Arcivescovo Bruno Forte: “Per dire Dio ai cercatori di Dio”

ROMA, sabato, 20 gennaio 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, dal titolo “Per dire Dio ai cercatori di Dio”, nell’intervenire a Roma al Seminario promosso dalla Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi (15-16 Gennaio 2007).

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Come dire Dio ai cercatori di Dio? come presentare il Dio cristiano a chi – mosso dalla nostalgia del Totalmente Altro – voglia aprirsi all’incontro con il Figlio eterno fatto uomo per noi? Come passare dalla proposta di questo messaggio all’esperienza della vita nuova nello Spirito? E come introdurre nella comunione della Chiesa dell’amore, dimora della Trinità nel tempo, luogo dello Spirito e scuola della fede? Queste – quale linguaggio? quale contenuto? quale rapporto con la prassi viva della fede ecclesiale? – sono le domande sottese allo sforzo di corrispondere all’attesa dei possibili cercatori di Dio, partendo dall’esperienza che di Lui abbiamo nella vita sacramentale della Chiesa.

Ad esse non può non interessarsi la comunità dei credenti di fronte al crescente processo di secolarizzazione ed alla diffusa ignoranza dei contenuti della fede cristiana, ma anche dinanzi al bisogno mai spento e sempre ritornante di conoscere il Dio biblico e il senso che la fede in Lui schiude alla vita e alla storia. Non basta trasmettere la fede a chi già in qualche modo la vive; occorre rivolgersi anche in modo adeguato a chi non crede e tuttavia cerca il volto di Dio, o a chi pur credendo avverte il bisogno di conoscere meglio Colui in cui crede o di poter dar ragione ad altri della propria speranza.

Si delinea così l’esigenza di comunicare la fede in modo “fondamentale”, capace cioè di presentare i fondamenti del messaggio cristiano andando incontro alle fondamentali attese del cuore umano e del tempo in cui ci è dato di vivere. Si tratta di un’esigenza a cui non risponde prioritariamente la presentazione catechistica del messaggio cristiano, destinata piuttosto alla formazione del discepolo già introdotto o da introdurre nei sacramenti, ed alla quale invece può corrispondere una sorta di riscoperta del “kerygma” originario. In questa luce, a mo’ di introduzione alla riflessione comune, vorrei proporre alcune considerazioni circa la presentazione della fede cristiana ai cercatori di Dio, riguardanti rispettivamente il linguaggio da usare, il contenuto essenziale da trasmettere e l’esperienza che del Dio vivo ci consente di fare la Chiesa voluta dal Signore Gesù.

1. Quale linguaggio usare per comunicare la fede ai cercatori di Dio?

L’esperienza della fede è quella dell’incontro fra l’esodo della condizione umana e l’avvento di Dio, che si realizza lì dove la buona novella è accolta dal libero assenso della mente e del cuore. Portare alla parola questo incontro è il compito del linguaggio della fede, chiamato perciò a significare tanto la componente umana, quanto l’azione divina, quanto il loro incontrarsi nella libertà e nella grazia. In quanto esprime il movimento di trascendenza della condizione umana nel suo aprirsi al mistero, il linguaggio della fede è sempre auto-implicativo: nel parlare del Dio cristiano ci si mette in gioco, perché si parla di noi, “de re nostra agitur”. Si tratta di un linguaggio che non può non coinvolgere, con l’intelligenza, anche gli affetti, i sentimenti e quella dimensione del vissuto, che è evocata dalla parola, anche se mai totalmente consegnata al dire.

In quanto linguaggio chiamato a comunicare l’avvento divino, quello della comunicazione della fede non può non essere un linguaggio totalmente dipendente dalla rivelazione, nutrito dunque dalla Parola di Dio, costruito a partire dal testo biblico ed insieme alimentato dall’esperienza spirituale del mistero, che è stata consegnata nei secoli dalla vivente tradizione della Chiesa al dogma, alla ricerca teologica, alla testimonianza dei mistici. Un linguaggio necessariamente evocativo, proprio perché nel consegnarsi alle parole umane la Parola e il Silenzio di Dio non si risolvono mai del tutto in esse: le parole sono sempre una soglia, che esige di andar oltre le parole stesse verso le profondità di Dio. Una simile “trasgressione”, pur continuamente trascendendo i vari livelli, mantiene unito il dono che viene dall’alto alla ricerca dell’uomo che ad esso si apre, stabilendo una continuità del senso nella pur permanente eccedenza del significato.

Anche quando ci appare sensato ciò che la fede propone, non di meno il pieno significato dei suoi asserti resta più grande del nostro cuore, oltre la misura dell’intelligenza costruita a partire dall’analogia con le esperienze di questo mondo.
Proprio così il linguaggio della fede e della sua comunicazione viene ad avere un terzo carattere: quello simbolico. Esso veicola, cioè, non solo la struttura esodale della condizione umana, non solo l’avvento divino, ma anche l’incontro di Dio e dell’uomo. Portare alla parola questo incontro è proprio del simbolo della fede, nella duplice forma del logos e dell’hymnos, dell’asserto e dell’invocazione. Questi due registri del linguaggio simbolico della fede necessariamente si implicano, alimentandosi l’uno dell’altro: la riflessione logica si nutre di preghiera e di esperienza misterica, liturgica, spirituale, mentre il linguaggio della conoscenza teologica si offre sempre connotato da un carattere soteriologico, nel modo cioè di un dire che pensa e narra le meraviglie della salvezza per farne ancora l’esperienza consapevole e libera, per contagiare ancora il racconto.

In quanto autoimplicativo, evocativo e simbolico il linguaggio della fede ha una costitutiva struttura narrativa, connessa col fatto che la Parola di Dio è fondamentalmente historia salutis, di cui ci è data testimonianza proprio in forma di racconti. La narratività risponde anche a un’esigenza intrinseca alla condizione umana, che, proprio per la sua caratteristica natura “esodale”, è continuamente proveniente-da e in cammino-verso. L’esistenza è “impigliata” in storie e perciò tende a comunicarsi meno inadeguatamente attraverso i racconti. Rispetto alla forma definitoria del dire, la narratività ha questa apertura: essa in qualche modo evoca l’origine, senza totalmente dirla, e suscita un dopo, senza totalmente risolverlo. Appunto in questa doppia apertura della narratività consiste la sua performatività: il racconto genera racconto, contagia la vita.

Per questi motivi il linguaggio della fede non può ridursi ad una semplice forma assertoria: lo stesso dogma, che tende alla definizione, è un dire apofatico, che rinvia ad un’ulteriorità, mai riducendo alla parola l’eccedenza del mistero. La verità e la bellezza del linguaggio della fede stanno allora nella fedeltà al triplice compito indicato: non si tratta di ricercare una forma estetizzante, quanto piuttosto di aprirsi all’ineliminabile densità simbolica e metaforica, di cui l’espressione della fede non può fare a meno. Quando questo accadesse, il dire si mostrerebbe del tutto inadeguato al suo oggetto: il limite della manualistica della tardo scolastica è stato appunto quello di aver ridotto il linguaggio teologico ad un sistema di formule e di dicta probantia. Tutto questo è stato superato dal rinnovamento della teologia al tempo del rénouveau biblico, liturgico, patristico che ha preparato il Concilio Vaticano II e dal grande cantiere della teologia post-conciliare, che è stato anche quello della ricerca di nuovi linguaggi per dire il mistero.

Ecco perché non potranno mai bastare l’uso della pura e semplice definizione o, all’opposto, la ricerca del solo effetto estetico per comunicare la fede: l’esperienza del Dio vivo è dono di gratuità che come tale non può essere strumentalizzato. Non si deve pretendere di convincere chi non crede o è in ricerca in forza di soli argomenti razionali, segnati inevitabilmente dai limiti della ragione; né basta parlare in maniera esteticamente accurata per “rapire il cuore”, perché la bellezza di Dio e l’esperienza salvifica da Lui offerta si manifestano spesso nel segno del loro contrario (si pensi alla “parola della Croce”). L’irradiazione del bello
non è mai finalizzata a qualcosa: anche la bellezza del linguaggio della fede, se c’è, è dossologica, non strumentale, nasce cioè dalla gratuità e si risolve nella gratuità della lode e del dono della perla preziosa a chi non ce l’ha.

2. Quale contenuto? Dio Trinità amore come essenza del cristianesimo

Nella simbolica della fede ecclesiale la Trinità è decisiva e centrale: il proprium et novissimum del cristianesimo è il fatto che la Parola eterna si è fatta carne, rivelandoci in tal modo l’abisso della vita del Padre, da cui proviene, e donandoci lo Spirito Santo. Questo contenuto trinitario è così determinante, che l’intera esistenza cristiana appare inscritta in una doppia confessione: quella battesimale trinitaria in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti e quella dossologica Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. La Trinità, tuttavia, non solo costituisce il contenuto fondante del messaggio cristiano, ma determina anche la forma dell’auto-rivelazione divina. Questo è un punto centrale, dalle conseguenze rilevanti: la rivelazione biblica non è una semplice comunicazione di un contenuto, che venga portato alla parola, perché c’è e resta sempre una trascendenza del mistero rispetto ad ogni mediazione linguistica.

Questa trascendenza ci viene rivelata nell’atto stesso del comunicarsi del Dio vivo come Trinità. Il Logos, la Parola incarnata, è la rivelazione di Dio proprio in quanto rimanda all’abisso dell’Origine e si partecipa nella forza dello Spirito Santo. Si potrebbe affermare che la Parola abita tra due silenzi: il Silenzio dell’eternità del Padre, da cui il Figlio è generato, e il Silenzio dell’azione dello Spirito nella storia e nel cuore degli uomini; da una parte la provenienza della Parola e dall’altra l’ascolto obbediente della Parola stessa, che è l’ascolto della fede e il vissuto di essa.

La concezione cristiana della rivelazione è dialettica proprio perché trinitaria: Dio rivelandosi si vela, comunicandosi si nasconde, ostendendosi si ritrae; il Figlio è rivelazione di Dio e insieme rinvia all’abisso di Dio. Questa struttura dialettica ci riporta all’etimologia del termine latino re-velare: esso sta a dire non solo togliere il velo, ma anche intensificarlo. Perciò la resa di apo-kálypsis re-velatio con il termine Offenbarung in tedesco finirà col tradire la densità dialettica della rivelazione cristiana: Offenbarung, da offen, aperto, e dal medievale bären, generare, portare in grembo, esprime una manifestazione piena. Quando con Lutero viene fissata la traduzione di apo-kálypsis con Offenbarung si apre la via a un possibile tradimento concettuale, non nell’intenzione del Riformatore, che mantiene forte il senso dialettico della “absconditas Dei in revelatione” e della “revelatio Dei in absconditate”, ma nelle conseguenze storiche che se ne trarranno. Basti pensare a come Hegel interpreti nelle Vorlesungen über die Philosophie der Religion l’idea di Offenbarung quale piena e totale riduzione di Dio alla storia.

Recuperare l’idea di re-velatio significa allora recuperare il senso dell’eternità di Dio e quindi della sua immanenza al mondo nel Suo rimanere trascendente, così come è nell’intento del kérygma originario. Diventa a questo punto fondamentale la distinzione tra Trinità economica e Trinità immanente. È Karl Rahner ad aver formulato l’assioma secondo il quale “la Trinità economica è la Trinità immanente”: egli vi ha aggiunto, però, un “viceversa”, che risulta problematico proprio perché rischia di risolvere le profondità di Dio in ciò che di Dio noi conosciamo o potremmo conoscere a partire dal mondo e dalla storia. In quanto Dio si rivela a noi, la nostra conoscenza di Lui continuerà ad approfondire gli abissi del mistero rivelato non solo lungo il tempo, ma anche nella sua profondità. L’espressione e la comunicazione della fede non saranno perciò mai totalmente compiute.

Parlare di Dio in conformità al contenuto Trinità e alla forma trinitaria della rivelazione cristiana vorrà dire narrare la storia del Suo amore per gli uomini: la comunione nell’amore dei Tre che sono Uno si partecipa attraverso la “narratio amoris” che è l’autocomunicazione divina. La narrazione di questa storia si farà attraverso i racconti di cui le Sacre Scritture ci danno testimonianza. Chi parla di Dio raccontando l’amore lo fa propriamente se si fonda su queste pericopi, in cui il tutto del Dio che è Amore si comunica nei frammenti narrativi e argomentativi, abitati dalla memoria viva del Suo dono agli uomini. In questo senso, la Bibbia non è che la storia dell’amore divino per gli uomini e la comunicazione della fede non è altro che la ripresentazione efficace di questa storia.

3. Quale la via per introdurre all’esperienza ecclesiale del Dio vivo?

Come coniugare questa comunicazione della fede all’esperienza del Dio vivo nella comunione del popolo da Lui voluto? Come rapportare Vangelo e storia nella comunità testimoniante e narrativa della Chiesa? La Verità in sé si fa veritas pro nobis con l’auto-comunicazione di Dio in Gesù Cristo; questo fatto va inteso in un senso molto pratico, non per ridurre il mistero di Dio all’essere-per-noi, ma proprio per rispettare l’alterità e la trascendenza del mistero, cogliendone invece il significato per la storia dell’uomo. L’approccio della riflessione della fede ha cioè un carattere dinamico-critico dall’inizio alla fine: con questo si vuol dire che il pensiero della fede e il suo dirsi sono tesi per loro natura a cogliere la sensatezza di ciò che si dice per la vita e l’esistenza degli uomini.

Da ciò risulta anzitutto l’urgenza di confrontare di continuo l’espressione e la comunicazione della fede con la forza dell’interrogazione razionale della ricerca umana. È proprio la filosofia l’esercizio del pensiero che nasce dal coraggio della interrogazione radicale. In questo senso, non c’è comunicazione della fede che non abbia bisogno di “filosofia”, perché un pensare e dire la fede che non faccia propria la radicalità delle domande dell’homo viator rischia di essere solo auto-referenziale. Guai però se la fede pensata si risolvesse unicamente in questo esercizio dell’interrogazione radicale e perdesse il riferimento al suo proprium, che è l’ascolto della Parola proveniente dal divino Silenzio.

La domanda è insomma indispensabile, in quanto proviene dalla nostra condizione umana di esseri “gettati verso la morte”, ma è l’ascolto che apre orizzonti di senso che non sono manipolabili o assoggettabili dalla nostra ragione presuntuosa. Si potrebbe dire che, se il teologo ha bisogno del filosofo per interrogare e ascoltare la radicalità dell’esistenza e della realtà, il filosofo ha non di meno bisogno del teologo, perché la teologia gli apre l’orizzonte dell’ulteriorità del mistero. In questa luce si comprende come l’esercizio del dialogo con la filosofia e in generale con le scienze umane sia necessario per la comunicazione della fede, benché esso non possa ridurre il pensiero di chi crede alla mera interrogazione. La teologia può e deve diventare il correttivo critico delle pretese dell’età moderna e contemporanea, che vorrebbero convincere del trionfo della ragione, e acquista così il ruolo fondamentale di continuare a proporre un orizzonte di senso non ideologico e perciò non totalitario ai nostri giorni, malati di “assenza di patria” e di penuria di orizzonti ultimi.

Se la traduzione della conoscenza della fede nella esperienza ecclesiale di essa esige l’ascolto dell’interrogazione umana fino alla sua forma più radicale, essa richiede non di meno la cura di armonizzare la conoscenza e il servizio della carità. Ogni autentica espressione e comunicazione della fede si situa cioè all’interno di una vocazione al servizio del Regno di Di
o fra gli uomini, che è quello di essere non i padroni della fede altrui, ma i collaboratori della gioia di tutti (cf. 2 Cor 1,24). Ciò esige l’educazione del pensiero e del linguaggio all’uso di registri ermeneutici diversi, anche se fra di loro sempre connessi: se si deve mediare la riflessione in campo speculativo, filosofico e teologico, occorre necessariamente servirsi di strumenti linguistici adeguati, che rendano possibile il cammino teoretico; ma se si deve parlare al popolo di Dio nella complessità delle sue componenti, occorre saper dire la stessa Verità con categorie che siano accessibili e che parlino al cuore di tutti. Non si tratta di distinguere, come si faceva nel mondo gnostico, tra una teologia per iniziati e una teologia per il popolo, ma è proprio la stessa verità salvifica della bellezza di Dio in Cristo che esige di essere mediata con linguaggi diversi, per riuscire in qualche modo a far proprie le domande vere degli uomini e a parlare al loro cuore.

È questo uno dei tratti dell’estetica teologica, la cui rilevanza per la comunicazione ecclesiale della fede è stata riscoperta negli ultimi decenni. Il credente deve dire la bellezza di Dio, se vuole invitare all’atto di fede, perché – come dice Agostino – “noi possiamo amare solo ciò che è bello”. La bellezza eterna va detta precisamente nella forma del suo abbreviarsi nelle parole degli uomini, che è la rivelazione storica e la sua esperienza nella comunione memorante-narrativa della fede ecclesiale. Perciò la parola dell’annuncio deve sempre essere portatrice di un’eccedenza, di un Tutto che la sorpassa: deve essere la parola bella, la parola che scruta il mistero e induce a farne esperienza. Sta qui la ragione profonda per cui – ai fini del pensiero e della trasmissione della fede – è urgente superare ogni divorzio fra “logos” e “hymnos”, fra pensato e vissuto.

La comunicazione della fede è lo sforzo di portare alla parola il vissuto della Trinità, suscitato nella storia degli uomini dall’autrocomunicazione divina, che si attua nell’esperienza sacramentale della Chiesa, per offrire a tutti l’esperienza dell’essere amati da Dio e dell’amare Dio, come essa si attua nella vita spirituale, liturgica e caritativa della Chiesa stessa. Senza questo riferimento al vissuto ecclesiale non sarà possibile vivere o comunicare la fede: dalla comunione della Chiesa essa nasce, di essa vive, in essa si esprime, al suo servizio si pone, per la causa che è inseparabilmente quella della gloria di Dio e della salvezza degli uomini.

Conclusione

Alla luce di queste considerazioni, è possibile avanzare una proposta di traccia in vista di uno strumento orientato a dire Dio ai cercatori di Dio. Ferma restando l’opportunità di uno stile colloquiale, nella forma di una comunicazione epistolare fra amici, essa potrebbe comprendere le tre sezioni seguenti:

I – In ascolto delle domande che ci uniscono…

1. Il dolore
2. Il futuro
3. L’amore
4. La giustizia e la pace

II – …vorremmo render ragione della speranza che è in noi

5. Il Dio crocifisso
6. La speranza del Risorto
7. La Chiesa dell’amore
8. La vita teologale

III – …e indicarti un cammino possibile per incontrare il Dio che cerchi

9. La ricerca di Dio e la preghiera;
10. La Parola di Dio e l’ascolto;
11. I sacramenti e l’incontro personale con Cristo;
12. La fraternità cristiana, il servizio e la via del dialogo.

Dal punto di vista della forma la prima sezione dovrebbe avere un carattere propriamente “fondamentale” (partire dalle domande comuni con l’interlocutore), la seconda un carattere “kerygmatico”-“apologetico” (proporre l’annuncio del messaggio e renderne ragione dialogicamente), la terza un carattere “pratico-esistenziale” (indicare i passi concreti da fare per andare incontro al Dio vivente). Niente di più che un percorso per dare a pensare, un aiuto orientato a dire Dio ai cercatori di Dio, aperto a cercare altre vie per realizzare la stessa meta.

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ZENIT Staff

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