“La sfida principale posta dall'aborto in Messico è culturale”

Sostiene Rodrigo Guerra, della Pontificia Accademia per la Vita

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di Jaime Septién

QUERÉTARO, martedì, 2 settembre (ZENIT.org / El Observador).- La settimana scorsa, la Suprema Corte di Giustizia del Messico (SCJN) ha definito la costituzionalità della legge che depenalizza l’aborto nel Distretto Federale fino alla 12ª settimana di gestazione.

In breve, ci sarà una tesi giurisprudenziale che permetterà che in altri luoghi della Repubblica Messicana si possano implementare leggi simili. Il caso si inscrive nell’ampio processo globale che anima una cultura che sminuisce la vita, soprattutto quella dei più deboli e vulnerabili.

Per questo motivo, ZENIT-El Observador ha interpellato Rodrigo Guerra López, dottore in Filosofia presso l’Accademia Internazionale del Liechtenstein e autore di importanti testi sull’antropologia, la bioetica e la filosofia sociale.

Attualmente direttore del Centro di Ricerca Sociale Avanzata (CISAV), Guerra è membro della Pontificia Accademia per la Vita ed è comparso davanti alla Suprema Corte come esperto di Biofilosofia. Recentemente ha ricevuto la medaglia “Iustitia et Pax” del Pontificio Consiglio omonimo per il suo contributo alla promozione e alla difesa della dignità umana.

L’esperto ha spiegato che la “deplorevole decisione della Suprema Corte” ha “un evidente significato giuridico: per i Ministri, la vita umana non è protetta costituzionalmente fin dalla fecondazione attraverso le garanzie che presenta la Carta nella sua parte cosiddetta ‘dogmatica’”.

“Ciò – osserva – rende l’embrione umano estremamente indifeso durante le prime fasi del suo sviluppo”.

Secondo Guerra, tuttavia, il principale significato della decisione “è di ordine culturale”: “la comprensione dell’universalità dei diritti umani è stata sfigurata visto che la vigenza del diritto alla vita viene circoscritta ad alcuni esseri umani, quelli che possiedono certe caratteristiche funzionali, e non riconosciuta a tutti senza eccezione”.

“Uno Stato che opera in base a questa premessa mina le sue basi teoriche e pragmatiche”, denuncia.

Lo Stato di diritto, osserva, “non è uno ‘Stato di leggi’, ma una comunità basata sulla giustizia che anima le leggi”. Di conseguenza, “non si legittima se non a partire dalle sue basi pre-politiche, vale a dire da quell’insieme di evidenze antropologiche che permettono di comprendere i diritti e i doveri che noi umani possediamo per il semplice fatto di essere persone”.

Quando il diritto alla vita viene ristretto a un certo tipo di esseri umani, “il potere diventa autoreferenziale”, cioè “misura di se stesso, aprendosi così la possibilità che tutti possiamo essere prescindibili”.

“Uno Stato che non difende il diritto alla vita dalla fecondazione fino alla morte naturale incorre in gravi contraddizioni teoriche e sfocia gradualmente in assurdi pratici, come dimostra la storia”.

Per correggere questa situazione, Guerra auspica una ricostruzione della parte dogmatica della Costituzione messicana, ma ribadisce che “la battaglia principale è di ordine non politico, ma culturale”.

“Perché gli eventuali trionfi politici a favore della vita non siano deboli o effimeri, si richiede un lavoro nel settore dell’istruzione, della coscienza, degli atteggiamenti”, ha constatato.

In questa situazione, i cattolici devono riscoprire “l’importanza di lavorare in comunione in modo stabile”, perché “se c’è qualcosa che indebolisce la presenza dei cattolici nella vita pubblica è la divisione, è il protagonismo fatuo, è l’atteggiamento settario”.

Perché possano aver voce anche in politica e portare avanti la loro battaglia a favore della vita, è necessario che la loro coscienza “non sia sedotta dalle promesse e dal glamour del potere politico”.

“Noi cristiani siamo forti quando recuperiamo ciò che essenziale: il fatto che Gesù Cristo è una Persona viva che ci viene incontro rispondendo e superando le aspettative del nostro cuore”.

Per realizzare questo, bisogna essere consapevoli del fatto che “il cristianesimo è un metodo”: “Dio ha scelto una condizione umana per fare irruzione nella storia. Per questo, l’Incarnazione ci mostra il cammino per coinvolgerci in tutto ciò che è umano, anche in quello che è più particolare e concreto”.

Accanto a ciò, bisogna sempre ricordare che “questo coinvolgimento possiede una dimensione comunitaria essenziale”, perché “il cristianesimo, riscoprendosi come esperienza di comunione, permette che sorga un soggetto sociale nuovo, caratterizzato dalla responsabilità di tutti nei confronti del loro destino”.

E’ in questo che consiste “l’apporto dei cristiani per la costruzione di una ‘nuova cittadinanza’”, in cui “essere cittadino non significa principalmente raggiungere una certa ‘maggiore età’, ma acquisire una coscienza circa la responsabilità che possediamo di fronte alla realtà”.

“Nella misura in cui la Chiesa come ‘communio’ assume il metodo menzionato, la società si arricchisce con l’apporto specifico che solo il cristianesimo può dare”.

Per raggiungere questo obiettivo, la via proposta da Guerra è seguire la Dottrina Sociale della Chiesa, in cui “i credenti e tutti gli uomini di buona volontà possono trovare le ragioni per costruire una società in cui esista come opzione decisiva l’affermazione della vita e della dignità di tutti allo stesso modo”.

[Traduzione dallo spagnolo e adattamento di Roberta Sciamplicotti]

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ZENIT Staff

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