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“La Parola zittì chiacchiere mie
la Provvidenza sue vie dispose;
mi feci attento a Pietro e alla sua Chiesa
dei Martiri la Fede venne accesa” (dai Frammenti)
Queste sono, per me, le parole di Rebora, con cui esprime ciò che caratterizzava la sua vita dopo la conversione. Padre Rebora era mio padre spirituale durante il Noviziato e mi colpiva, ogni volta, quanto desse peso anche alle piccole mancanze, che erano il ‘bagaglio’ di una vita chiusa nel silenzio del Calvario.
Non sapevo nulla di lui e nessuno ne parlava. Ebbi la fortuna di averlo confratello, durante le vacanze alla Sacra di San Michele. Ogni volta veniva lassù, chiedeva con umiltà, all’Abate, di avere la cella vicina alla Cappella interna; non solo, ma chiedeva il ‘permesso’ - cosa davvero incredibile - di disporre il letto in modo che fosse rivolto verso la parete della Cappella, perché - diceva - ‘così riposo testa a testa con Gesù’.
In quella cella trascorreva la sua giornata in un silenzio, che era contemplazione, meditazione e scrittura. Quando - a volte per metterlo alla prova! - bussavo alla sua porta, si alzava e mi veniva subito incontro con un ‘caro’, che era la grande carità, che andava oltre i miei scherzi e il mio disturbo. Quel suo modo di ‘vivere Cristo’, metteva in crisi la mia voglia giovanile, che amava il chiasso, la gioia. La luminosità del suo sguardo, con il suo sorriso sempre stampato in volto, erano come una ‘guida’ alla serietà di una vita donata a Dio, totalmente.
Davvero, dopo la conversione, il Rebora di ‘prima’ non c’era più. C’era il Rebora del ‘dopo’, che doveva recuperare i ‘passi smarriti’. Tanti pomeriggi uscivamo insieme per una passeggiata attorno alla Sacra. Allora la Sacra era poco conosciuta e, quindi, facile il silenzio. Mi camminava a fianco, sempre in silenzio. Io cercavo la conversione e, siccome ero - allora - ‘un divoratore di libri’, tentavo di trasmettergli ciò che leggevo, a volte aggiungendo la mia critica.
Continuavo a non sapere nulla del suo passato, rendendo vere: ‘la Parola zittì chiacchiere mie’. Leggevo i romanzi russi e, a mio modo, facevo commenti e osservazioni. Ascoltava, senza mai dire ‘parole sue’ e neppure scrollando il capo, per farmi capire quanto poco ne capissi. Non sapevo che era uno dei pochi grandi conoscitori della letteratura russa!
Se poi incontravamo una cappella aperta al culto, appena vedeva il tabernacolo correva e letteralmente si prostrava in adorazione, come avesse incontrato Cristo, il suo grande Bene, in carne ed ossa. Da parte lo guardavo e mi interrogavo: “Ma chi è Rebora?”.
Per toglierlo dalla sua ‘estasi’, dopo un certo tempo dicevo: “Padre, l’obbedienza ci attende, perché presto ci sarà la visita al Sacramento e il Rosario”. Immediatamente mi seguiva...mai rimproverandomi della bugia detta! Poi le nostre vie si divisero: io nella vita pastorale, lui in quella formativa. E lentamente cominciai ad accostarmi alle sue poesie.
In un certo senso mi fu guida il ‘suo silenzio contemplativo’, la seria ricerca, senza limiti, della santità, la grande e totale carità. Non ci si poteva accostare a Don Clemente, senza portarsi appresso un continuo richiamo all’Assoluto. Mi rimane la sofferenza di non esserci tra voi, oggi, per ricordarlo. Ma faccio gli auguri e dico a don Clemente di donarvi il suo spirito.