ROMA, martedì, 20 novembre 2007 (ZENIT.org).- Partiti da Parigi il 17 giugno scorso, Mathilde ed Edouard Cortès (www.enchemin.org) hanno percorso a piedi oltre 3700 chilometri, mendicando cibo ed ospitalità.

Un viaggio di nozze “per la pace e l’unità dei cristiani”, fatto di sacrifici e sofferenze (arrivando in Turchia sono stati aggrediti), ma anche di incontri indimenticabili.

Pubblichiamo di seguito il secondo estratto del loro diario di viaggio (il primo è stato pubblicato il 13 novembre 2007).

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Venerdì, 24 agosto, 68° giorno. 35 chilometri Gracac-Pribudic
1970 chilometri da Parigi


Continuano a succedersi i villaggi serbi abbandonati dai loro abitanti. La calura canicolare ha arroventato la landa inaridita. Abbiamo bisogno di acqua. Siamo quasi al limite delle nostre riserve e non osiamo usare i pozzi abbandonati per paura che siano stati contaminati dai cadaveri o avvelenati. La landa ricca di valli e ciottolosa può offrire solo terra inaridita. Piccole querce ci offrono di tanto in tanto un po’ d’ombra. Ma non vi è acqua. Ho mal di testa. Il mio fazzoletto bagnato, annodato sulla mia testa, non è riuscito a proteggermi abbastanza da questo sole a picco. La sete aumenta. Non parliamo più. Camminiamo, sognando un pozzo. La mia testa sta esplodendo. Sono al limite delle mie forze. Ho male alla lingua e la gola brucia. Crollo su una pietra e scoppio in lacrime. Edouard cerca di rassicurarmi. Da lontano appaiono dei tetti di case. Che siano abitate?

Salto quasi al collo di una vecchia che cala nel pozzo di pietra il suo secchio. L’acqua mi cola nella bocca, nella gola, in tutto il corpo. Ingoio in un sorso due litri d’acqua. Avidamente. Ci rimettiamo in cammino per almeno un’altra ora di marcia., ma la frescura che ha sedato la nostra sete è durata poco. Non mi sento affatto bene. Un altro villaggio serbo abbandonato. Per fortuna, in mezzo alle rovine vi è una casa abitata. Vi sono due donne e un uomo. Vengono dalla città vicina. “Avreste un piccolo rifugio per dormire?” Una lunga esitazione…. “No, no, non c’è nulla”. Ci accingiamo ad andare oltre. Ma è già notte. Non ne posso più. La mia testa è serrata in una morsa. Crollo su una pietra davanti ad una casa in rovina. Lacrime scendono sulle mie guance e all’improvviso vomito i due litri d’acqua appena ingoiati. Mal di testa, vomito, freddo e caldo. Ho tutti i sintomi della disidratazione. Siamo lontani chilometri da un villaggio abitato, per non parlare di un città. Torniamo indietro verso la gente che ci ha respinto. “Possiamo dormire qui, nella casa abbandonata, accanto alla vostra?”, chiede Edouard con la speranza segreta che ci invitino da loro. “Si, ma fate attenzione, è pericoloso. Non entrate. Rimanete davanti alla casa”. Crollo sotto i loro occhi, tremando, sul nudo suolo. Il sole mi ha fatto un brutto scherzo. Non so bene cosa stia succedendo. Edouard è accanto a me ed è preoccupato. Mi sorveglia e mi costringe a bere regolarmente, svegliandomi durante tutta la notte. E se peggioro? Cosa fare in questo paese deserto? Senza telefono? Senza soldi? A circa 100 chilometri dall’ospedale più vicino? Accanto si sentono le risate, il rumore dei piatti provenienti dall’unica casa abitata del villaggio. Ho il cuore stretto. In questa landa deserta, tre persone non hanno capito la sete che avevamo della loro umanità. Siamo poveri. Nessuna moneta può comperare il conforto di un’accoglienza generosa. Il cielo è coperto. Non vi sono stelle. Ho sete di un cuore umano. Il loro è arido. Questa notte dormiamo accanto alla loro porta sui ciottoli ed i rovi di una casa bombardata. Il mio cuore è disidratato dall’indifferenza. E’ triste una notte all’aperto quando non vi sono più stelle.