ROMA, martedì, 9 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato l’8 ottobre dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, in occasione del Convegno su “’La guarigione tra scienza e sentimenti’. 40 anni di ricerca, strategie, sviluppo diagnostico e terapeutico. Testimonianze umane e implicazioni psicologiche”, organizzato dall’Ospedale Umberto I e in corso di svolgimento presso l’Università “La Sapienza” di Roma.
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Signor Presidente del Convegno,
Signor Rettore dell’Università la Sapienza,
Onorevoli Autorità,
Illustri Docenti ed Esperti,
Signori e Signori!
dopo le amabili espressioni introduttive del Prof. Manuel Castello, Direttore del Dipartimento di Pediatria di questa Università “La Sapienza” di Roma, mi accingo a prendere la parola all’inizio del vostro congresso, in questa Aula Magna, palestra di incontri di alto valore scientifico. La mia trascorsa esperienza di docente universitario, Preside di Facoltà e di Rettore Magnifico nell’Università Pontificia Salesiana mi ha certo abituato a manifestazioni di questo tipo, ma non nascondo che intervenire quest’oggi al vostro convegno crea in me una certa emozione sia per la tematica che si affronta, sia anche, e soprattutto, perché si tratta di bambini malati e sofferenti.
Penso agli anni trascorsi, quando ero Presidente dell’Istituto Gaslini di Genova, e mi accostavo con cuore di padre e di fratello ai bambini ricoverati e ai loro familiari. Oggi, qui, rappresentanti del mondo universitario e scientifico, medico e sanitario, politico e sociale, insieme a famiglie, religiosi e volontari, siamo tutti accomunati dall’obiettivo di ricercare mezzi e modi per venire in aiuto, ognuno secondo le proprie professionalità e competenze, all’infanzia colpita dalla malattia del tumore, che più di qualcuno continua a chiamare “il male del secolo”.
“La guarigione tra scienza e sentimenti”: già la formulazione del tema ci offre per così dire il “taglio” singolare che assume la nostra riflessione. Accanto all’analisi di 40 anni di ricerca, di strategie sperimentate e di sviluppo diagnostico e terapeutico, ci saranno alcune testimonianze di protagonisti, i quali offrono il contributo della loro esperienza umana, psicologica e spirituale, certamente di forte impatto emotivo. “Maxima debetur puero reverentia” scrive Giovenale (cfr Satira XIV, v. 47) , il fanciullo merita il massimo rispetto ancor più quando è sofferente, perché – afferma Novalis – ogni fanciullo è un amore diventato visibile. E qui, quest’oggi, noi ripercorriamo idealmente 4 decenni di attività del Centro di Oncologia Pediatrica.
Quanti bambini sono passati in questi anni! Quanti di loro non hanno retto all’urto violento del male e non sono più tra noi; quanti invece, grazie a Dio e alle cure praticate, hanno superato il duro scoglio della malattia e possono rendere la loro testimonianza di una esistenza serena! Testimonianza che costituisce un indubbio incoraggiamento a chi si trova attualmente a percorrere questo stesso calvario: penso ai bambini ricoverati nei vari centri oncologici pediatrici di Roma e di ogni parte del mondo e alle loro famiglie che li accompagnano in questa non facile traversata del mistero del dolore. Il vostro convegno ascolterà, al riguardo, dal vivo alcuni di questi “ex-bambini” ammalati, attualmente guariti e inseriti nella società. Leggendo le loro storie mi sono commosso. Penso, caro Prof. Castello, ad Angelo, un bambino curato a suo tempo nel vostro reparto, che passando per Roma è venuto a trovarvi e ad abbracciarvi. “Non potevo non venirvi a salutare”: vi ha detto. In queste parole c’è la gratitudine e la gioia per la salute recuperata, gioia condivisa da chi ha lottato in prima persona e da chi, come voi – medici, operatori sanitari, psicologi, volontari, familiari – ha contribuito enormemente alla vittoria della salute sulla malattia, della vita sulla morte.
Sono 271 le lettere che avete spedito a famiglie di piccoli malati passati nel vostro reparto in vista del presente congresso. Altrettante le risposte, mi sembra, che meritano tutte di essere lette, anzi meditate con attenzione: contengono un messaggio positivo nei confronti della vita, della società, dell’intera umanità. Comunicano sentimenti costruttivi, di accettazione della realtà e di fiducia nella scienza, di fede in Dio, sentimenti di amore e propositivi per i familiari e desiderio di dedicarsi agli altri, ad aprirsi al mondo e mai rinchiudersi in se stessi. Mi soffermerei volentieri a ripercorrerle tutte interamente; ma mi limito a qualche rapido cenno. Lorella, oggi diciottenne, scrive: “questa esperienza mi ha insegnato a giudicare le persone per quello che sono dentro e non per come appaiono”. Bella anche la riflessione di Gemma, 18 anni; “questa è la vita che Dio ha voluto darmi, la vita in cui non voglio mai provare noia”.
Nelle lettere tornano espressioni come “avevo tanta voglia di vivere”, “sentivo l’affetto dei medici e dei familiari”, “sono una ragazza fortunata”, “la fede non mi ha mai abbandonato”, “bisogna aver fede e speranza”. “Il cancro – scrive Daniela oggi di 28 anni – ti fa diventare adulta a 4 anni e a 20 svela quanto sia grande il bisogno di tornare bambina per riprenderti quell’infanzia che radiazioni ionizzanti e flebo di cisplatino hanno bruciato insieme alle tue cellule malate”. Ci sono poi lettere di genitori che invitano alla speranza, come la mamma di Nicola che scrive: “con questa testimonianza voglio rivolgermi a tutti coloro che si trovano in questa situazione: credeteci sia con l’aiuto della medicina sia del Signore. Coraggio: risplenderà il sole”. E il padre di Edoardo confessa: “ci ha aiutato il non perdere la testa, cercare tenacemente risposte, valutare criticamente anche opinioni illuminate. Soprattutto ci ha fortemente sostenuto l’impegno di medici, chirurghi, clinici che non hanno lesinato professionalità e, cosa altrettanto importante, profonda umanità”.
Ho voluto avviare la mia riflessione da queste testimonianze – ne avrei in verità potuto citare tante altre altrettanto interessanti e commoventi – perché da ogni riga di queste lettere emerge chiaramente come la stretta sinergia tra medici, familiari, operatori sociali e testimoni della fede sia la via che ha condotto a risultati spesso insperati, a veri, potremmo dire, “miracoli” della scienza e dell’amore. Miracoli soprattutto dell’amore di Dio, che non abbandona mai i suoi figli, ancor più quando si trovano in situazioni di estrema fragilità. E che cosa c’è di più fragile e toccante di un bambino innocente attaccato dalla malattia! L’esperienza della sofferenza è un trauma che sconvolge l’esistenza; ma al tempo stesso può diventare una profonda esperienza umana che aiuta a capire il senso e il valore della vita. Occorre imparare a “soffrire con dignità”: questa è la sfida che tutti ci concerne.
Permettete, al riguardo, che faccia riferimento a un celebre testo di Viktor E. Frankl dal titolo “Homo patiens”, pubblicato, nella sua prima stesura, a Vienna nel 1950. Questo grande psichiatra, che per 25 fu anni direttore del Policlinico neurologico di Vienna, è passato per la tragica esperienza del lager nazista, ed è morto il 2 settembre del 1997. Dieci anni fa, dunque, e proprio in questi giorni sono previste manifestazioni commemorative anche qui a Roma, presso la Pontificia Università Salesiana, su iniziativa soprattutto di don Eugenio Fizzotti, salesiano come me, che ha raccolto l’eredità spirituale di Frankl ed ha tradotto molte delle sue opere in italiano. Nel libro, a cui mi riferisco, Viktor E. Frankl affronta in maniera profondamente umana ed affascinante il tema della libertà umana in stretto collegamento con la tragica realtà, ma pur sempre intimamente vissuta, della sofferenza. “La sofferenza – egli scrive – è una crescita, ma è anche una maturazione. L’uomo che cresce oltre se stesso matura. È così: il vero e proprio risultato della sofferenza è un processo di maturaz
ione. La maturazione, però poggia sul fatto che l’essere umano giunge ad una libertà interiore nonostante la dipendenza esteriore”. Ed aggiunge poi: “Le situazioni estreme, pertanto, fanno sì che l’uomo non solo pervenga ad una libertà interiore, ma raggiunga la maturità interiore.
Ed in tal modo divengono una pietra di paragone di maturità, un experimentum crucis” (Homo patiens, ed. Queriniana, p. 82, 83). Soffrire, secondo Frankl, vuol dire crescere, maturare, diventare più ricchi in umanità perché “l’uomo, che soffrendo matura se stesso, matura di fronte alla verità”. E “la sofferenza possiede non solo una dignità etica; essa ha una rilevanza metafisica, perché rende l’uomo perspicace e il mondo trasparente. L’essere diviene trasparente nel profondo di una dimensionalità metafisica” (ib. p. 84). E sempre questo grande studioso della psiche umana, animato dalla fede in Dio, nota che “ad una visione biologistica va contrapposta un’immagine noetica dell’uomo. Di fronte all’homo sapiens, va collocato l’homo patiens”. All’imperativo: sapere aude ne va contrapposto un altro: pati aude, abbi il coraggio di soffrire!” (ib. p. 85).
Mi avvio ora alla conclusione, e mentre vi parlo rivedo nella mia mente quelle immagini, che spesso la televisione ci ha mostrato, dell’amato Pontefice Giovanni Paolo II ricoverato al Policlinico Gemelli. Era ricoverato proprio accanto al reparto di Oncologia Pediatrica e non è mai partito senza salutare quei piccoli ospiti, duramente provati, come lui, dall’esperienza della malattia. Lui, il Papa, Pastore della Chiesa universale e somma Autorità morale riconosciuta dal mondo intero reso debole dal dolore, inchiodato in un letto; poco lontano, piccoli innocenti, vite che si aprono alla speranza, bruscamente confrontati con l’assurdo della sofferenza. L’uno come gli altri seriamente interpellati dall’enigma della morte. Sofferenza, malattia, morte: i ragionamenti umani non arrivano a cogliere il segreto di questo mistero. La fede, solo la fede in Dio, ci aiuta a squarciare questo velo per cercare non tanto e non solo la guarigione fisica, quanto piuttosto per comprendere che cos’è veramente la vita umana all’interno della quale anche il soffrire ha un senso e un valore.
Nasce sicuramente dalla personale esperienza del dolore, che Giovanni Paolo II visse in modo drammatico a partire da quel tragico e provvidenziale 13 maggio 1981 con i numerosi successivi ricoveri in ospedale che ne seguirono, il proposito di pubblicare, due anni dopo, la Lettera Apostolica “Salvifici doloris”, che aiuta i credenti a penetrare il senso salvifico della sofferenza, constatando che essa, la sofferenza, “sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo”.
Tutti, ci ricorda San Paolo, siamo chiamati a completare con la nostra propria sofferenza quello che manca in noi ai patimenti di Cristo, che portano salvezza al mondo. Il Vangelo della sofferenza diventa così Vangelo della speranza, Vangelo dell’Amore. Scrive ancora Giovanni Paolo II: “Cristo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza” che è insieme soprannaturale “perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo”, ma anche “profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità”. Formulo di cuore l’auspicio che questo convegno, grazie al contributo degli eminenti esperti e delle testimonianze che verranno presentate, aiuti a cogliere il valore della sofferenza e spinga sempre più ad amare la vita umana, dono prezioso di Dio da difendere, proteggere e promuovere sempre in ogni sua fase, dall’inizio al suo naturale tramonto.
Grazie per avermi seguito e formulo voti di pieno successo ai lavori del vostro Congresso.