Conferenza del Cardinale Bertone all’Università dell'Avana

LA AVANA, martedì, 26 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza che il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha pronunciato lunedì pomeriggio nell’Aula Magna dell’Università dell’Avana sul tema La cultura e i fondamenti etici del vivere umano.

 

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Magnifico Signor Rettore,

Onorevoli Autorità,

Signor Cardinale e Signori Vescovi,

Illustri professori,

Signori rappresentanti del mondo della cultura,

Signore e Signori, amici tutti.

Con gratitudine per il cordiale benvenuto che mi avete riservato, desidero iniziare questo pomeriggio ricordando con stima due grandi figure appassionate di Cuba e legate a questo luogo. Il primo è il Servo di Dio Félix Varela, padre della patria cubana, le cui spoglie riposano qui e del quale celebriamo oggi l’anniversario della morte. La seconda è il Servo di Dio Giovanni Paolo II, che ha parlato da questa stessa cattedra dieci anni fa. Pochi hanno saputo delineare così bene la figura di Padre Varela come ha fatto Papa Giovanni Paolo II nel discorso che ha pronunciato in questo stesso luogo. Entrambi i personaggi incarnano un modello egregio di umanità, essendo da riconosciuti come uomini di pace e di bene, anche da quanti non condividono i loro ideali e le loro credenze. Entrambi sono la conferma che non è necessario diluire la propria identità per instaurare un dialogo fecondo e creativo con tutti gli uomini.

L’avventura esistenziale di Padre Varela ci offre l’ambito ideale in cui inserire il tema che mi è stato affidato – la cultura e i fondamenti etici del vivere umano -, considerando in particolare la cultura cristiana come sostegno e ispirazione dell’etica. Come si sa, il giovane sacerdote Félix Varela ottenne, vincendo un concorso, la prima Cattedra di Costituzione, stabilita nel Collegio di San Carlos nel 1821. È significativo il modo in cui l’esordiente accademico, nella sua brillante lezione inaugurale, definì la sua cattedra: questa, diceva, dovrebbe chiamarsi piuttosto «la Cattedra della libertà, dei diritti dell’uomo, delle garanzie nazionali,… la fonte delle virtù civiche, la base del grande edificio della nostra felicità» (Discorso nell’inaugurazione della Cattedra, 21.1.1821). Quella Cattedra gli offrì la migliore opportunità per riflettere sul modo di costruire una società, sui valori che devono essere alla base della convivenza fra gli uomini, fra i quali la libertà – «uno dei più preziosi doni che hanno dato agli uomini i cieli», con le parole di Don Chisciotte (II, cap. 58) – occupa il primo posto e, accanto ad essa, gli altri diritti dell’uomo e la rettitudine delle loro opere. La preoccupazione per la formazione dei giovani fu una costante in Padre Varela, consapevole che non sono le leggi a salvare i popoli, ma le loro virtù a livello personale e nel loro operato pubblico. Nella loro visione di una nuova patria cubana, Varela e, prima di lui Padre Agustín Caballero, e José Martí dopo, rivelano un cattolicesimo attento alla modernizzazione del Paese, ai diritti dell’uomo e alla libertà. Mostrano, in definitiva, che il cristianesimo e la modernità non sono incompatibili, ma che s’incontrano nella difesa della dignità dell’uomo. E il mondo ha bisogno di questa grande alleanza.

José Martí, cubano illustre, affermò che «essere istruiti è l’unico modo di essere liberi». Questa affermazione mi offre la possibilità di esaminare ora, più dettagliatamente, il rapporto fra la cultura e i fondamenti etici della vita dell’uomo.

Tutti gli uomini apprezzano la cultura come un bene importante. Tuttavia, perché la cultura è un bene? Giovanni Paolo II lo ha spiegato magistralmente quando ha ricordato che «l’educazione consiste in sostanza nel fatto che l’uomo divenga sempre più umano, che possa “essere” di più e non solamente che possa “avere” di più» (Discorso all’UNESCO, 2.6.1980). Per mezzo della cultura, in effetti, l’essere umano «affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; cerca di ridurre in suo potere il mondo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale» (Gaudium et spes, n. 53). Se la cultura è un bene, deve essere allora alla portata di tutti e non essere un lusso riservato ad alcune élites.

La cultura, tuttavia, è più di una semplice volontà individuale di acquisire nuove conoscenze. Possiede una fondamentale dimensione storica e comunitaria e si presenta a noi come un grande sforzo per offrire una visione che dia senso a tutta la vita, comprendendo ogni suo aspetto. A tale proposito, la cultura è sempre caratterizzata da una tensione che la porta a superare continuamente se stessa, in una duplice direzione: in senso orizzontale, verso le altre culture, con un arricchimento reciproco, e in senso verticale, verso la trascendenza, verso la fonte ultima della verità, la bellezza e il bene.

Possiamo dire, quindi, che la cultura è l’ethos di un popolo. È un modo di comportarsi e, al contempo, un ideale normativo, sebbene non sempre vissuto e rispettato. In tal senso, ethos ed etica sono strettamente vincolati, non solo per la loro etimologia, ma anche perché la cultura è il risultato della prassi dell’uomo e insieme condizione dell’operare umano. Non esiste cultura che non rimandi a un’etica, né un’etica senza riferimento a una cultura. Entrambe o si mantengono unite o decadono.

Una semplice osservazione pone tuttavia dinanzi al nostro sguardo il fenomeno della diversità culturale, uno dei tratti più caratteristici del nostro tempo, che provoca a volte un salutare cambiamento di costumi e obbliga a riesaminare convinzioni considerate immutabili. Può però provocare anche una dolorosa perdita d’identità, con conseguenze difficili da prevedere.

Per alcuni, la diversità culturale e delle norme di comportamento porta inevitabilmente ad affermare l’esistenza di una norma morale comune e obiettiva. A partire dall’esperienza della diversità si deduce l’impossibilità di norme morali universalmente valide. Il relativismo morale sostiene che un’affermazione etica sarebbe vera solo nel contesto di una determinata cultura. Non vi sarebbero pertanto convinzioni né principi etici migliori di altri, e nessuno avrebbe diritto di dire ciò che è bene e ciò che è male.

Le tesi del relativismo culturale e del relativismo etico sono state rafforzate dallo sviluppo della ragione moderna, un processo descritto magistralmente da Papa Benedetto XVI nella sua lezione presso l’Università di Ratisbona. In estrema sintesi, questo processo è consistito nella riduzione della ragione a scienza sperimentale, che combina la verifica empirica con la formulazione matematica. Sarebbe razionale allora solo ciò che è suscettibile di sperimentazione e formulabile matematicamente. Tuttavia, le grandi questioni dell’esistenza dell’uomo, i problemi dell’etica e dell’estetica, la metafisica, e soprattutto il problema di Dio, restano fuori da ogni considerazione, in quanto pre-scientifici o ascientifici (cfr Discorso presso l’università di Ratisbona, 12.9.2006).

Ebbene, questo restringimento della ragione contemporanea conduce inevitabilmente sul piano etico al soggettivismo della coscienza. Nonostante i tentativi di Kant di mantenere una morale universale, dopo aver scartato la metafisica, affermando che l’unica conoscenza razionale possibile è quella della scienza, occorre confinare la morale all’ambito puramente soggettivo: non sarebbe possibile parlare di norme morali universalmente conoscibili. Ma allora, «il soggetto decide, in base alle sue esperienze che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza“ soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica» (Ibidem). La conseguenza è chiara: in questo modo l‘ethos e la religione perdono la propria capacità di dare vita a una comunità e diventano una questione totalmente personale.

Il soggettivismo etico portato all’estremo conduce alla situazione paradossale di dover ammettere l’immoralità come moralmente buona. Visto che non vi è modo di determinare ciò che è bene e ciò che è male, bisognerebbe concludere che tutti i comportamenti sono ugualmente validi. Il sens
o comune si ribella a questa conclusione, a cui, tuttavia, si giunge necessariamente dalle premesse da cui si parte.

La logica di questo dinamismo porta a quella che Benedetto XVI ha chiamato la dittatura del relativismo. Vale a dire, dinanzi all’impossibilità di stabilire norme comuni, con validità universale per tutti, l’unico criterio che resta per determinare ciò che è bene e ciò che è male è l’uso della forza, sia essa quella dei voti, sia della propaganda o delle armi e della coazione. «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura sola il proprio io e le sue voglie» (J. Ratzinger, Omelia nella Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, 18.4.2005). A partire da questi presupposti, risulterebbe impossibile costruire o mantenere la vita sociale.

Esiste, pertanto, una distinzione fondamentale, dal cui riconoscimento dipende la sussistenza stessa della comunità umana. Questa distinzione è la linea di demarcazione fra il bene e il male. Senza tale distinzione non resta altra alternativa del regno dell’arbitrarietà.

È necessario, quindi, sovvertire l’assioma del relativismo etico e postulare con forza l’esistenza di un ordine di verità che trascende i condizionamenti personali, culturali e storici e che ha una validità permanente. Questo ordine è quello che la filosofia chiama legge naturale. Non intendo affrontare ora la problematica attorno a questo termine, ma sottolineare solo il fatto che con questa espressione si fa riferimento a un ordine previo all’uomo, che egli non si è dato, che nessun governo ha promulgato, e che esso può solo riconoscere. È la constatazione che, di fronte al diritto positivo, il quale può essere ingiusto, deve esserci un diritto che procede dalla natura stessa, dall’essere proprio dell’uomo. Questo diritto deve essere trovato e costituisce il correttivo per il diritto positivo.

L’idea di diritto naturale presuppone un concetto di natura strettamente associato a quello della ragione. Presuppone l’idea che la natura è permeata dalla ragione, che vi è in essa un logos che l’uomo con la sua ragione, partecipazione e immagine del Logos creatore, può riconoscere. La stessa scienza, alla quale dobbiamo incredibili progressi in tutti i campi, risulterebbe impossibile senza accettare una razionalità nella natura. Inoltre, se il mondo è un mero prodotto dell’irrazionale, la nostra stessa libertà è, alla fin fine, un’illusione.

La legge naturale appare così come una sorta di «grammatica» trascendente che permette il dialogo fra i popoli, ossia, un insieme di regole di attuazione individuale e di relazione fra le persone in giustizia e solidarietà, che è inscritta nelle coscienze, nelle quali si riflette il sapiente progetto di Dio.

La Chiesa non intende imporre la sua visione delle cose a tutti gli uomini, come se avesse l’esclusiva del discernimento morale. Non può però rinunciare alla profonda conoscenza che ha dell’uomo e della società. È esperta in umanità e desidera offrire rispettosamente il suo contributo alla creazione della società degli uomini fra i quali vive.

Su questo punto, alcuni teorici, come Jonh Rawis o Jürgen Habermas, hanno difeso la necessità del contributo delle confessioni religiose al dibattito pubblico (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Università di La Sapienza, 17 gennaio 2008; J. Habermas, Vorpolitische Grundlagen des demokratischen Rechstaates? in J. Habermas – J. Ratzinger, Dialektik der Säkularisierung, n. 34). Queste, in definitiva, svolgono un ruolo sociale non solo come elementi di integrazione sociale, che prestano sussidiariamente servizi sociali alla comunità, ma anche come fonte di sapere e di conoscenza.

A tale proposito, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato che il principio della libertà religiosa inteso nel senso più vasto, è come la prova degli altri diritti: «nello stesso modo in cui la società viene danneggiata quando si relega la religione alla sfera privata, anche la società e le istituzioni civili vengono impoverite quando la legislazione, in violazione della libertà di religione, promuove l’indifferenza religiosa, il relativismo e il sincretismo religioso, forse perfino giustificandoli attraverso una comprensione errata della tolleranza. Al contrario, tutti i cittadini ne traggono beneficio quando vengono apprezzate le tradizioni religiosi nelle quali ogni popolo è radicato e con le quali le popolazioni, generalmente, si identificano in modo particolare» (Discorso ai partecipanti all’Assemblea Parlamentare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, 10.10.2003).

L’obiezione che s’intuisce immediatamente è che nella società attuale, le Chiese e le confessioni religiose devono limitare il proprio operato all’ambito puramente personale degli individui che desiderano aderire ad esse, ma non avrebbero alcun posto nella costituzione di un’etica sociale. Lo Stato moderno, si afferma, deve essere al di sopra delle religioni, le quali, in molti casi, non sono viste in modo positivo ed equilibrato.

La sana laicità comporta, naturalmente, la distinzione fra religione e politica, fra Chiesa e Stato. Credenti e non credenti trovano il fondamento di questa distinzione nelle parole stesse del Vangelo, quando Gesù ricorda che bisogna dare «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21). Questa stessa laicità non può però significare che Dio è un’ipotesi puramente privata ed escludere così la religione e la Chiesa dalla vita pubblica. La celebre frase di Hugo Grocio etsi Deus non daretur, interpretata erroneamente come li fondamento dell’ordinamento politico «come se Dio non esistesse», significò, per i giusnaturalisti del XVIII secolo, il bisogno di stabilire principi che avessero validità permanente, «anche nell’ipotesi in cui Dio non esistesse», ossia con validità permanente per tutti.

Come contributo dei cristiani alla costruzione della società, l’allora Cardinale J. Ratziger, dal suggestivo contesto di Subiaco, poco prima di essere eletto Successore di San Pietro, ha lanciato al mondo una proposta che mi permetto oggi di ricordare a tutti voi: «il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno» (J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, Subiaco, 1 aprile 2005, ed. Cantagalli, Siena 2005. Edizione multilingue, con il testo spagnolo 75-84, qui, 83).

Giungiamo così al termine del nostro percorso e riprendiamo la domanda iniziale. Qual è il contributo della cultura cristiana al fondamento di un’etica del vivere umano?

La risposta potrebbe essere la seguente: presentandosi come la religione del logos e dell’amore, la Chiesa offre una sapienza millenaria, che mette a disposizione di tutti i popoli e di tutte le culture, convinta inoltre che un dialogo e un arricchimento reciproco siano possibili. In tal senso, si presenta dinanzi alla società come memoria e come ricordo dell’esistenza di un fondamento dei valori. Si presenta, in definitiva, come testimone di ciò che non perisce. Proponendo con rispetto la propria visione dell’uomo e dei valori, essa contribuisce alla crescente umanizzazione della società. La fede, pertanto, non distrugge nessuna cultura, bensì coopera alla purificazi
one di tutto ciò che intorpidisce la dignità, i diritti e lo sviluppo delle persone e di tutto ciò che si oppone all’umanizzazione della società. Se in una nazione crescono gli ambiti e gli atteggiamenti disumanizzanti, qualcosa è sostanzialmente leso nell’ethos di quel popolo. La fede contribuisce inoltre a dare pienezza a tutto ciò che è buono, vero e bello, schiudendo all’uomo una visione più elevata di se stesso e della sua convivenza nella società. Una convivenza senza valori è uguale a una cultura senza etica, è una cultura disumanizzata e disumanizzante che inverte la scala di valori e ribalta il mondo.

Proprio perché ogni autentica società si basa sul principio del valore supremo dell’uomo, della sua responsabilità dinanzi alla storia e dinanzi ai suoi simili, ha bisogno del richiamo permanente ai valori duraturi, che esistevano prima che ogni individuo esistesse e che continueranno a esistere dopo.

La società ha bisogno di persone che rivelino con la loro vita l’esistenza di alcuni valori fondamentali ed edificanti; ha bisogno di testimoni che con la loro esistenza lavorino per ricordare a tutti gli uomini il valore della coscienza, santuario di Dio nell’uomo, e della verità.

I cristiani, mediante figure come quella di padre Varela, e una moltitudine immensa di audaci persone simili a lui, non chiedono altro se non di poter rendere testimonianza di questa verità fra i loro contemporanei.

Distinte Signore e Distinti Signori, abbiamo riflettuto sulla cultura come sostegno e ispirazione per l’etica. La questione è trovare itinerari concreti affinché cultura ed etica, Chiesa e società, possano collaborare per costruire un mondo più umano, ancorato ai grandi valori della nostra storia: la libertà, la pace, la solidarietà, la giustizia e lo sviluppo integrale della persona, di ogni uomo e di tutti gli uomini.

Permettetemi di concludere con le parole finali che il Santo Padre aveva scritto per il suo discorso all’Università La Sapienza di Roma, che non ha potuto pronunciare di persona per motivi più che noti.

Il Papa, rivolgendosi agli universitari di Roma, ha risposto alla domanda: Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’Università?. Noi possiamo paragrafare questa domanda domandandoci: «Che cosa ha da fare o da dire la cultura cristiana come fondamento etico del vivere comune? La risposta che Benedetto XVI ha dato credo conservi tutta la sua validità per noi: Il Papa – la Chiesa cattolica, i cristiani potremmo dire -, «sicuramente non deve cercare d’imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà… In base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale, è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre e di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro» (Allocuzione preparata per l’inaugurazione dell’anno accademico nell’Università La Sapienza di Roma, 17.1.2008).

Grazie a tutti.

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ZENIT Staff

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