A piedi da Parigi a Gerusalemme, in luna di miele (Parte I)

Il diario di Mathilde ed Edouard Cortès

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ROMA, martedì, 13 novembre 2007 (ZENIT.org).- Partiti da Parigi il 17 giugno scorso, Mathilde ed Edouard Cortès hanno percorso a piedi oltre 3700 chilometri, chiedendo in elemosina cibo ed ospitalità.

Un viaggio di nozze “per la pace e l’unità dei cristiani”, fatto di sacrifici e sofferenze (sono stati aggrediti appena giunti in Turchia), ma anche di incontri indimenticabili. Pubblichiamo di seguito un primo estratto del loro diario di viaggio.

In un’intervista concessa a ZENIT il 25 giungo, Mathilde ed Edoardo Cortès (www.enchemin.org) hanno messo a disposizione dei lettori di ZENIT un indirizzo elettronico, invitandoli a dedicare le loro intenzioni di preghiera. Hanno ricevuto oltre 300 intenzioni.

“Fin dall’inizio del nostro viaggio ci siamo impegnati a pregare fedelmente per tutti coloro che ci hanno dedicato le loro intenzioni – affermano –. Chi vuole, può scrivere a: me.cortes@enchemin.org. Contiamo anche sulle vostre preghiere”.

* * *

Martedì 21 agosto 2007. 65° giorno. Croazia. 46 km
1884 chilometri da Parigi.

Attorno a noi, case crollate per l’impatto delle pallottole. Sono contorto in tutti i sensi. Devo fermarmi… è urgente! “Non qui – grida Edouard –. Guarda!”. Sul pannello, un teschio su uno sfondo rosso indica: “MINE”. Il terreno è infestato da queste sentinelle invisibili che non smettono di uccidere, anche in tempo di pace. E’ impressionante. Realizziamo all’improvviso che la guerra del 1991 nell’ex Yugoslavia si è svolta a meno di 1500 chilometri da Parigi. Il sagrato di Notre-Dame che abbiamo lasciato due mesi fa ci appare tuttavia molto lontano.

A nord-est di Gospic ci addentriamo in una stradina. Attraversiamo dei villaggi deserti. Le case abbandonate sono crivellate dalle pallottole, i tetti distrutti dalle esplosioni o dai bombardamenti. I tabelloni dei segnali sono stati utilizzati come bersaglio di tiro per i combattenti. Gioco o tentativo di intimidazione? Non vi è più nessuno. Ostrovica, Polovine, Vrebac… I villaggi si susseguono e si assomigliano. Dopo le pallottole e le granate, la vegetazione ha avuto la meglio sul cemento e la pietra. Ho la pelle d’oca. Cala la notte. Non c’è nessuno. Dove sono andati? Perché un simile deserto 16 anni dopo la guerra?

All’improvviso, alla luce della nostra lampada frontale, ci rendiamo conto: un tabellone sul bordo della strada indica la carta dei terreni minati. Siamo accerchiati. Solo il percorso dell’autostrada che passa un po’ più lontano è stato sminato assieme alla strada che stiamo percorrendo.

Non abbiamo altra scelta che continuare a proseguire sull’asfalto, linea di sopravvivenza per lasciare questa regione fantasma. Il nostro stomaco è vuoto da ieri sera. Siamo stanchi. Ho paura. Ma dobbiamo proseguire. La nostra volontà viene in aiuto ai nostri corpi stremati. La forza di camminare è più nella testa che nelle gambe. Dobbiamo proseguire. Fino al limite delle nostre forze. Forzare i nostri limiti fisici e psicologici. Ho dolori ovunque ma il mio corpo sopravvive. Ho il cuore stretto ma batte. Sono terrorizzata. Piano piano mi scendono le lacrime sulle guance. Non voglio finire questa notte in un incubo su una mina. In questi momenti difficili nessuno ci viene in aiuto. La nostra precarietà di camminatori è accentuata dalla nostra povertà materiale. Non potremo riposare in un ostello nella città vicina. Non potremo mangiare un boccone nella bettola più vicina. La nostra unica speranza è di incontrare persone di buon cuore. E’ forse follia? Per la prima volta ho dei dubbi. Siamo stati troppo folli nell’entusiasmo del nostro amore nascente di raggiungere Gerusalemme a piedi e senza soldi?

Anche Edouard, che è accanto a me, ha paura. Me ne accorgo, anche se non ha il coraggio di farlo vedere, per non scoraggiarmi. Edouard sa come mi appoggio a lui nei momenti difficili. Egli è la mia forza nello sconforto, lui che scopro sempre più premuroso e affettuoso. Ma ora siamo entrambi al limite delle nostre forze. Alziamo gli occhi al cielo, supplicando Dio di aiutarci, di avere pietà di noi e di porre fine alla nostra giornata di cammino. Da lontano, vediamo brillare dei lumicini. E’ un cimitero. Sembra ben tenuto, tanto da far sperare che non sia minato. Spingiamo il cancello e troviamo, in fondo, una piccola capanna. Sistemiamo il nostro bivacco all’ombra delle tombe, terminando il cammino in compagnia dei morti. Sono lì i fantasmi dei villaggi che abbiamo attraversato. Per questa notte ci lasciano riposare in pace.

Verso mezzogiorno del mattino seguente, incrociamo alla fine un vecchio sul bordo della strada. Questi fa cadere la ramaglia che stava bruciando e ci fa segno di seguirlo. Entriamo nel primo villaggio abitato dopo chilometri. Djuro ha almeno 70 anni. Ci spalanca la porta di casa sua. Anche qui la guerra ha lasciato le sue tracce. Djuro non vuole parlarne ed ha nascosto sotto un nuovo intonaco i segni delle pallottole che bucavano la casa. Ci fa accomodare e ci offre senza indugio fichi, uva e biscotti. Non mangiamo da 36 ore. Facciamo degli sforzi per non gettarci sul cibo. Djuro esce e va a cambiarsi in nostro onore ed indossa abiti puliti, i più belli del suo guardaroba. Pettina all’indietro i suoi capelli bianchi irsuti, sputando nelle sue mani a mò di pomata, come fosse un dandy croato. Il suo cuore è gioioso nell’accogliere dei vagabondi. La sua felicità è comunicativa. Per renderla ancor più perfetta, prende il suo banjo. Pizzica le corde ed intona a squarciagola delle canzoni locali, accompagnate da grandi urli. Finalmente abbiamo incontrato un simile personaggio, dopo la fantomatica notte scorsa. Per renderci conto che esistono ancora uomini buoni. Uomini di pace. Uomini. Djuro serve tre bicchieri di coca, lancia un grido “Giveli” (salute) e tracanna di un fiato il suo. Noi facciamo altrettanto. Poi riprende il suo strumento e continua a tutto spiano. Noi balliamo, battendo i piedi e le mani per accompagnare il vecchio. I suoi occhi brillano di felicità. Anche i nostri. Prima di partire, Djuro riempie le nostre borracce con l’acqua del suo pozzo. Mi stringe fra le braccia, mi bacia su entrambe le guance e mi dice: “Sei come mia figlia, cerka mia. Devi ritornare per rivedere il tuo vecchio padre dopo il tuo viaggio”. Voltandosi verso Edouard, accarezza la sua barba, poi si passa la mano sui baffi per confrontarli prima di stringerlo fra le sue braccia. Sputa sulle sua mani per darsi una ripassata ai capelli. Ci voltiamo per un ultimo addio e vediamo due lacrime colare sulle sue guance. Due lacrime di gioia. Quella gioia che ha dato a noi. E’ sufficiente un uomo per toccare il cuore a tutta l’umanità. Per noi, quel giorno, quell’uomo è stato il vecchio Djuro.

Mathilde ed Edouard Cortès

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ZENIT Staff

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