Cos’è la giovinezza oggi?

ROMA, domenica, 3 giugno 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

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Abbiamo già visto (ZENIT, 13 maggio) che c’è una chiave per decifrare certi fenomeni moderni in campo di bioetica, che lasciano spesso sconcertati: non si tratta di atti di progresso ma di un’involuzione regressiva, o addirittura l’esito di una paura profonda. Proviamo qui a descrivere lo stravolgimento antropologico che è alla base di questa “reazione di fuga”.

Una volta la storia di ognuno era divisa in infanzia, età adulta e vecchiaia. Ognuna di queste tre tappe era desiderabile, e al tempo stesso irta di “pericoli”. La prima era l’età della spensieratezza, la seconda quella dell’esperienza e la terza della saggezza. Oggi assistiamo ad un cambiamento antropologico: la vita, più semplicemente, consiste in un’epoca sola. Quest’unica età è la giovinezza. Le altre età saranno “non-vita”, semplicemente non-essere. Dalla nascita in poi, ogni esperienza è di poco significato, se non in preparazione dell’essere giovane; l’età infantile non ha valore se non in quanto scimmiotta l’adolescente (piccoli fans copiano i cantanti adulti in TV, le bambine non vivono più se non vestono griffato e si mettono il rossetto); quando non si è più giovani, c’è solo il declino e il maquillage per fingere che gli “ormai” siano degli “ancora”. L’anziano-malato, allettato, demente è un tabù, un fallimento; deve sparire… semplicemente “non è”.

Ma cosa vuol dire oggi la parola “giovinezza”? In realtà già all’inizio del secolo scorso il movimento futurista aveva identificato la “giovinezza” come lo stato desiderabile della vita sposandone la dinamicità e l’esuberanza. Ma oggi alla giovinezza viene tolta la dinamicità e viene ridotta a fanciullezza prolungata, cui si sposa l’assenza di responsabilità: Alessandro Magno morì a 31 anni, avendo conquistato mezzo mondo… oggi a 31 anni non si arriva spesso nemmeno a fare il primo figlio.

Insomma: si è preso ad ideale della vita l’infanzia, con il suo egocentrismo, insicurezza e capricciosità; si è chiamata giovinezza, dilatandone i confini temporali fino ad oltre i 50 anni; e si è asserito che il resto della vita non conta. E’ un po’ come se di tutta la storia della filosofia si esaltasse solo un pensatore, considerando gli altri solo copie di lui o inetti.

Si spiegano così alcuni dei più gravi disastri sociali degli ultimi decenni: ad esempio il prolungarsi dell’età alla quale il giovane si allontana dal nucleo familiare, il procrastinarsi dell’età del matrimonio e del primo figlio, con conseguenze che ben possiamo immaginare: pochi figli e rischi per la gravidanza dovuti all’età materna avanzata. Questo problema dell’età materna all’arrivo del primo figlio è particolarmente devastante: si pensa che si possa aspettare quanto ci pare per concepire, complici tante riviste patinate, e ci si trova a disperarsi perché, passata una certa età il figlio non arriva; il British Medical Journal recentemente spiegava che non si può attendere di aver fatto carriera per fare il figlio: l’età migliore è quella tra 20 e 30 anni, non oltre. Ma l’idea della giovinezza prolungata, porta a procrastinare, non impegnarsi con il reale e fare figli quando ormai è troppo tardi, tanto che il bioeticista Hayry recentemente proponeva di spiegare alle coppie che far figli è immorale (la vita è anche dolore, dice, e far nascere vuol dire esporre al dolore…), per consolarle del figlio che non arriva. E meno figli significa più figli soli, dunque più insicurezza esistenziale e sociale.

Ma questa lettura spiega anche la reazione di fuga da ogni avvenimento che implichi una qualche accettazione dell’imprevisto e di conseguenza una responsabilità… che magari rischi di incrinare questo stato di “giovanilità perenne”. Rientrano in quest’ottica la facilità con cui si ricorre all’aborto, il moltiplicarsi degli esami prenatali nel tentativo di eliminare tutti i “figli imperfetti”. Ma anche il ricorso sempre più diffuso agli stupefacenti è leggibile in quest’ottica, così come il nascere di spinte sempre maggiori verso la “libertà di morte”, cioè l’eutanasia: se essere vecchio significa essere non-giovane, è in fondo una forma di non-essere. Così come non-essere sarà la vita prenatale, e quella infantile, bersagli sempre di maggiori abusi e cattiva considerazione, fino a negare ai neonati e ai bambini lo status di persona: un altro non-essere. Cosa dire infine dell’antinomia tra questa versione del termine “giovinezza” e la disabilità? L’handicap è non-giovane (implica responsabilità e fatica), dunque è un non-essere, e deve essere censurato o fatto scomparire.

E questa versione di giovinezza che si estende fino ai cinquantenni, perennemente intossicati da pubblicità e cibi mordi e fuggi, come spiega il libro “Toxic Childhood” della giornalista inglese Sue Palmer, che vive solo di riflesso dei desideri delle generazioni precedenti, senza ideali propri, tanto da esser chiamata generazione degli “echo-boomers”, ciò di chi vive come un eco delle speranze frustrate dei genitori… è, infine, una giovinezza capricciosa, timorosa e perennemente in fuga: e sulla strada della fuga calpesta e viene calpestata. La resurrezione aspetta una fissione atomica morale, un mutamento genetico esistenziale, proprio ciò di cui parlava Benedetto XVI nel suo viaggio in Germania. E’ possibile, è già qui; anche se molti hanno creduto che sia da folli sperarlo.

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ZENIT Staff

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