Ecologia prenatale e diritti dell’età infantile

ROMA, domenica, 2 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento del dottor Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

 

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Ci si domanda se le prime fasi della vita abbiano una considerazione soddisfacente. L’ambiente in cui avviene la fecondazione ha una rilevanza fondamentale sullo sviluppo dell’embrione e del bambino, ma nessuno parla di ecologia prenatale, mentre giustamente ci si ingegna per tutelare l’ambiente di chi è già nato. Esistono spinte sempre più forti verso una limitazione delle cure del bambino estremamente prematuro, con schemi che non si applicherebbero mai nell’adulto. Infine, ogni età della vita ha un medico specificamente dedicato ad essa (neonatologo, pediatra, gerontologo…), tranne l’età prenatale, in cui le cure sono deputate ad un medico ginecologo, sicuramente esperto anche di vita fetale, ma non dedicato esclusivamente ad essa. Questo ci porta ad una considerazione bioetica, che trapassa il dibattito sullo status dell’embrione umano e quello sul diritto all’aborto o sull’eutanasia: è il problema basilare sui diritti dell’età in-fantile (che etimologicamente significa: “non-parlante”).

Non si comprende la portata dei problemi suddetti se non si riconosce che oggi esiste solo un’età della vita che viene ritenuta degna di essere vissuta e che viene etichettata con il termine “giovinezza”. Il resto è nulla. Ma, si badi bene, qui non si parla della giovinezza anagrafica, ma della giovinezza sociale e che viene simboleggiata da un unico credo: l’assenza di legami. A questa “giovinezza” anelano i bambini che scimmiottano già a dieci anni gli adolescenti, e anelano gli anziani che bramano i risultati della chirurgia estetica o tornano a creare delle storie d’amore con partner giovani. D’altra parte, per gli uni e per gli altri non c’è dignità concessa per la loro età.

Questo aiuta a capire perché le fasi estreme della vita vengano viste con una certa diffidenza, così come viene visto con diffidenza chi, pur non rientrando in queste due età, non mostra i segni esteriori di autosufficienza e autonomia, ad esempio le persone disabili. Diremo dunque che per questi soggetti esiste una sorta di censura, di desiderio di non parlarne, o di parlarne solo se possono ancora rassomigliare all’ideale di autosufficienza: il disabile, l’anziano, il bambino saranno accettati solo se “si integrano”, cioè se non commettono il peccato sociale di ricordare che la caratteristica propria dell’umano è la dipendenza, il bisogno disperato degli altri, che un embrione, un malato grave invece richiamano con la loro stessa esistenza.

D’altronde è chiaro che questo provoca una raffigurazione astratta e distorta della persona nelle varie fasi della vita. L’embrione verrà considerato come nulla più di un progetto, il feto come un intruso, il lattante come un bambolotto da mostrare agli amici, simbolo della propria fecondità, finché non diventa un peso e genera responsabilità. Il bambino sarà una specie di realizzatore per procura delle aspirazioni frustrate dei genitori, l’adolescente un filtro di eterna giovinezza per illudere i genitori che sono ancora giovani, tant’è vero che si tende sempre meno a lasciarlo crescere e formarsi una famiglia (dalla quale spesso i genitori stessi mettono ben in guardia).

Simili considerazioni si possono fare per l’anziano e il disabile.

Insomma: esiste una “vita di serie B” che viene accettata solo se “assomiglia” a quella di serie A. La vita infantile, dal concepimento in poi, vale solo se assomiglia a quella adulta (spettacoli televisivi di bambini che scimmiottano le star TV, scomparsa dell’idea di “gioco” soppiantata da quella di “sport”). Nel caso che però non le assomigli, non solo viene guardata con diffidenza, ma anche i comuni diritti e le comuni tutele spesso le sono precluse.

Ecco dunque come le varie novità in campo bioetica fanno trasparire una scarsa cura verso il mondo del pre-verbale, di chi non si può esprimere, ma già vive. E’ il campo dei diritti dell’”in-fanzia”, del “non-parlante”, che è in pericolo.

1. Consideriamo ad esempio la sospensione di cure nel neonato gravemente malato o estremamente prematuro, in cui alcuni sostengono che su detta decisione debba valere il parere vincolante dei genitori, che devono valutare se per loro la situazione è sostenibile. In realtà questo è un paradosso: non si verificherebbe mai la sospensione delle cure di un adulto in caso che i figli o il marito non “sopportassero più” malattia e dolore. E’ un chiaro caso di trattamento del piccolissimo paziente eticamente diverso da come si tratterebbe un adulto.

2. Ma anche la stessa idea di “qualità della vita” viene intesa in modo diverso nel paziente neonato che nell’adulto: nel secondo si domanda all’interessato se il trattamento è per lui/lei sopportabile; nel primo caso, si immagina che lo sarà o non lo sarà, talora sotto la spinta delle proprie personali paure. D’altronde un recente studio neozelandese spiegava che i neonatologi che più sono inclini a sospendere le cure ai neonati sono quelli che più hanno paura di ammalarsi e morire; ma un recente editoriale della rivista Acta Paediatrica, spiegava che bisogna star attenti a giudicare della qualità della vita nei neonati, che oltretutto non possono esprimersi. L’editoriale riporta un altro lavoro cinese (Hong Kong) su bambini nati molto prematuri, e che mostra che la qualità di vita, la capacità mentale e di socializzare di questi bambini è pari agli altri. Così come uno studio mostra una pari qualità di vita dei bambini nati con spina bifida rispetto agli altri. D’altronde uno studio del 2000 mostrava che la maggioranza dei neonatologi in vari Paesi pensa che la vita con disabilità fisica o con disabilità mentale sia peggiore della morte. Non sarà che riversiamo sui bambini le nostre paure, pensando che chi avrà problemi di salute non avrà neanche voglia di vivere? E non sarà che chi è appena nato porta su di sé l’atavico pregiudizio che porta a non sentire umano chi ancora non è pienamente vitale, (“non è ancora uno della famiglia”) per non affezionarsi, per non investire affettivamente? Esistono filosofi che legano l’idea di persona all’emergere dell’ autocoscienza, negando che i neonati e i bambini fino all’anno di vita.

3. Un altro punto di riflessione ci viene da un altro articolo pubblicato sulla rivista Seminars in Perinatology si interroga sull’eticità del concedere l’esecuzione del taglio cesareo (con i rischi che questo comporta non solo per la donna, ma anche per il bambino) senza che ve ne siano le indicazioni cliniche, ma solo la richiesta della donna. E l’autore scrive: ”Per i medici abdicare alla loro propria competenza di fronte all’autonomia della paziente sarebbe svilire il giudizio clinico e con esso l’integrità della medicina come professione”. In altre parole: si rimette giustamente in discussione l’idea riduttiva ma politically correct che nella gravidanza (e nel parto) siamo di fronte ad un solo paziente (la donna), che se decide per un motivo non medico di avere un taglio cesareo, questo debba essere eseguito senza dubbio, tralasciando i rischi per la salute di chi deve nascere. Anche in questo caso capiamo bene che mai si f
arebbe senza motivo clinico un intervento medico ad una persona, se un’altra ne potesse riportare danni. Se invece l’altra persona è ancora feto, questo potrebbe essere permesso, mette in guardia l’articolo.

4. Non esula da questa scarsa cura dell’in-fanzia l’invasività della cultura pubblicitaria, vera e propria marea omologante cui sembra non esistere freni verso le menti in formazione. Abbiamo recentemente eseguito uno studio che mostra come il potere distrattivo della televisione-usato ai fini di non far provar dolore durante un prelievo di sangue- abbia un’efficacia molto maggiore dei tentativi della mamma stessa per distrarre il bambino. I bambini sembrano indifesi di fronte allo schermo, così come hanno perso la possibilità di spostamento autonomo nelle grandi città, ma ora anche in quelle piccole; così come hanno perso la possibilità di gioco creativo e sociale, soppiantato dallo sport organizzato e pre-agonistico e dal computer. Certamente, questo punto comprende fenomeni non cruenti, ma certamente inquietanti e pervasivi. Anche in questo campo, invece di ricreare un ambiente a misura di bambino, si perseguono programmi non mirati, anzi talora trascuranti lo specifico dell’età evolutiva.

Non è più dunque in ballo solo la difesa della vita umana, ma la difesa della diversità biologica, in particolare del piccolissimo essere umano, minacciata da un progetto omologante di pseudo-cultura di un’utopia giovanilistica e vitalistica senza respiro, perché dominata solo dal capriccio, dunque dalla paura. E’ una cultura che non dà cittadinanza a chi non “consuma”, fino a negarne i diritti vitali se non ancora nato o appena nato, o quelli sociali e pedagogici in età successive.

Questo vuol dire la perdita della biodiversità, la mancanza di rispetto per la differenza biologica e l’inaridimento della cultura e della società. E il paradosso che la società dei diritti dell’uomo finisca con l’essere la società dei diritti di alcuni… cioè i “sani”, adulti, consumatori. Gli in-fanti restano “fuori-legge”. La bioetica deve partire dal riconoscere due dati:

Non è corretto parlare di diritti infantili se non si parla di quelli del bambino in utero

La mancanza di considerazione del bambino in utero travalica le frontiere della vita prenatale per interessare il bambino già nato, sminuendone la specificità e la sostanza di persona.

Prova e simbolo ne sia, che nelle iconografie (che si trovano in tutti i libri) che mostrano la supposta evoluzione dalla scimmia all’essere umano, il culmine della scala evolutiva è il “maschio-bianco-adulto-sano-single”. Non sembra essere previsto altro alla cima della scala evolutiva. E’ una visione limitante e arida. Nel 1996 il prof Maroteaux scriveva un editoriale echeggiando Emile Zola, dal titolo: “J’accuse: la bassa statura ha ancora diritto di cittadinanza?”. Il problema centrale è dunque riconoscere che tutti, ma proprio tutti hanno diritto di cittadinanza, e non solo “l’età che può consumare e comprare”, una visione che rischia di isterilire la società e, volente o no, riflettersi sui giudizi bioetici.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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