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Poche settimane fa alcuni ricercatori che operano nel campo delle cellule staminali embrionali si sono riuniti a convegno con la collaborazione della Consulta di Bioetica (una ONLUS), delle Associazioni Politeia e Coscioni e della formazione politica Rosa nel Pugno, col risultato di aver prodotto un documento intitolato “Manifesto per la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali: dell’eticità di una ‘nuova frontiera’”.
Positivo che in esso i firmatari dichiarino di non voler alimentare false speranze, non potendo andare oltre quello che essi stessi considerano un auspicio nel delineare i possibili benefici della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Nel documento però alcune tesi destano sorpresa, sconcerto e preoccupazione.
I ricercatori, che seppure impegnati in ricerca di base immaginiamo avvezzi al confronto con i colleghi che lavorano nel campo della ricerca clinica, affermano di ritenere necessario “favorire la ricerca a tutto campo su questo tipo di cellule, dal momento che la preclusione a priori di una qualche opportunità sarebbe irrazionale e contraria al metodo scientifico” (1). Gli estensori della dichiarazione sembrano voler ignorare completamente il lungo elenco di elementi di fatto di carattere scientifico, filosofico, etico che razionalmente si oppone alla ricerca da loro sostenuta. Si tratta di ragioni difese da ricercatori della levatura di James Sherley, genetista del Massachusetts Institute of Technology di Boston, Angelo Vescovi, Bruno DallaPiccola, solo per citare alcuni nomi difficilmente accusabili di non seguire il metodo scientifico nel proprio lavoro.
Di fatto considerarsi aprioristicamente gli unici ortodossi depositari del metodo galileiano costituisce un’evidente violazione proprio del metodo scientifico. Solo per considerare uno dei capisaldi argomentativi degli autori che individua nello studio di “cellule già esistenti altrimenti destinate alla distruzione” la prova della bontà etica di tale ricerca, possiamo far notare l’imprecisione della terminologia adottata, non trattandosi tecnicamente di cellule isolate, bensì di un’unità organica ben definita e riconosciuta che va sotto il nome di embrione. Non si può neppure tacere la debolezza teoretica dell’argomentazione; se il criterio è infatti quello della ineluttabilità della morte, esso coinvolge tutti gli esseri umani, mentre se è quello dell’imminenza, è condiviso ad esempio dalle migliaia di persone legalmente condannate a morte e dai pazienti in fase terminale di malattia che potrebbero quindi con giusta causa essere usati come cavie.
Nella dichiarazione si afferma inoltre come “dovere morale” proseguire la ricerca sulle cellule staminali embrionali, descritta come “nuova frontiera”, terminologia meritevole di alcune considerazioni. Ricerca su staminali e, in misura ancora maggiore, nuova frontiera, eludono completamente di specificare quello che nella teoria dell’azione è il finis operis, o, seguendo Elisabeth Anscombe, il what (2). Si tratta in sostanza di stabilire che cosa si sta facendo, elemento essenziale per una valutazione morale dell’azione.
La descrizione “ricerca sulle cellule staminali embrionali” è in ambito morale imprecisa ed ambigua. Analogamente alla ricerca sugli esseri umani adulti, quella sulle cellule staminali embrionali, almeno teoricamente, può essere condotta in modo etico, cioè rispettando l’integrità e la dignità dell’essere umano (in una prospettiva morale cristiana, ma anche kantiana), oppure può fare dell’essere umano un semplice oggetto di ricerca, una cosa che, in quanto tale è sacrificabile. Se si vuole argomentare sostenendo l’eticità di una tale ricerca è necessario porre nel dibattito la questione in modo corretto, adottando la denominazione di “ricerca su cellule staminali embrionali ottenute mediante la distruzione di embrioni umani”.
L’espressione “nuova frontiera” riferita ad una tale pratica non è semplicemente di tipo descrittivo, ma, coniugandosi con l’affermazione “l’aumento di conoscenza è già di per sé eticamente buono”, mostra il preconcetto prescrittivo scientista che indica nel progresso un bene assoluto e tutto quello che è tecnicamente possibile fare diventa l’unico imperativo morale. Il pensiero dei ricercatori è orientato interamente al finis operantis, al why, all’intenzione ulteriore.
È indubbio che il lavoro dei ricercatori aspiri ad acquistare conoscenze da spendere per la cura delle persone malate, ma è necessario chiedersi se l’intenzione buona sia sufficiente a rendere buono l’atto; recita il vecchio adagio: “delle buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno”. L’intenzione delle bombe su Hiroshima e Nagasaki era quella di far cessare la guerra il prima possibile e risparmiare la vita di decine di migliaia di soldati americani, un intento senz’altro buono.
In uno studio pubblicato sulla rivista americana di psichiatria forense intitolato “Troppo duro da affrontare” (3), il dottor Arthur R. Caplan demolisce il mito dell’incompetenza, della pazzia e della coercizione per spiegare il comportamento professionale dei medici durante il nazismo; l’autore si chiede anche il perché la moderna bioetica abbia prestato così poca attenzione alle ragioni addotte dagli stessi medici nazisti. Secondo il direttore del centro di bioetica dell’università della Pennsylvania condannare non è sufficiente. Molti dei responsabili degli efferati crimini lo fecero nella ferma convinzione della rettitudine morale del loro operato. Analoghe considerazioni possono essere svolte per tutte le attività di ricerca eseguite sui prigionieri in spregio alla dignità della persona in nazioni a costituzione democratica (4). Quanto poi la nuova frontiera sia termine “liquido” è confermato dal suo riferimento alla visione kennedyana, ma anche dalla sua possibile declinazione dittatoriale illustrata nel saggio “The Fascist New Frontier” (5).
L’assunto che lo statuto embrionale non possa essere imposto per legge richiama l’impostazione degli stranieri morali del bioeticista Hugo Tristam Engelhardt jr. che teorizza l’organizzazione della società in gruppi completamente separati sulla base dei rispettivi sistemi valoriali, una prospettiva che non può fare a meno di concepire la società come un insieme di clan isolati la cui unica garanzia di quiete risiederebbe in un patto di non belligeranza accettato da tutti. È facile immaginare come, particolarmente nel contesto migratorio attuale, tale prospettiva condurrebbe in breve tempo al disfacimento della società. Vi è un’altra possibilità che nel documento non è considerata, quella del confronto, anche aspro, attraverso cui, opponendosi, ci si può meglio porre, conservando altresì l’unità della società attraverso lo strumento democratico. L’identità personale è cosa troppo importante perché su di essa non si esprima l’intera società, cosa che è appunto avvenuta con la legge 40, approvata da un parlamento democraticamente eletto e non abrogata da un referendum appositamente convocato, secondo regole preventivamente e democraticamente stabilite.
Non saremo certo tra coloro che sostengono la bontà a priori di quello che è lecito e viceversa la malvagità di quanto è proibito, ma, pur senza la minima intenzione di entrare nel dibattito politico, ci permettiamo di ricordare il commento al risultato referendario espresso da un esponente di primo piano dello schieramento favorevole alla ricerca attraverso la distruzione di embrioni: “Abbiamo perso, e abbiamo perso molto pesantemente […] si tratta di un voto che resterà nella storia per qualche decennio, andando ben al di là delle cronache politiche di giornata. E per questo, occorre prepararsi ad una riflessione critica severa, anche spietata, per capire cosa sia davvero successo nel profondo della società italiana” (6). Legittimo poter criticare la l
egge 40, meno cercare di ottenerne l’abrogazione senza una legittimazione popolare.
Almeno teoricamente è possibile che la distruzione di decine di migliaia di embrioni (in un futuro che a distanza di oltre due anni dal referendum appare ancora assai lontano) possa condurre a risultati positivi in termine di cura. Una tale prospettiva però non sposta di un millimetro il problema etico. Gli studi condotti nel campo di Dachau furono impiegati per pubblicazioni successive inerenti la regolazione della temperatura corporea ed in studi sul sistema cardiovascolare (7). Alcuni di questi studi furono pubblicati su riviste del calibro di American Journal Physiology, Archives Internal Medicine, JAMA, Annals Surgery a testimonianza di una certa utilità scientifica, ma forse per questo quegli esperimenti furono meno abietti, o persino meritori?
(1) Gruppo dei Ricercatori Italiani sulle Cellule Staminali Embrionali (Gruppo IES). Manifesto per la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali: dell’eticità di una “nuova frontiera”. Roma, 12 Luglio 2007.
(2) Elisabeth Anscombe. “Intention”, Harvard University Press Cambridge (Mass) 2000.
(3) Caplan AL. Too hard to face. J Am Acad Psychiatry Law 33:3:394-400 (2005).
(4) Lerner BH. Subjects or objects? Prisoners and human experimentation. N Engl J Med. 2007 May 3;356(18):1806-7.
(5) Ayn Rand. The fascist new frontier (Unknown Binding). Nathaniel Branden Institute (1963).
(6) Il radicale Daniele Capezzone (http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=54959).
(7) Robert S Pozos. Nazi Hypothermia Research: Should the data Be Used?. Military Medical Ethics, Volume 2.