* * *
PROEMIO Il problema dei rapporti fra ragione e fede, nella cultura dell’Occidente, può ben essere detto un nido di difficoltà senza fine e si presenta come il nodo di tutti i problemi sulla risoluzione ultima della verità dell’esistenza per l’uomo itinerante nel tempo [C. Fabro, in Ass. Teol. Ita ( a cura di) I teologi del Dio vivo, ed. Ancora, Milano 1968, pag. 245]. La difficoltà posta da questo binomio nasce dal fatto che esso fa sorgere da sé come molteplici centri concentrici, la tensione fra filosofia e teologia, scienza e fede, ragione e rivelazione … fino alla dimensione politica del rapporto fede e sfera pubblica, Chiesa e Stato.
Ovviamente in tre lezioni non posso che affrontare qualche aspetto di questo “nido di difficoltà”. Procederò comunque nel modo seguente. Inizierò da una riflessione sulla famosa conferenza tenuta da Benedetto XVI all’Università di Regensburg. Proseguirò poi riflettendo sui due momenti essenziali del rapporto: la ragione in ricerca, in cammino verso la fede [intellectus quaerens fidem]; la fede che chiede di penetrare sempre più intensamente la ragione [fides quaerens intellectum]. L’incontro di fede-ragione avviene due volte. Prima volta: preparazione della ragione per l’atto del credere; seconda volta: cooperazione della ragione colla fede all’interno della comunità dei credenti per avere una qualche intelligenza dei divini Misteri.
Come vedete, parlo del “matrimonio d’amore e d’accordo”: non di “separazioni [consensuali o conflittuali], né di “divorzi” [rottura del vincolo vera e propria]. Non ne abbiamo il tempo; mi limiterò a qualche accenno nella prima riflessione.
L’INCONTRO FEDE-RAGIONE: urgenza improrogabile Nella prima lezione prenderemo come pagina di riferimento la lezione tenuta da Benedetto XVI all’Università di Regensburg. È un’ottima base per tutte le riflessioni seguenti. Ne suppongo la lettura attenta. Partiamo da un fatto storico: all’inizio dell’evangelizzazione fuori dai confini geografici e culturali della religione ebraica è accaduto un’incontro fra la fede cristiana e la parte migliore del pensiero greco. È stato un incontro che per la nascita e lo sviluppo del cristianesimo ha avuto un significato decisivo. È uno di quegli eventi storici nei quali si rivela un’esigenza strutturale dello spirito: un evento appunto denso di significato.
Non è ora il caso di descrivere questo incontro in tutto ciò che lo costituisce e nelle sue alterne vicende. Né il Papa lo fa nella sua conferenza. Ma la domanda di fondo è la seguente: l’incontro Gerusalemme-Atene che cosa significa in sostanza? Per essere meglio guidati a cogliere la risposta che il Papa dà a questa domanda, richiamo anche l’attenzione su una circostanza in cui è avvenuto l’incontro. I missionari cristiani, ad iniziare da Paolo, quando annunciavano il Vangelo agli Ebrei entravano nei loro luoghi di culto, le Sinagoghe: era un dialogo sul piano squisitamente della fede religiosa. Quando invece si rivolgono ai pagani, il loro interlocutore non è «il sacerdote»: è il «filosofo»; e normalmente i luoghi di annunci sono le “agorá”. Al greco cioè essi presentano la loro fede come vera, e quindi meritevole di essere accolta da chi ha la passione della ricerca della verità mediante l’unico mezzo di cui la natura ha dotato l’uomo, la ragione. Se volessimo esprimere brevemente e sommariamente il contenuto della coscienza che il missionario cristiano aveva di se stesso, lo potremmo fare colle seguenti parole: “ciò che annuncio è vero e quindi lo posso e lo devo dire ad ogni persona”.
La cosa diventa ancora più chiara se teniamo presente che cosa il greco intendeva parlando di “filosofia”. «La filosofia appariva … come un esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire ad uno stato, la sapienza, che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo» [P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005, pag. 156]. Vorrei fermarmi ancora un momento su questo punto poiché mi sembra una delle fondamentali chiavi di lettura della conferenza di Regensburg, e quindi uno dei nodi della nostra riflessione.
L’accettazione di una proposta religiosa può accadere non a causa del fatto che sia ritenuta vera. Ma perché la si può ritenere “socialmente utile”, oppure “psicologicamente beatificante”. Si può perfino ritenere che la domanda sulla verità della proposta religiosa sia priva di senso, allo stesso modo che se chiedessi: “che colore hanno le sinfonie di Mozart”. Come estendere la categoria del colore all’udibile è un non senso, così estendere la categoria della «verità-falsità» al messaggio religioso è un’indebita estensione di quella categoria medesima. Ebbene, l’incontro Vangelo-grecità è avvenuto in un piano completamente diverso da questo appena schizzato, poiché si è giocato sul piano della ragione, e dunque circa ciò che è vero – ciò che è falso. E siamo al nodo centrale, credo, della conferenza di Regensburg. Il fatto storico di cui stiamo parlando – il dinamismo intrinseco della missione presso il greco – non è accaduto per caso; costituisce il concreto realizzarsi di un’esigenza strutturale, intrinseca sia alla fede cristiana sia alla ragione umana: quella di incontrarsi e non di scontrarsi; quello di allearsi e non di confliggere; quello di conoscersi e non di ignorarsi.
Che cosa concettualmente queste metafore significhino, cercherò precisamente di dirlo nel corso di queste lezioni. Per il momento voglio riprendere su alcuni punti la formulazione metaforica sopra enunciata. Ho parlato di “esigenza strutturale della fede cristiana”. Per completezza non bisogna dimenticare – come precisamente non fa il S. Padre – che è un’esigenza, questa, che possiamo verificare anche nella fede ebraica, se leggiamo con attenzione la S. Scrittura. In una parola: il Dio biblico si rivela come “Logos” e come “logos” agisce.
Ho parlato di “esigenza strutturale”. Ciò significa che la fede cristiana non si giustappone alla ragione come estranea alla medesima, ma è dal suo interno stesso che chiama la ragione. Vedremo meglio in seguito che cosa significa tutto questo. Ma – come dice il S. Padre, ed è un punto di somma importanza – anche la ragione come tale incontra la fede cristiana, a meno che essa, la ragione, non decida di restringere il suo ambito ed il suo uso; a meno che non decreti un’autolimitazione del suo esercizio al verificabile nel senso stretto del termine. Ovviamente, se non superiamo questa limitazione autodecretata della ragione, questa non avrà alcuna possibilità di incontrarsi colla fede. Ma anche questo tema, centrale nella riflessione del S. Padre, lo riprenderò in seguito.
Fatte queste sintetiche sottolineature che sarebbero bisognose di ben più prolungati approfondimenti, ritorniamo all’affermazione secondo la quale l’incontro storico del Vangelo colla parte migliore del pensiero greco rivela un’esigenza strutturale della fede cristiana e della ragione umana. Se così stanno le cose, l’avvicinamento interiore, che si è avuto tra fede biblica e l’interrogarsi proprio del pensiero greco sul piano filosofico, è un dato che ci obbliga anche oggi. Come e se cristiani; come persone ragionevoli.
Come cristiani e quindi come credenti. Il patrimonio greco, debitamente purificato è una parte integrante della fede cristiana. In che senso? Nel senso che agire contro ragione è in contraddizione con la natura di Dio. Non è solo questa un’idea greca culturalmente da relativizzare, ma è tale sempre ed ovunque [È questo il significato vero della citazione di Manuele II Paleologo]. E pertanto l’atto del credere è un atto ragionevole e non irragionevole [contro la ragione], e quindi libero. Dire che credere è irragionevole equivale a dire “circolo quadrato”. Esiste una profonda sintonia, armonia fra la
ragione umana e la natura divina. Noto di passaggio: è la grande intuizione di Agostino sulla quale egli costruisce la sua dottrina della conoscenza; intuizione sostanzialmente ripresa da Tommaso e che – come annota il S. Padre – cominciò ad oscurarsi nella filosofia e teologia nominalista.
Come persone ragionevoli. Riprendo un tema appena accennato sopra. In fondo la domanda è la seguente: possiamo accettare che la ragione umana non giudichi, non verifichi la verità della risposta ai grandi interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, e quelli etici circa l’esercizio della propria libertà? È questa oggi una domanda che non può più essere censurata; anzi esige una risposta urgente, data la situazione storica in cui l’Occidente è venuto a trovarsi. Richiamo l’attenzione su due possibili sviluppi argomentativi. Ho già avuto occasione altre volte di richiamare l’attenzione sul fatto che un’idea ed un esercizio di ragione mutilata sta rendendo impossibile una vita comune fra le persone anche della stessa città. Se la ragione non è competente a pronunciarsi sulla validità delle concezioni di vita buona poiché queste sono solo espressioni di preferenze soggettive, ne deriva che in senso forte non esiste alcun bene umano comune; se non esiste bene comune umano, può tenerci assieme solo l’utilità e l’interesse.
Una ragione mutilata diventa inoltre incapace di un vero dialogo delle culture e delle religioni, di cui oggi abbiamo un così urgente bisogno. Solo un accenno argomentativo. Come è possibile un dialogo con culture profondamente impregnate di senso religioso da parte di chi ritiene che l’esperienza religiosa sia un fatto meramente privato o da privatizzare? La necessità del dialogo coincide con la necessità di ritrovare l’intera misura della ragione. Tuttavia una corrente profonda di pensiero, a partire soprattutto dalla Riforma protestante, ha contestato l’obbligo teoretico e culturale di custodire nel suo significato più profondo l’incontro della fede cristiana con la grecità. È istruttivo che richiamiamo nei suoi elementi essenziali questa contestazione, sempre seguendo il testo della conferenza di Regensburg.
Storicamente l’affermazione della totale estraneità della ragione dalla fede coincide colla Riforma luterana. La salvaguardia di ciò che la Parola detta da Dio all’uomo rivela, è possibile solo se viene sacrificata dal credente la ragione, dal rifiuto cioè di un modo di pensare che non derivi esclusivamente dalla Rivelazione stessa. L’opposto di ciò che scrisse S. Gregorio di Nazianzo: «la fede è il compimento [plerosis] del nostro logos» [Discorso teol., III, 21; PG36, 104]. È la purezza della fede sia in quanto scelta del singolo sia nei suoi contenuti che esige di non allearsi col logos umano.
Il secondo momento è costituito dall’affermazione che è necessario ritenere estranea al cristianesimo ogni costruzione speculativa tesa ad avere una intelligenza sempre più profonda della Rivelazione cristiana. Questa infatti – più precisamente il messaggio autentico di Gesù – è un messaggio morale umanitario. Esso, mediante l’esercizio della ragione storico-critico, deve essere svestito di tutta la dogmatica cristiana, come per esempio la fede nella divinità di Gesù e nella Trinità di Dio.
Si ha indubbiamente un esercizio della ragione all’interno della fede cristiana, ma di una ragione che – come dicevo – si è automutilata. Nel senso che essa si riduce ad essere usata come puro strumento di critica storica.
Il terzo momento è costituito dalla consapevolezza, oggi assai acuta, della molteplicità di culture e della necessità che il cristianesimo non si identifichi con nessuna di esse. Ne deriva la necessità che si deve “svestire” il cristianesimo della sua veste occidentale ed in primo luogo della sua veste greca; ritornare così al punto che precedeva questo “abbigliamento”; ed in seguito inculturare la fede cristiana nelle varie culture.
C’è una esigenza assolutamente accettabile in questa ultima posizione. Tuttavia essa non può, non deve ignorare in primo luogo che la prima predicazione cristiana si è espressa nella lingua greca e porta quindi impresso in sé stessa lo spirito greco. In secondo luogo, e soprattutto, l’incontro della fede cristiana colla grecità ha espresso alcune esigenze fondamentali attenenti al rapporto fede-ragione come rapporto costitutivo dell’esperienza cristiana. Ed è a questo livello che l’incontro della fede cristiana col logos greco costituisce un punto di non ritorno per chi affronta il cristianesimo e per la Chiesa stessa.
Dobbiamo allora alla fine di questa riflessione costruita sulla conferenza di Regensburg esprimere in maniera concettualmente la più rigorosa possibile le questioni fondamentali che sono emerse nella coscienza dell’uomo a causa dell’incontro della fede col logos greco, e che sono impreteribili per chiunque voglia acconsentire liberamente alla proposta cristiana di vita. In sintesi. La questione fondamentale è quella di definire il paradigma della ragionevolezza della fede cristiana per mostrare che: a) la scelta di credere alla predicazione cristiana è ragionevole [la ragione che va verso la fede]; b) la fede cristiana esige di essere pensata dalla ragione [la fede che va verso la ragione].
In altre parole, dal punto di vista cristiano – come già dissi – il rapporto fede-ragione si istituisce due volte, o avviene in due momenti: prima come “preparazione alla fede” da parte della ragione in ordine all’accettazione della fede medesima; poi come collaborazione, cooperazione della ragione all’interno della fede per l’appropriazione del contenuto della fede medesima. Perché la definizione del paradigma di ragionevolezza presupposta nella decisione di credere sia possibile, è necessario mostrare che: a) non esiste un modello di razionalità univoco ed esclusivo, quello cioè della ragione impersonale; b) la fede cristiana non può essere relegata nell’ambito dell’emozione, del sentire oppure della funzionalità sociale e/o psicologica.
Voglio terminare con un testo di S. Gregorio di Nazianzo: «Al Logos soltanto resto attaccato, come servitore del Logos, e non potrei mai volontariamente dimenticarmi di questo bene, ma lo onoro, lo prediligo e me ne rallegro più di tutte quelle cose insieme di cui la folla è solita rallegrarsi» [Orazione 6,2].
I Padri amavano dire che la fede cristiana era la filosofia vera e la vera paideia.