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C’è un’espressione nelle lingue latine che difficilmente è traducibile in inglese: “accanimento terapeutico”. Questa difficoltà di traduzione ha una motivazione profonda: si tratta di un’espressione “fasulla”. In realtà è un “ossimoro”, cioè un’espressione che racchiude due concetti opposti e inconciliabili, un po’ come dire “cadavere vivente”, o “ghiaccio bollente”. Perché si usa quest’espressione, nel sud Europa, mentre nei Paesi anglosassoni si usa distinguere più correttamente tra terapia futile e terapia utile? Probabilmente perché alle nostre latitudini c’era bisogno di creare uno stato d’ansia verso le cure di fine-vita, per formare l’idea nell’opinione pubblica che esistano medici che contro il parere degli assistiti si scatenano a far trapianti, interventi e cure dolorose per prolungare indefinitamente la vita.

Non credo che questi medici esistano, in primis perché la vita non la si può prolungare più di tanto. Scrive Giovanni Battista Guizzetti, gerontologo: “È incredibile come ormai tutti siamo convinti che malati e disabili vivano nel terrore dell’accanimento terapeutico, di diventare vittima del delirio di onnipotenza di una classe medica che ha perso il vero significato del suo compito. La mia esperienza di medico, ma anche l’esperienza umana di tutti noi, ci dice ben altro. Ci dice che quello che l’ammalato teme veramente è di essere abbandonato(…). Teme una pratica medica che, superata la fase della guaribilità, non si faccia più carico di lui” (Avvenire, 12 ottobre, 2006).

L’altro motivo per cui tali medici non esistono non è perché i medici siano “buoni”, ma semplicemente e utilitaristicamente perché prolungare la vita non conviene a nessuno. E non intendo qui parlare del paziente. Non conviene agli ospedali, che avrebbero posti letto poco redditizi occupati, aumento del tempo medio di degenza, occupazione del personale spesso scarso. Non conviene neanche al singolo medico, che non si capisce per quale motivo passerebbe giornate intere a fare trattamenti inutili e dolorosi, mentre sicuramente avrebbe altro da fare con altri pazienti più collaborativi e interessanti.

Ma perché nel sud Europa si usa allora questa terminologia? Forse perché creando ansia è più facile far passare l’idea che il suicidio assistito o l’eutanasia siano un diritto, per salvarsi da questi medici “torturatori”. Un accanimento terapeutico (cioè, dicendolo correttamente, un “uso inutile” delle terapie) può esistere, ma molto in teoria: chi andrebbe a fare un trapianto di cuore ad un paziente morente, o inizierebbe una pesante chemioterapia a chi ha pochi giorni di vita?

E qui urgono due precisazioni.

La prima è che mentre per la maggioranza delle persone “accanimento terapeutico” è quello volto proditoriamente a non far morire chi sta morendo, purtroppo per alcuni l’espressione intende invece il continuare le cure in caso di prognosi sfavorevole non per la sopravvivenza, ma soprattutto dal punto di vista neurologico. Questo è inquietante, perché in fondo si sottende che esista una “vita che è peggiore della morte”, cosa che se così fosse come primo effetto porterebbe a un alto tasso di suicidi tra i disabili, cosa che invece non si ha. E’ il caso dei bambini altamente prematuri, che hanno un alto rischio di morte e di disabilità, ma in cui questo rischio è oltretutto solo statistico, non essendo possibile determinare né alla nascita né nelle prime ore di vita una prognosi valida al 100% in quel singolo bambino. Ma anche se il bambino suddetto risultasse con danni cerebrali, questi hanno, lo sappiamo, vari livelli di gravità, ma anche il livello più grave non ha la potenza di rendere la vita “sbagliata” (wrongful life). D’altronde una recente ricerca neozelandese mostra che i neonatologi che sospendono più facilmente le cure ai neonati, sono quelli che più hanno paura per se stessi di ammalarsi o di morire; indipendentemente dal grado di malattia del bambino. Insomma: trasponiamo sui pazienti le nostre ansie, facendo due errori: il primo è credere che tutti la pensino come noi e abbiano le nostre fobie; il secondo è pensare che da malati (senza una gamba, con una paralisi) ragioneremmo come da sani, cioè se da sani pensiamo “se non potessi camminare preferirei morire”, non è certo che lo ripeteremmo se fossimo paralizzati dopo un incidente di auto. Tanti sportivi disabili ce lo dimostrano.

La seconda è che invece esiste, purtroppo, un altro accanimento. È l’accanimento diagnostico. Questo è un vero problema. Inizia, come ha spiegato il presidente del Comitato Nazionale Francese di Bioetica, in epoca prenatale col diffondersi degli screening a tappeto per la ricerca delle minime anomalie, e continua in ogni stadio della vita creando ipermedicalizazzione, talora favorita dalle industrie in un cosiddettodisease mongering”, cioè il “mercato delle malattie”. C’è alla base spesso una cosiddetta “medicina difensiva”: si tratta del moltiplicarsi di indagini e esami per ripararsi dal rischio di possibili richieste di risarcimenti qualora un minimo (o grave) particolare fosse sfuggito durante un esame di routine.

Insomma: attenzione a non confondere il trattamento inutile (che raramente viene fatto, a meno di non trovare medici negligenti) con il prodigarsi per assicurare ai disabili tutte le cure, al pari degli altri. E attenzione piuttosto a non accanirsi a medicalizzare la vita: noi e i nostri figli valiamo più dei nostri acciacchi, dei nostri disordini e della nostra disabilità.