ROMA, sabato, 20 gennaio 2006 (ZENIT.org).- pubblichiamo di seguito il testo della “lectio magistralis” dal titolo “Educare oggi per l’impegno in favore di una politica al servizio del cittadino. La sfida ed il ruolo dell’Università”, pronunciata dal Cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga S.D.B., Arcivescovo di Tegucigalpa, nel ricevere 16 gennaio la laurea “honoris causa” in Scienze Politiche da parte dell’Università Carlo Bo di Urbino.
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Illustrissimo Signor Magnifico Rettore
Chiarissimi Professori
Eccellenza Reverendissima
Autorità civili, militari e religiose
Gentilissimi Signori e Signore
È una gioia rivolgermi a Voi questa mattina e ringraziarvi per il titolo di Dottore Honoris Causa in Scienze Politiche conferitomi dall’Università “Carlo Bo” in questa bella Città di Urbino. Ci troviamo in una Università che è luogo privilegiato per la elaborazione non solo della cultura, bensì, come suo frutto, della società; del modo in cui gli allievi e le nuove professionalità vedono il mondo; delle diverse prospettive con cui interpretano questo mondo, questa società e la sua vita sociale e individuale che conferiscono ordine alla sua convivenza tante volte gregaria.
Ogni Istituzione universitaria dovrebbe porsi, di tanto in tanto, queste domande: In che modo l’Università si assume la responsabilità di costruire una società giusta? Siamo preparati per prendere il posto che ci corrisponde nel tessuto sociale? Come Università ci sforziamo di prendere coscienza comune dell’importanza del nostro ruolo? Siamo consapevoli di tutto ciò che implica il nostro lavoro con gli studenti universitari, futuri operatori dell’impegno politico e sociale?
Una voce dal Continente della speranza
Il tema che intendo trattare ci sfida proprio perché le scienze politiche hanno un ruolo molto importante nella situazione attuale. Parlo logicamente a partire dalla mia esperienza in America Latina, il cosiddetto “continente della speranza” che desidera ardentemente autentici cambiamenti di una politica che è andata degenerando quasi in un affare o in una industria. Né la politica né i politici godono di buon nome, né di buona reputazione. Tutti, qualsiasi professione esercitino – ma anche se non ne esercitano alcuna –, si sentono autorizzati e giustificati a parlare male della politica o dei politici riversando su di essa e su di essi i peggiori apprezzamenti.
Basta ascoltare i banditori dell’anticorruzione per capire che non c’è una persona pubblica corrotta se non c’è un corruttore privato, e che nemmeno esistono corrotti nazionali senza che ci sia un corruttore internazionale. Nel nostro continente predomina l’idea che la faccenda politica sia spesso sinonimo di corruzione e d’inganno; che molti leaders approfittino di essa per ottenere vantaggi personali. Per questa ragione, la politica è caduta nel discredito, vasti settori della società sono diventati indifferenti nei confronti dei problemi nazionali e l’astensionismo dilaga. È necessario restituire alla politica la sua dignità; e questo dipende, in primo luogo, proprio dai politici.
Non dimentichiamo che la politica è un’attività umana nobile e umanizzante; un impegno di servizio che esige di onorare la verità e la giustizia, il cui fine non può essere diverso del conseguimento del bene comune, inteso come l’insieme delle condizioni sociali necessarie affinché i cittadini possano svilupparsi pienamente e che, secondo le parole del Papa Giovanni Paolo II, “non è la semplice somma degli interessi privati, bensì implica la loro valorizzazione e armonizzazione, ottenute attraverso una equilibrata gerarchia di valori e, in ultima istanza, attraverso una corretta comprensione della dignità e dei diritti della persona”. In America Latina questo comporta la necessità di assicurare una giusta distribuzione delle risorse e condizioni di vita degna per tutti negli ambiti economici, culturali e spirituali.
Noi uomini politici latinoamericani dobbiamo compiere la nostra missione in un mondo globalizzato, dominato dal mercato, che sottomette la solidarietà all’individualismo e che alimenta la corruzione. Il pericolo della cultura globale è la sua indifferenza verso la democrazia e la giustizia sociale; il suo obiettivo è quello di creare dei consumatori, non dei cittadini e nemmeno una nazione. Per questo, caldeggiamo la sfida di promuovere un nuovo modo di fare politica, che implica una rivoluzione etica, cioè, un impegno in favore della verità, in favore della giustizia e dell’equità, con un rispetto integrale della dignità umana. Aneliamo ad una politica latinoamericana che, attraverso uno Stato sociale di Diritto, realizzi concretamente le aspirazioni dei nostri popoli; una politica che garantisca l’esercizio dei diritti e dei doveri, che anteponga il bene comune ai suoi interessi individuali ed esclusivi.
Cito a questo proposito il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (n. 552), il quale afferma: “Negli ambiti dell’impegno sociale dei fedeli laici emerge, anzitutto, il servizio alla persona umana: la promozione della dignità della persona – il bene più prezioso che l’uomo possiede – è un compito essenziale; ancor più è, in un certo senso, il compito centrale e unificante del servizio che la Chiesa, e in essa i fedeli laici, sono chiamati a rendere alla famiglia umana”. Ma i nostri politici, e tra essi molti cattolici, sono ben lontani dagli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Di fronte ad episodi ricorrenti di violazione sistematica dei diritti umani, la lotta per la loro rivendicazione, in America Latina, deve restare un obiettivo irrinunciabile. Tuttavia, è necessario riconoscere a tale riguardo che la costruzione del bene comune esige che ogni persona assuma le proprie responsabilità e compia i propri doveri. Tutti siamo chiamati a “promuovere, in modo organico e secondo le forme istituzionali, il bene comune”.
La storia dell’America Latina non si può guardare soltanto da questo Continente. Da quando la globalizzazione ha fatto la sua comparsa, pensare la storia nazione per nazione è diventato impossibile; ancor più difficile farlo regione per regione. Finalmente siamo nel mondo. Ricordo la lungimiranza geopolitica del Papa Giovanni Paolo II nel proclamare e convocare il Sinodo dell’America mettendo insieme in una sola realtà America del Nord e America Latina, facendo venire a molti il sospetto che era arbitrario radunare insieme due realtà così diverse! Da allora nel Capitolo speciale del Trattato del Libero Commercio si parla di accordi d’integrazione non soltanto all’interno del subcontinente bensì – soprattutto – con la potenza del Nord.
Nella storia americana abbiamo un posto di secondo ordine, non v’è dubbio, ma lo abbiamo…! Siamo presenti con risorse naturali importanti, lo siamo con la biodiversità e, soprattutto, siamo dei “consumatori”. Contiamo come attuatori delle scelte politiche, anche se non contiamo mai nel momento in cui esse vengono prese, né in quello della loro valutazione. Siamo il “giardino posteriore” dell’America e questa percezione continua a dividere “l’anima latinoamericana”. Per molti questo ‘giardino’ continua ad essere il “patio che sta dietro la casa” e in futuro continueranno ad esistere o nasceranno nuove correnti “anti-americane” con connotati diversi e pericolosi. Dovremo imporci la fatica di rispondere a questa domanda: Quanto la nostra storia è unita a quella degli Stati Uniti?
Alcuni dicono che l’America Latina è sempre più il luogo della “giustificazione” dove il mea culpa si realizza senza problemi e dove nei confronti delle nostre genti si usa la carità che difficilmente si percepisce di fronte all’extracomunitario che arriva in Europa in cerca di un futuro migliore. Adesso per i popol
i europei è importante la costruzione della “casa comune europea”. In effetti viviamo in maniere diverse: come consumatori (soprattutto di beni voluttuari e di armi); come biodiversità; come luogo dove si “rivitalizza” il debito estero; come luogo di investimento con rendimenti sicuri; come lavoro a buon mercato nella grande “macina” nella quale ci stiamo trasformando; come luogo dove il corrotto più potente incontra un interlocutore che gli farà il contrappunto favorevole affinché l’affare “vada in porto”.
Per ben riflettere sulla politica dell’America Latina bisogna ricordare che la decade degli anni Ottanta fu la “decade nella quale salì in auge la democrazia”. Ricordo che eravamo felici con una democrazia formale senza democratici; una democrazia con democratici deboli (facilmente remunerabili con la vendita delle proprie decisioni), una democrazia disorientata che confondeva “attivismo” con partecipazione e che mai volle o aspirò a toccare i centri decisionali (che sono economici e militari); una democrazia che sebbene espulse buona parte delle élites tradizionali della gestione politica, la subappaltò immediatamente a gestori della nuova economia e ai mezzi di comunicazione che oggi sono quelli che governano.
Questa democrazia che arrivò sostituì i capi con la “immagine”, con i sondaggi di opinione; normalmente una unità indotta attraverso i mezzi di comunicazione e i condizionamenti vincolati all’informatica. Questa stessa democrazia fu quella che potenziò le Organizzazioni Non Governative e la società civile che cooperarono, sacrificando partiti politici, sindacati e cooperative, senza creare strumenti che impedissero, ad alcune di esse, di cadere nei difetti e nelle corruzioni che combattevano. Tutti voi ricorderete la bibliografia della subalternità e non è mancato chi, davanti alla bella abitudine di portare “aerei stanchi di volare” nei parchi di divertimento, dicesse che era un omaggio alle nostre democrazie; per quanto gli aerei siano belli, non sono tuttavia capaci di volare.
Allo stesso modo non possiamo dimenticare il giorno in cui queste democrazie cominciarono a morire. Crearono tante aspettative e… poi nulla! Bisogna ricordare che più del 60% dei cittadini dell’America Latina sarebbero disposti a rinunciare alla democrazia per un altro regime che rendesse loro più facile raggiungere, senza tanta fatica, la sopravvivenza. In effetti queste democrazie: non hanno risolto le carenze di molti né per quanto riguarda le necessità essenziali passive (salute, cibo, vestiario, casa), né quelle essenziali attive (educazione ed impiego); hanno messo in evidenza alcune forme di corruzione ma sono cadute nel vortice di nuove corruzioni; tutto si è aggravato con l’avvento del narcotraffico (alcuni preferiscono parlare di narco-commercio) che ha corrotto individui ed istituzioni; sono caduti nella spirale delle armi in alcune società già di per sé ancestralmente vincolate alla violenza; hanno privatizzato i beni pubblici vendendoli a basso prezzo ed alcuni di essi ora si preparano a ricomprarli a condizioni onerose per l’erario pubblico; hanno socializzato le perdite e privatizzato gli utili; hanno sacrificato gli uomini migliori che incarnavano la contestazione affidando loro l’amministrazione del governo ma non la gestione del potere; hanno sofferto di “Alzheimer tattico”, dimenticando le lezioni del passato; hanno creato un “diapason linguistico” per cui si parla male degli strumenti, ma non di coloro che li suonano (per esempio: la politica, i politici, l’economia sono riprovevoli, ma si evita di personalizzare, cadendo nel detto che “il cattivo lavoratore dà la colpa all’arnese”); ma, innanzitutto, è stata una società incapace di creare un sogno, un’utopia; siamo una società unita dalla paura, dimenticando – questo sì – che “la paura non unisce, massifica”!
Se si leggono i commentatori odierni dell’America Latina si possono riassumere così le definizioni sullo stato del malato: incertezza; inquietudine; insicurezza; profonda anemia; cecità; una società “distopica”. Nessuno può negare agli studiosi della “nostra America” di non aver ricercato né pianificato “vie d’uscita” e “soluzioni”, ma la cosa grave è stata che qualche Melchiades (come in “100 anni di solitudine”) ce le ha sempre corrette e modificate attraverso ciechi e inutili programmi di cooperazione, ponendoci di fronte all’evidenza che “gli specchi sepolti” restano sempre lì e che la nostra cultura socio-politica e socio-culturale è fatta – a loro dire – di luoghi e di frasi comuni. Politicamente l’America Latina sta attraversando un “brutto momento”; ciò che urge è essere consapevoli che se continuiamo su questa strada, non incontreremo una via di uscita; bisogna capire in maniera categorica che ci hanno prosciugato “i libretti”; che noi stessi siamo stati superati; che non serve a niente dolersi; che neanche va bene, né vale la pena, andare a cercare i colpevoli. È vero, “la cassetta degli attrezzi” è obsoleta, è inutile; nessuno, quasi nessuno, comprende ciò che sta accadendo…! Non vediamo, nonostante questo “tsunami” ce lo indichi, che nel fondo c’è una corrente …!
In questa corrente di fondo l’America Latina non può far propria né comprare dai popoli sviluppati la malattia del “relativismo”, che è la malattia degli egoisti insoddisfatti di cui, tra di noi, soffrono soltanto certi settori d’élite. Molto presto vedremo questo tema alla ribalta; frattanto in America Latina tutti i settori poveri, medi e gli intellettuali si sono dati alla ricerca e all’elaborazione di una “nuova utopia”, di un sogno che ci permetta, con realismo, di vivere la globalizzazione che arriva, senza perdere la “localizzazione” che possediamo; siamo globales ma si deve avviare una nuova organizzazione affinché l’America Latina recuperi la sua voce e, in secondo luogo, affinché si sia capaci di creare strumenti di integrazione che conducano a creare un’autentica “comunità latino-americana di nazioni” (non si deve dimenticare Simón Bolívar dato che la “integrazione” è l’unica idea politica originale dell’America Latina). Solo così possiamo affrontare il problema senza ignorare che siamo “soggetti” ad un mondo che ci pone molti limiti. La melodia e il ritmo sono affare nostro.
Le élites governative hanno comprato la “globalizzazione” senza negoziare efficacemente il modo per superare pericolosi sintomi che possono condurre, senza dubbio, alla morte del neoliberalismo. In effetti la comparsa dell’edonismo (carpe diem); delle ondate migratorie; del paramilitarismo (non solo in campo politico); della insicurezza; del baratro della corruzione; dell’aumento della vendita e commercio di armi; della persecuzione verso i proprietari di terre e di beni ecologici; del narcotraffico; dell’aumento della disoccupazione; della ingovernabilità; dello sbandamento di una società in cui dirigere è “amministrare i problemi e non risolverli”; del minusvalore della vita umana… Tutto questo appare come una serie di sintomi assai preoccupanti. Oggi noi ci domandiamo con angoscia: perché sono falliti i nostri progetti autoctoni di integrazione? perché trionfano così rapidamente i Trattati di Libero Commercio e di tutto ciò che viene proposto da fuori? quante imprese sono ancora nostre? di chi sono i nostri mezzi di comunicazione? quanto accesso abbiamo alla informazione strategica? in che misura siamo ancora liberi di prendere le nostre decisioni in campo culturale, politico, economico e nella sicurezza? come si sta gestendo l’equilibrio tra la “globalizazione del mercato” e la “globalizzazione della solidarietà”?
Non si può negare che il terrorismo sia una realtà crudele, che “la morte di un solo uomo impoverisce la terra”; ma le realtà del dolore e della compassione non si esauriscono nella morte tragica ed ingiusta di persone nei pa
esi sviluppati. Abbiamo dimenticato che per le nostre genti umili che non conoscono “il grande mondo” la distruzione di una Alcaldía (municipio) e di un Banco agrario è tanto grave quanto quella delle ‘torri gemelle’, come l’11 marzo, come la distruzione della metropolitana di Londra o l’attentato nell’aeroporto di Madrid. Questo mondo che reclama “minuti di silenzio” – giusti ma selettivi – dimentica le 35/40 guerre attuali, che continuano senza neanche il primo minuto di silenzio. Che cos’è per noi il terrorismo? Questa domanda e le sue risposte le dobbiamo alla storia che noi – ancora – possiamo fare. Esiste un principio che è nato nel mondo del foot-ball: “a chi non fa goals glieli fanno”; a chi non fa politica, a chi non fa storia, gliela fanno gli altri.
Non si può essere ingenui; gli altri sanno perfettamente quello che stanno facendo e approfittano della nostra ignoranza, della nostra cecità o della nostra mancanza di interesse. Per questo è imprescindibile comprendere di nuovo che cosa è la politica e scoprire perché un concetto così semplice sia diventato tanto complicato da comprendere. Bisogna capire che la Politica si attiva quando si sa dove si va, a quale utopia si anela, quale sogno si cerca di realizzare, quale progetto ci orienta, quale meta determina il corso della nostra vita. La Politica diventa operosa quando sappiamo rispondere a questi interrogativi: Perché si fanno le cose? A che fine si fanno le cose? Come si fanno le cose?
È doloroso vedere intellettuali e politici formati all’estero, o in università che sono “copie” di quelle estere, con la loro lista di problemi da risolvere, ma che non danno risposte ai suddetti interrogativi poiché non hanno interiorizzato la forza magnifica di quello che dovrebbe essere la politica. Allo stesso modo è imprescindibile capire che la politica “si attiva” quando si definisce “il ritmo” del cambiamento, perché sarà questo “ritmo” a dire con chi andremo verso il futuro. Il Neoliberalismo, in tutta la sua macabra onestà sociologica, già lo ha definito: “… con coloro che siano capaci di camminare al ritmo del mercato”. Qual è la risposta che viene a noi dal Cristianesimo? Chesterton lo diceva con molta chiarezza: “L’unico sistema che non ha fallito è il Cristianesimo, poiché è l’unico che non è stato mai applicato”.
Allora, Amici, la politica è un grande interrogativo: è l’interrogativo…! Bisogna chiedersi e dare una risposta a questa domanda: chi fa politica in America Latina? Coloro che contestano il Vangelo sanno: da dove vengono; perché fanno le cose; per quale scopo fanno le cose; come le fanno; e conoscono il ritmo (con chi cammineranno!). Non possiamo ignorare che tra i nostri ci sono quelli che hanno cominciato a “disegnare la politica”: i movimenti per la terra, i gruppi indigeni, i gruppi per la pace… Ma siamo molto lontani, molto lontani… Desidero mettere in evidenza due concetti: uno di Giovanni Paolo II, il quale nel 1999 affermava che la “la politica è costruire la pace” e che la politica in America Latina corre sulle rotaie della qualità e della quantità dei cosiddetti “cammini per la pace”, cioè: il dialogo; l’educazione; la condivisione dei beni; lo sviluppo del diritto; l’equilibrio dei poteri internazionali; il rispetto per la vita e la dignità della persona che devono stare al primo posto della strategia, della politica e dell’economia; la partecipazione.
L’altro concetto è capire che, nella storia recente, la Chiesa è arrivata in tempo utile ad affrontare i problemi. Ciò che spesso accade è che ci sono alcuni che si spaventano per quello che è stato detto e deciso in molte riunioni; ci sono molti che lo difendono bene “a parole” e lo danneggiano “con i fatti”; tuttavia il processo continua e la storia si scrive in questo modo. Non possiamo dimenticare che la Politica è un Apostolato, una Missione da compiere e che, sebbene sia bello sognare, in politica è cosa migliore realizzare i sogni. Dobbiamo formare noi stessi integralmente per dare risposte adeguate alle situazioni di disuguaglianza che colpisce soprattutto le donne, indigene e povere. Abbiamo bisogno di essere incisivi nei nostri luoghi di azione. La realtà sociale, politica ed economica latinoamericana non può essere affrontata con improvvisazione. Si deve:
– rivalutare l’azione politica come attività eminentemente etica, di servizio al bene comune e non come occasione per abusare del potere;
– fortificare, partendo dai nostri programmi e piattaforme, la riconciliazione che ci porti a ricostituire il tessuto sociale, così lacerato dalla ingiustizia strutturale e da varie forme di violenza;
– dare anche priorità all’educazione in senso civile affinché tutti i latinoamericani – uomini e donne – la esercitino pienamente e i poveri siano protagonisti della loro crescita.
I problemi che opprimono l’America latina sono enormi, ma i nostri popoli posseggono una riserva morale che fa possibile la speranza. All’inizio del terzo millennio abbiamo assunto l’impegno di costruire una politica che realizzi i sogni di giustizia e dignità delle maggioranze impoverite di questo Continente.
L’Università: un’educatrice eminentemente umana
Fernando Savater dice, citando Graham Green, che “essere umano è anche un dovere”. Cioè: “Nasciamo umani, ma ciò non basta. Dobbiamo anche diventare tali”; e la possibilità di essere umano si realizza effettivamente solo per mezzo degli altri, dei propri simili, cioè “di quelli ai quali lo studente farà tutto il possibile per assomigliare”. E “se – continua Savater – come dice Jean Rostand, la cultura è ciò che l’uomo aggiunge all’uomo, l’educazione è il conio impresso sull’umano lì dove esiste solo come potenzialità. La peculiarità dell’uomo non è tanto il puro apprendere, quanto l’apprendere dagli altri uomini, ricevere il loro insegnamento”.
Possiamo comprendere allora perché sia necessaria una educazione universitaria adeguata come azione organizzata di esseri umani verso altri esseri umani. Dobbiamo essere d’accordo sul fatto che l’apprendimento umano, lungi dall’essere identico a quello animale, è un processo complesso, pieno di innumerevoli variabili che lo determinano e lo differenziano per ogni persona. Possiamo comprendere la complessità dell’apprendimento universitario nelle materie che vengono insegnate, ma dobbiamo ammettere che non si tratta solo di ciò: apprendiamo contenuti e informazioni, e sviluppiamo abilità e competenze; tuttavia apprendiamo anche un modo di vivere, di vedere il mondo, cogliamo il senso di una cultura, di una cosmogonia. Ma non è solo questo: è anche l’apprendimento di una serie di segni e di significati, un apprendimento di relazione simboliche, di un linguaggio particolare, di un discorso specifico che ci offre una prospettiva per capire ciò che sappiamo e quello che siamo capaci di fare, tanto a livello di prodotto tecnologico quanto a livello di relazioni interpersonali.
Avvicinandomi alla conclusione, cito, ancora una volta, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (n. 555), che può essere illuminante al riguardo: “Un particolare campo di impegno dei fedeli laici deve essere la promozione di una cultura sociale e politica ispirata al Vangelo. La storia recente ha mostrato la debolezza e il fallimento di alcune prospettive culturali ampiamente condivise e dominanti per lungo tempo, specialmente a livello politico e sociale. In questo ambito, specialmente nei decenni posteriori alla seconda Guerra Mondiale, i cattolici, in diversi paesi, hanno saputo assumersi un elevato impegno che testimonia, oggi con sempre maggiore evidenza, lo spessore dell’ispirazione e il loro patrimonio di valori. L’impegno sociale e politico dei cattolici, infatti, non si è limitato alla mera trasformazione delle strutture p
oiché trae impulso da una cultura di base che accoglie e dà conto delle istanze che derivano dalla fede e dalla morale, collocandole a fondamento e come obiettivo di progetti concreti. Quando questa coscienza viene meno, gli stessi cattolici si condannano alla dispersione culturale, impoverendo e limitando le loro proposte. Presentare in termini di attualità culturale il patrimonio della Tradizione cattolica, i suoi valori, i suoi contenuti, tutta l’eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo, è ancor oggi l’urgenza prioritaria. La fede in Gesù Cristo che definì se stesso “Via, Verità e Vita” (Gv 12,16), spinge i cristiani a cimentarsi con impegno sempre rinnovato nella costruzione di una cultura sociale e politica ispirata al Vangelo”.
Leggendo questo paragrafo impegnativo credo che i principi ivi contenuti, possano essere validi anche nell’Università, che sia o no d’ispirazione cattolica. L’impegno sociale e politico dell’Università in ambito culturale comporta attualmente alcune direttive precise. La prima è quella che cerca di assicurare a tutti e a ciascuno il diritto ad una cultura umana e civile, conforme alla dignità della persona, senza distinzione di razza, sesso, nazionalità, religione o condizione sociale. Questo diritto implica il diritto delle famiglie e delle persone ad una scuola libera e aperta; la libertà di accesso ai mezzi di comunicazione sociale, per cui va evitata qualunque forma di monopolio e di controllo ideologico; la libertà di ricerca, di divulgazione del pensiero, di dibattito e di confronto. Al fondo della povertà di tanti popoli si trovano infatti forme diverse di indigenza culturale e di diritti culturali non riconosciuti. L’impegno per l’educazione e la formazione della persona costituisce, in ogni momento, la prima sollecitudine dell’azione sociale dei cristiani (cf Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 557).
Un’altra sfida per l’impegno dell’Università si riferisce al contenuto della cultura, cioè, alla verità. La questione della verità è essenziale, dal momento che gli esseri umani hanno il dovere di conservare la struttura di tutta la persona, nella quale spiccano i valori dell’intelligenza, della volontà, della coscienza e della fraternità. Una corretta antropologia è il criterio che illumina e realizza le diverse forme culturali e storiche. L’impegno del cristiano in ambito culturale si oppone a tutte le visioni riduttive e ideologiche dell’uomo e della vita. Il dinamismo di apertura alla verità è garantito soprattutto dal fatto che le culture delle diverse nazioni sono, in fondo, altrettanti modi diversi di porre la domanda circa il senso dell’esistenza personale (cf Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 558).
Le Università devono lavorare generosamente per valorizzare pienamente tutte le dimensioni della cultura: questo compito è sommamente importante e urgente per riuscire a conquistare la qualità della vita umana, sul piano sociale e individuale. La domanda che scaturisce dal mistero della vita e che rinvia al mistero più grande, quello di Dio, è infatti al centro di tutte le culture; cancellare questo ambito comporta la corruzione della cultura e della vita morale delle Nazioni. L’autentica dimensione umana e religiosa è costitutiva dell’uomo e gli permette di captare, nelle sue diverse attività, l’orizzonte nel quale esse trovano significato e direzione. La religiosità o spiritualità dell’uomo si manifesta nelle forme culturali alle quali dà vitalità e ispirazione, e l’Università è responsabile anche di questo. Quando si nega la dimensione umana, culturale e religiosa di una persona o di un popolo, la stessa cultura si altera; arrivando, in alcuni casi, perfino a scomparire (cf Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 559).
Nel promuovere un’autentica cultura, le Università daranno grande rilievo ai mezzi di comunicazione sociale, considerando soprattutto i contenuti delle innumerevoli iniziative realizzate dalle persone; tutte queste iniziative, sebbene varino da un gruppo a un altro, e da persona a persona, hanno un peso morale e devono essere valutate sotto questo profilo. Per scegliere correttamente, è necessario conoscere le norme di ordine morale e applicarle fedelmente. La Chiesa e le sue università offrono un’ampia tradizione di sapienza, che ha radici nella Rivelazione divina e nella riflessione umana, il cui orientamento teologico è un correttivo importante tanto per la soluzione “atea” – che priva l’uomo di una parte essenziale: quella spirituale – come per le soluzioni permissive e consumistiche, le quali con diversi pretesti cercano di convincerlo della sua autonomia da ogni legge e da Dio stesso. Più che giudicare i mezzi di comunicazione sociale, questa tradizione si pone al loro servizio. La cultura della sapienza – propria dell’Università – può evitare che la cultura dell’ informazione – propria dei mezzi di comunicazione – si converta in un cumulo di fatti senza senso” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 560).
Le Università devono considerare i mezzi di comunicazione sociale come possibili e potenziali strumenti di solidarietà: la solidarietà appare come conseguenza di una informazione vera e giusta, e della libera circolazione delle idee, le quali favoriscono la conoscenza e il rispetto del prossimo. Questo non accade se i mezzi di comunicazione sociale vengono usati per edificare e sostenere sistemi economici al servizio dell’avidità e dell’ambizione. La decisione di ignorare completamente alcuni aspetti della sofferenza umana causata da gravi ingiustizie presuppone una scelta inaccettabile. Le strutture e le politiche di comunicazione e di distribuzione della tecnologia sono fattori che contribuiscono a che alcune persone siano “ricche” d’informazione ed altre “povere” d’informazione, in un’epoca in cui la prosperità e perfino la sopravvivenza dipendono dall’informazione. In tal modo, l’Università, unitamente ai mezzi di comunicazione sociale, contribuisce alle ingiustizie e agli squilibri che causano quello stesso dolore che poi diviene oggetto d’informazione. Le tecnologie della comunicazione e della informazione, unitamente alla conoscenza del loro uso, devono puntare alla eliminazione di queste ingiustizie e squilibri (cf Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 561).
Conclusione
L’Università e la sua missione, professore ed allievo, richiedono un impegno, una presa di posizione. Il lavoro stesso del docente universitario e dello studente implicano una presa di posizione nella misura in cui si pone come il filtro attraverso il quale arrivano agli allievi le concezioni e le ideologie della cultura; sono pertanto i professori e l’Università che, sotto l’influsso di determinati assiomi culturali e politici, decidono ciò di cui gli allievi hanno bisogno per formare parte della struttura sociale nella loro missione specifica. L’Università si impegnerà affinché i suoi alunni ricevano il capitale culturale nella misura che corrisponde loro, in modo tale che si compia in essi la funzione che li aiuti nel tessuto sociale.
Perché questo avvenga il professore deve aver definito per sé – e per i propri allievi – la sua posizione personale di fronte alla circostanza storico-culturale che affronta; deve aderire a qualche dottrina per svolgere il suo lavoro di educatore. Devo dire, a questo punto, che considero un inganno l’idea che l’educazione universitaria possa essere apolitica, priva di ideologia o semplicemente neutrale; certamente non si tratta di strumentalizzarla, anzi, al contrario, si tratta di riconoscere che, come ogni altro processo comunicativo e discorsivo, l’educazione universitaria si fonda su principi ideologici che la alimentano – non mi riferisco necessariamente ad una ideologia politica, ma a delle concezioni di mondo – e che le forniscono finalità e metodi.
Purtroppo questa coscienza
dell’Università, come educatrice, rispetto al suo impegno sociale ha finito per essere, in alcuni ambiti, poco significativa. Le riforme nell’educazione hanno portato con sé modifiche di modelli a livello sociale. Non per il fatto che, fino a questo momento, abbiano significato una rivoluzione in termini educazionali, ma perché le riforme portano con sé delle concezioni di persona, di società e di mondo diverse da quelle che hanno sostenuto l’attività universitaria prima della loro comparsa. L’impegno sociale dell’Università oggi, deve rafforzarsi, dare a se stesso un nuovo significato, giacché crediamo che l’impegno radicale dell’Università nei confronti dell’educazione dell’uomo non possa eludere una sua posizione critica riguardo alle politiche di ingiustizia e di disuguaglianza. Questo deve continuare ad essere un problema fondamentale in ogni Università.
Ogni processo formativo si costruisce come una interazione complessa tra persone. Solo da questo punto fermo è possibile l’apprendistato. Tale tirocinio si inquadra in un contesto umano più profondo della mera ripetizione d’informazioni: è l’adattamento di un essere naturale ad una realtà sociale mediata dalla cultura; è l’adozione di una cosmogonia – cioè di un modo di vedere il mondo, le altre persone e me stesso – che impronta ogni proposito, ogni azione e pensiero che ciascuno di noi possa avere. Il capitale culturale che ogni persona eredita determina il suo ruolo nella società, lo libera o lo schiavizza, lo integra o lo esclude. Tutto questo è frutto di una opzione operata in sintonia con ciò che si è stati capaci di apprendere. L’Università e il professore sono decisivi in questo. Anche il docente deve essere educato all’impegno per dare delle risposte alle inquietudini dei suoi allievi e suscitare in essi l’emancipazione attraverso la presa di coscienza e lo spirito critico.
Il compito del docente va ben oltre il suo ruolo di insegnante ed ha a che vedere non soltanto col ruolo svolto nel tessuto sociale, bensì col suo impegno in favore dei suoi allievi, in un rapporto interpersonale vicino e cordiale. È qui dove si gioca tutto il rapporto pedagogico, non soltanto quello che si instaura tra professore e studente, ma quello dell’istituzione universitaria completa, aggiungendo ad essa inoltre le istituzioni politiche, economiche e sociali interessate alla sua funzione. È necessario personalizzare il rapporto pedagogico dentro l’Università per fare di essa uno strumento di comunicazione umana.
Ma, affinché essa non sia soltanto un’istituzione in cui si insegna retorica, questo deve diventare una sorta di politica interna dell’Università. Deve essere assunto dalle istituzioni che finanziano, che preparano e che perfezionano i docenti, i quali – come tutti – devono imparare a guardare il problema da questa prospettiva e devono procurarsi i mezzi necessari per dare risposta alle domande che possono sorgere lungo il cammino. È necessaria la riflessione permanente e sistematica per visualizzare i problemi e le modalità per risolverli; ma, sopra ad ogni altra cosa, è necessario quello spirito che ci consente di riscattare dalla segregazione altri esseri umani e che permette loro di realizzarsi umanamente, secondo la propria dignità, e di conseguenza di intervenire in modo attivo e vigoroso nei processi storici e sociali che si troveranno ad affrontare.
In un mondo sempre più vuoto di valori spirituali, di fronte ad una realtà ogni volta più ostile nei confronti della solidarietà e dell’impegno verso gli altri, di fronte ad un sistema educativo deviato verso l’individualismo e la strumentalizzazione, la mia chiamata pretende di riscattare l’essere umano, quello che è dietro ad ogni studente, ad ogni docente, per ridare ad esso il controllo supremo sulla propria esistenza, specialmente a livello intellettuale e soprattutto spirituale. Un ambito peculiare di discernimento indiretto per gli studenti universitari – compito ineludibile dell’Università – riguarda la scelta degli strumenti politici, o l’adesione ad un partito, e le altre forme di partecipazione politica. Non si tratta di manipolare o di incanalare le coscienze, bensì di fornire elementi di giudizio e di discernimento. È necessario fare un’opzione coerente con i valori, tenendo conto delle circostanze reali.
In ogni caso, tutte le scelte devono sempre avere radici nella carità e tendere alla ricerca del bene comune. Sappiamo che le istanze della fede cristiana difficilmente si possono trovare in un’unica posizione politica: pretendere che un partito o una formazione politica siano conformi pienamente alle istanze della fede e della vita cristiana genera equivoci pericolosi. Lo studente universitario cristiano non può trovare un partito politico che risponda pienamente alle esigenze etiche che nascono dalla fede e dall’appartenenza alla Chiesa: la sua adesione ad una formazione politica non sarà mai ideologica, bensì sempre critica, cosicché il partito, e il suo progetto politico, siano stimolati a realizzare modelli sempre più proiettati a conseguire il bene comune, incluso il fine spirituale dell’uomo.
Tu, Alma Mater, non puoi dimenticare che, come Madre, devi educarci in questi principi e in questo cammino (cf Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 573). Grazie a tutti voi per l’ascolto e per questo segno accademico per la mia persona, e soprattutto auguri vivissimi per la Vostra Università che inizia il VI centenario del suo prestigioso sevizio alla cultura!
Card. Oscar Andrés RODRÍGUEZ MARADIAGA, S.D.B.
Arcivescovo di Tegucigalpa
Honduras
Urbino, 16 gennaio 2007