

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