VERONA, sabato, 21 ottobre 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento di carattere teologico-pastorale tenuto da don Franco Giulio Brambilla, professore straordinario di Cristologia e Antropologia Teologica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, in occasione del 4° Convegno Ecclesiale di Verona.

Don Franco Giulio Brambilla ha incentrato la sua relazione su tre orizzonti tematici: la generazione, la casa e il dibattito pubblico.

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«Io spero in te per noi»... In te – per noi: qual è il legame vivente fra questo tu e questo noi che solo il pensiero più insistente riesce a svelare nell’atto della speranza? Non occorre forse rispondere che Tu sei il garante di questa unità che lega me a me stesso, o meglio l’uno all’altro, o ancora gli uni agli altri? Più che un garante che assicurerebbe e confermerebbe dall’esterno un’unità già costituita, Tu sei il cemento stesso che la sostiene. Se è così, disperare di me o disperare di noi, è essenzialmente disperare di Te. (G. Marcel)

È con intensa emozione che rileggiamo oggi le parole di Gabriel Marcel, scritte l’anno 1942, nel momento terribile e più drammatico della seconda guerra mondiale. Il filosofo della speranza ci dice che sperare è la cosa più personale, ma ciò non è possibile senza tener per mano la speranza degli altri. Nello slancio della comune speranza non solo trapela ciò che attendiamo, ma viene incontro il Risorto stesso. Lui in persona che sostiene il mio e il nostro sperare. La domanda del filosofo sarà come la bussola con cui camminare sulla strada del nostro convenire a Verona.
Il Convegno ecclesiale, inaugurato ieri nella cornice splendida dell’Arena scaligera, si colloca nella scia delle precedenti assise della Chiesa italiana, che sono state tre tappe importanti per “tradurre il Concilio in italiano”. In questa luce la relazione introduttiva del Presidente, il card. Dionigi Tettamanzi, ci ha offerto un esercizio di memoria e ci ha indicato alcuni impulsi creativi per il futuro.

La scelta del tema per il Convegno di Verona: Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, ha cercato una sintesi fra il tema della speranza cristiana e la condizione comune dei credenti come testimoni. La speranza nel Risorto prende forma nella testimonianza del credente e della Chiesa. La risurrezione di Gesù è raccontata dai discepoli della prima ora, dalle donne e dagli apostoli, e da tutti coloro che lungo i secoli hanno sperimentato la novità di vita che il Risorto irradia nel mondo.
Il tema del Convegno è orchestrato sul canovaccio della Prima lettera di Pietro, una lettera affascinante che ci dona un’immagine dei primi cristiani nella struggente condizione di “stranieri, dispersi” nelle regioni dell’Asia Minore (1Pt 1,1), ma che vivono come “pellegrini” per “rendere ragione della loro speranza” (1Pt 2,11; 3,15). Dire la speranza non è solo un atto dell’intelligenza, ma è un esercizio storico, un compito e un rischio della libertà. Che ha bisogno del tuo e del mio incontro e confronto. Nel tempo di preparazione al Convegno molti hanno già sperimentato i vantaggi e le insidie del tema.

Ora, nel momento in cui si dà inizio al Convegno, occorre trovare una capacità di sintesi che metta in campo le migliori risorse dei credenti e delle Chiese d’Italia. Il cattolicesimo italiano ha espresso figure di giganti nella fede e nella cultura, nella santità e nell’operosità sociale, che hanno saputo innervare in modo originale il tessuto civile del paese. Ieri ne abbiamo onorato alcuni nella celebrazione d’apertura, oggi e domani dobbiamo metterci in ascolto della loro memoria per aprire le vie del futuro.

È bello lasciarsi guidare dalle parole della Prima lettera di Pietro. Mi sono lasciato ispirare da tre immagini presenti in questo scritto cristiano delle origini: la metafora della generazione, la metafora della casa, la metafora del dibattito (confronto) pubblico nelle diverse situazioni della testimonianza. Possono diventare anche tre piste di ricerca da perseguire nel Convegno e da proseguire nel cammino successivo.

1. “Egli ci ha generati a una speranza viva” (1Pt 1,3)
Il Crocifisso risorto sorgente della speranza cristiana


La prima pista richiede di pensare il primato dell’evangelizzazione nella prospettiva della speranza cristiana. Questo è l’inizio e il centro del Convegno: la speranza del cristiano è una persona, ha il volto del Crocifisso risorto, è la forza propulsiva della Pasqua, ci mette in contatto con il Cristo vivo e presente (Cristus præsens) nella parola annunciata, nell’eucaristia celebrata, nella comunità che testimonia, nelle attese del mondo. La coscienza missionaria – il leitmotiv che la Chiesa italiana ha espresso in modo solenne nel documento programmatico di questo decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia – non è prima di tutto un’azione, ma il gesto in cui la Chiesa si lascia di nuovo “generare” dal Signore risorto.

La Chiesa si “alimenta” alla novità dirompente del corpo dato e del sangue versato, al Cristo presente nella Parola e nel Sacramento, con cui essa riceve il vangelo della Pasqua, il dono dello Spirito e la ricchezza variegata dei suoi doni. Questa novità prende corpo nella vita quotidiana delle persone che amano e soffrono, lavorano e creano, pensano e operano, e che formano il terreno vitale delle comunità cristiane e il tessuto connettivo della società civile. La prima metafora della Lettera di Pietro si riferisce al tema della generazione, un’immagine che, più avanti, assume anche i teneri tratti della maternità.

1. La “speranza viva” del cristiano e le attese umane

Ascoltiamo l’inno di lode con cui si apre la Lettera: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva» (1Pt 1,3). È la “benedizione” con cui diamo avvio ai giorni del nostro convenire, riconoscendo il mistero di vita e di misericordia che tutti ci raggiunge. La parola chiave è la “speranza viva” alla quale siamo generati mediante la risurrezione di Gesù. L’Autore usa la metafora della “generazione” per affermare che il credente nasce nella Pasqua di Gesù. Il tema è declinato nella Lettera (1,3 e 1,23) nei suoi aspetti essenziali: la nuova nascita dei credenti è pasquale perché avviene nella risurrezione dai morti; ha il suo luogo sacramentale nel battesimo; trova il suo significato esistenziale nella novità di vita mediante la fede. Al centro sta il Risorto e la sua azione che genera in noi una speranza vivente e attiva.

La speranza viva è la stella polare che ci deve guidare nel cammino del Convegno. Il primo motivo del nostro convenire è quello di lasciarci di nuovo generare e alimentare dalla speranza della risurrezione. Così diventiamo capaci di interpretare e di realizzare le attese e le speranze degli uomini d’oggi, di mettere in contatto la ricerca di vita, di relazioni buone, di giustizia, di libertà e di pace con la fonte stessa della speranza viva, Gesù risorto. Questa è la sorgente della testimonianza. Solo perché la Chiesa continua a lasciarsi generare e alimentare nella parola e nei sacramenti pasquali, può attestare al mondo una speranza rinnovatrice delle forme dell’esistenza umana, dei processi della trasformazione culturale e dei modi della convivenza sociale.

Di seguito, la speranza è precisata “come una eredità che non si corrompe, non si macchia, non marcisce” (1,4). La differenza cristiana della speranza è un’eredità promessa, che ha già un anticipo nell’esperienza filiale e fraterna dei credenti ed è descritta nei suoi tratti salienti così: è incorruttibile, perché è custodita nei cieli per noi (v. 4b); è incontaminata, perché accolta nella fede (v. 5a); è indistruttibile, perché è un patrimo nio che raggiunge al di là della morte la pienezza della vita stessa di Dio (v. 5b).

Più avanti l’Autore riprende la metafora della rigenerazione con quella ancora più intensa e tenera della “maternità”: «Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (1Pt 2,1-3). È una nuova nascita che esige di lasciare l’uomo vecchio per ricevere il nuovo. I credenti e la comunità sono generati dalla Parola di Dio, illustrata con la bellissima metafora materna del latte desiderato dai bimbi, un’immagine che allude all’avidità con cui il bimbo desidera succhiare il latte dal seno della madre. È l’esperienza dei primi cristiani che bramano ardentemente il “puro latte spirituale” della parola di Dio (cf 1Pt 1,22-25). Questa è la “speranza viva” di cui parla l’Apostolo.

La parola “speranza” non appartiene solo alla lingua cristiana, ma anche al linguaggio umano di ogni tempo. Essa esprime una sete radicata nel cuore di ogni uomo e nelle aspirazioni di ogni popolo. Le forme pratiche con cui ognuno spera ci introducono a capire e a vivere il vangelo cristiano della speranza, e ci aiutano a sperimentare anche oggi che cosa sia la “speranza viva”. Soprattutto nel tempo della società fluida e ripiegata sull’immediato, l’attesa di futuro esige di correggere le malattie della speranza e di mettere in luce i germogli positivi presenti nelle esperienze della vita attuale.

“Io spero in te per noi”: così in modo lapidario G. Marcel sigilla il legame profondo tra la speranza personale e comunitaria radicandole nella loro dimensione trascendente. Per ritrovare la possibilità di sperare nel Dio della vita, occorre che la speranza di ciascuno porti dentro il cuore l’anelito di speranza di tutti. Gli stessi linguaggi della speranza mettono in evidenza la tensione tra la speranza di ogni uomo e donna (“io spero…”) e la ricerca dei beni sperati (“io spero che…”). Questa tensione deve però prestar credito alla promessa (“io spero in…”) che è presente nei beni sperati, ma che supera sempre i beni ottenuti.

Occorre ritrovare lo slancio della speranza dentro le esperienze della vita umana, soprattutto all’interno degli ambiti che sono a tema della nostra ricerca e del nostro confronto in questi giorni. Senza questo esercizio non sarà possibile un annuncio persuasivo, spiritualmente e culturalmente responsabile, della “speranza viva” del Risorto. La speranza ha, dunque, la forma della promessa che è prefigurata nelle esperienze della vita umana e sociale: negli affetti e nelle relazioni, nell’azione operosa dell’uomo e nel desiderio di libertà e di festa, nelle esperienze con cui l’esistenza è minacciata e promossa, nei modi della trasmissione della vita e dell’educazione culturale, nelle forme complesse e attraenti della comunicazione mass-mediale, nel legame sociale di una cittadinanza comune e condivisa. Oggi la speranza è confinata nello spazio intimo di una speranza individuale o nell’ambito di un progressismo sociale, senza che si riescano a vedere gli stretti legami che uniscono le speranze della persona e le attese della società.

Soprattutto viene oscurato il carattere etico e religioso della speranza, ben espresso nella formula “io spero in…”. Il bene promesso diventa un appello per la libertà personale e sociale, perché renda possibile un agire grato, una libertà operosa, capace di rinnovare le relazioni personali e di istituire nuovi legami e progetti sociali. E si trasforma in invocazione verso Colui che è il garante o, per dirlo con le parole della Lettera di Pietro, l’origine misericordiosa che sostiene la nostra attesa: io spero in Te per noi! Alla fine la speranza diventa preghiera che invoca la presenza attuale del Dio della vita e del Signore della storia. L’esperienza liturgica, in particolare quella dell’Avvento, appare l’espressione più alta dell’incontro tra la speranza umana e la venuta del Signore risorto nella storia. Ne derivano due atteggiamenti spirituali e pastorali decisivi per la vita della Chiesa e per la testimonianza nel mondo.

2. La centralità della pasqua di Gesù nella vita del cristiano e della Chiesa

Il primo atteggiamento spirituale e pastorale riguarda la custodia gelosa della “differenza” della speranza cristiana per il credente e la Chiesa. Il tempo trascorso dopo il Giubileo e la preparazione al Convegno di Verona hanno concentrato la nostra attenzione sull’importanza che la testimonianza al Signore risorto riveste per la coscienza missionaria della Chiesa. Una Chiesa che pone al centro il primato dell’evangelizzazione deve intendere questa scelta prima come una presenza da cui è continuamente “rigenerata” che come un compito o un mandato per altri. Incontrare il Crocifisso risorto è l’esperienza originaria che nutre il credente e che alimenta le comunità cristiane nel tempo. L’incontro con il centro vivo della fede e della speranza cristiana va custodito gelosamente nella sua differenza specifica, sia nei confronti di ogni lettura dell’identità di Gesù come un semplice guru religioso, sia riguardo a ogni comprensione della Chiesa solo come luogo di risposta al bisogno religioso o al servizio delle povertà.

Cristo e la Chiesa sono molto più di questo. Gesù è il Risorto che mantiene i segni della sua passione, non come un incidente superato, ma come una memoria che fonda la “speranza viva”. E la Chiesa è la testimonianza che il gesto pasquale è la fonte della vita in pienezza per ogni uomo e il motore che trasforma la vita sociale. Pertanto, il nostro convenire a Verona deve partire da una sosta al momento centrale della Pasqua, al roveto ardente della croce di Gesù. Occorre chiedersi se nella vita personale e nell’esperienza quotidiana della nostre chiese, delle comunità cristiane e delle parrocchie italiane, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali e in tutte le forme della testimonianza diffusa e associata, brilla in modo luminoso il nostro essere testimoni di Gesù risorto. La centralità del Crocefisso risorto è ciò su cui sta o cade il futuro della Chiesa e la testimonianza nel mondo.

Le forme dell’annuncio del Vangelo, l’esperienza della celebrazione cristiana, il modo di essere e fare la Chiesa devono essere il luogo in cui gli uomini e le donne d’oggi sono rigenerati a vita nuova e sono messi in grado di creare legami di fraternità e di nuova presenza nel mondo. Ciò trova spazio in una diffusa scoperta dell’importanza della vita spirituale delle persone. Nel tempo postconciliare è consolante vedere quante persone semplici, nella vita personale, nella ricerca della vocazione, nella famiglia, nella professione laicale, hanno riscoperto la fame della Parola, il bisogno di una liturgia viva, il gesto ripetuto della carità e la passione dell’impegno sociale.

Anche i due percorsi più innovativi con cui le diocesi italiane hanno cercato “di tradurre in italiano il Concilio”, e cioè la riforma liturgica e il rinnovamento catechistico, richiedono una ripresa creativa perché diventino una costante nella vita delle comunità e siano proposti ai giovani come un bene non scontato, ma d’inestimabile forza per lo splendore della vita cristiana. È questo, infatti, il senso del cammino fatto dalla Chiesa italiana in questi primi anni del decennio, dando attuazione pratica al programma Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: i temi del “primo annuncio”, dell’iniziazione cristiana, della domenica, della parrocchia, sono state tappe di un cammino unitario. Occorre non disperdere la promessa di una Chiesa tutta pasquale, continuamente convocata dall’eucaristia del Signore, incentrata sulla novità del Vangelo, capace di curare legami freschi e nuovi, di generare storie di vita cristiana, di immaginare forme incisive di presenza sociale.

3. La generazi one dell’“uomo nuovo” come sfida culturale e civile

Da qui proviene il secondo atteggiamento pastorale e culturale: la sfida della generazione dell’uomo nuovo. Se siamo generati nella risurrezione di Gesù, allora il dono più grande che possiamo testimoniare è di essere uomini e donne della resurrezione. All’inizio del Novecento Nietzsche rimproverava ai cristiani di non essere testimoni della novità sconvolgente della vita risorta. E il secolo appena trascorso ne è stato purtroppo come la triste conferma. Sulla soglia del nuovo Millennio, papa Benedetto continua a dirci con insistenza che prima di dire dei no, dobbiamo comunicare e testimoniare al mondo una visione positiva dell’uomo. I Padri della Chiesa la chiamavano “divinizzazione”. Con estrema audacia presentavano la vita cristiana come la partecipazione alla vita stessa di Dio, già presente nell’esistenza battesimale e nella comunità eucaristica. Questa visione è stata la sorgente della testimonianza dei martiri, dei monaci e dei missionari – tra cui moltissimi laici – che hanno attraversato e costruito l’Europa del primo millennio.

All’inizio del terzo millennio la sfida cruciale consiste nel mettere in luce il tratto “escatologico” della fede cristiana, superandone però una lettura alienante e distorta. Abbiamo bisogno di speranza, soprattutto per quanto riguarda la questione antropologica. Nel tempo della tecnologia e della scienza, nel contesto culturale di una concezione antropologica – come ha detto il card. Ratzinger nel suo intervento sull’Europa il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II – guidata dal “saper fare”, più che da un “fare sapiente”, è necessaria una nuova capacità di generare l’“uomo nuovo”.

In questi giorni più volte sarà a tema di discussione la questione dell’uomo. Attraverso il confronto sui diversi ambiti saremo chiamati a non perdere di vista che si tratta di una visione e di un’esperienza inedita. Bisogna, però, essere coscienti che per i cristiani non si tratta solo di una “questione”, cioè di una visione dell’uomo originale da difendere e da promuovere nel confronto sincero e leale con altre visioni della vita. L’immagine dell’uomo per noi non è solo “un problema”, ma riguarda la vita concreta delle persone che nascono e crescono, della gente che lavora, delle coppie che devono scegliere e metter casa, delle famiglie che generano figli, della sofferenza delle persone, dell’esperienza e della marginalità degli anziani, della vita sociale che manca di regole certe, del senso di solidarietà con cui sognare il domani, del confronto tra le anime culturali dell’Italia capace di dar voce all’autentico spirito degli italiani.

Un pensiero antropologico cristiano, cioè una filosofia/pedagogia dell’uomo e una teologia della storia, troverà la sua forza di irradiazione culturale solo se partirà e ritornerà continuamente alle forme pratiche della vita, all’esperienza quotidiana delle persone, all’esistenza degli uomini e delle donne che ci domanderanno se a Verona abbiamo solo discusso su loro o se ci siamo appassionati alla loro vita reale. Per questo, bisogna mostrare il potere trasformante della “speranza viva” che lo Spirito del Risorto ci dona. Occorre saper presentare in modo persuasivo, ma anche anticipare in frammenti di vita personale e sociale che cosa significa essere uomini e donne di speranza. Ciò esige di attestare la potenza di trasfigurazione del Risorto sull’immagine e la concezione della persona, l’inizio e il termine dell’esistenza, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le culture e i popoli. La generazione dell’uomo nuovo non riguarda solo il destino futuro della persona e del mondo, ma fa nascere la “nuova creatura” già nel presente. La Lettera a Diogneto, citata al n. 11 della Traccia per Verona, ne presenta un’icona folgorante. I cristiani vivono come “stranieri” e “pellegrini” che hanno la mente lucida e il cuore libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e del mondo attuale.

2. “Stringendovi a Lui, pietra viva…
anche voi siete edificati come pietre vive” (1Pt 2,4)
La Chiesa come testimone di speranza


La seconda pista ci avvicina più intensamente all’evento del Convegno. Il tema trova qui la sua rappresentazione plastica: la Chiesa dà testimonianza nel mondo della speranza da cui è generata. Nel suo cammino postconciliare la Chiesa italiana ha imparato che il primato dell’evangelizzazione si trasmette in una comunità che testimonia. Si può dare speranza ad altri, anzi si può essere testimoni della speranza che viene dal Risorto, soltanto se si è continuamente generati da questa speranza. Ci viene in aiuto la seconda metafora della Prima lettera di Pietro. Si tratta dell’affascinante immagine della costruzione della casa, del tempio.

1. La testimonianza come culto spirituale

Dopo l’inno di benedizione, l’Autore parla della “chiamata alla santità” fondata sulla nuova nascita (1,13-25) e della “testimonianza e della missione dei credenti” (2,1-10). Nello stupendo passaggio da Gesù ai credenti, da Cristo alla Chiesa, nasce la speranza che i cristiani devono sempre alimentare alla sorgente e scambiarsi tra loro.

La Lettera accavalla una sequenza impressionante di immagini: alla metafora materna, già ricordata, segue la bellissima metafora della costruzione della casa/tempio, che ricupera la storia del popolo santo di Dio, in un crescendo di grande effetto. Mi fermo sulla metafora della casa. Essa raccomanda l’attualità di questo scritto cristiano: nella sola Costituzione Lumen Gentium, il Concilio menziona la Prima lettera di Pietro ben quattordici volte. È il filo d’oro con cui è intessuto il capitolo sul popolo di Dio.

Il passo dove ricorre la seconda immagine è giustamente famoso. Ascoltiamolo: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 2,4-5). Pietro esorta a mantenere il rapporto tra la pietra viva che è Gesù e la casa di pietre vive edificata da Dio. La relazione tra Gesù e i credenti, tra Cristo pietra angolare e la sua comunità di “pietre vive” è immaginata come un grande tempio in cui si esercita un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali graditi a Dio.
Su Gesù pietra/roccia viva anche noi dobbiamo “lasciarci edificare” (oikodoméo) da Dio come “pietre vive” e come “casa spirituale”. L’edificio spirituale è fatto da un tempio di persone. I credenti devono “lasciarsi lavorare” perché diventino pietre sagomate e capaci di costruire un edificio comune. Questo è immaginato come un grande tempio, il cui cemento è il legame dello Spirito (pneumatikós).

Questa casa/tempio “spirituale” è il luogo dove si esercita il sacerdozio santo. La rinascita pasquale fa della Chiesa un nuovo tempio spirituale per un “sacerdozio santo” (cf anche 2,9). Tutte le metafore del culto antico in modo sorprendente sono trasferite al nuovo tempio e al nuovo sacerdozio che è l’Ecclesìa, la santa convocazione dei credenti. Questo “nuovo luogo” rende possibile offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (2,5). Perciò, più avanti, la lettera ricorderà gli elementi salienti della storia salvifica del popolo di Dio: «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di Lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (2,9).

La metafora della casa ben costruita illumina la testimonianza dei credenti. L’immagine delle “pietre vive” è un ossimoro ardito: la pietra è un mat eriale inerte e simbolo di morte ma, radicata sulla pietra viva che è Cristo, s’innalza come un tempio di “pietre vive”. La grande metafora medievale dei costruttori di cattedrali non è stata solo creativa per l’arte e la cultura cristiana, realizzando manufatti che non finiscono ancor oggi di stupire, ma ha dato prova di sé soprattutto nel creare un’immagine della Chiesa corale e sinfonica. È bello ascoltarlo dalla Lettera di Pietro: sulla pietra angolare che è il Risorto, si edifica una casa che è una vocazione e un’opera comune.
Le pietre diventano vive se sono sagomate e cementate dall’energia dello Spirito; l’immagine del tempio passa a quella del “popolo sacerdotale”; il sacerdozio santo introduce alla testimonianza spirituale delle opere prodigiose di Dio. “Essere testimoni” ha dunque un orizzonte ecclesiale, un compito sacerdotale, una dinamica spirituale. Questi tratti ci aiutano a immaginare due direttrici pastorali con cui declinare il nostro essere testimoni.

2. “Immaginare la Chiesa” come una comunità di popolo

La metafora della casa utilizzata dalla lettera apostolica ci fa guardare la Chiesa di domani con il volto della testimonianza. Occorrerà indicare percorsi e strumenti per “immaginare la Chiesa” del terzo millennio. “Immaginare” significa la capacità di sintesi tra sogno futuro e realizzazione presente, tra uno sguardo lungimirante e la pazienza di trasformare i gesti della Chiesa di oggi in prospettiva missionaria. I primi passi della Chiesa italiana in questo inizio del duemila si sono mossi concordemente in questa direzione. Il “progetto culturale” della Chiesa italiana ha prodotto una forte spinta propulsiva per ripensare i grandi temi con cui la coscienza cristiana sperimenta una distanza dalle forme della vita odierna e cerca di superarla mediante una più marcata attenzione alle forme della comunicazione pubblica. La scelta prioritaria della missionarietà della parrocchia, con l’accento posto sul primo annuncio, l’iniziazione cristiana e la domenica, va collocata dentro l’orizzonte di grande respiro per dare un volto evangelizzatore alla testimonianza ecclesiale. Per fare questo, la Chiesa italiana di questi anni ha deciso di privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano. Potremmo dire che tutto questo si riassume in un’unica indicazione: la Chiesa si sta prendendo cura della coscienza delle persone, della loro crescita e testimonianza nel mondo.

Occorre che questi gesti delle comunità cristiane favoriscano una cura amorevole della qualità della testimonianza cristiana, del valore della radice battesimale, dei modi con cui gli uomini e le donne, le famiglie, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani e gli anziani danno futuro alla vita e costruiscono storie di fraternità evangelica. “Popolarità” del cristianesimo non significa la scelta di basso profilo di un “cristianesimo minimo”, ma la sfida che la tradizione tutta italiana di una fede presente sul territorio sia capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, di illuminare le diverse stagioni dell’esistenza, di essere significativa negli ambienti del lavoro e del tempo libero, di plasmare le forme culturali della coscienza civile e degli orientamenti ideali del paese.

Popolarità del cristianesimo è allora la scelta della «misura alta della vita cristiana ordinaria» (Novo Millennio Ineunte, 31), che deve servire alla coscienza dei singoli e al ministero pastorale per acquisire una maggiore sapienza evangelica di ciò che è in gioco nelle forme quotidiane dell’esperienza cristiana. Così potrà dare volto a una sapienza cristiana evangelicamente consapevole e culturalmente competente. Perciò la Chiesa italiana ha privilegiato la dimensione di trasmissione (primo annuncio, iniziazione, volto della comunità credente) e la dimensione culturale (progetto culturale, comunicazione massmediale). In estrema sintesi, bisogna favorire le soglie di accesso alla fede e aprire le finestre sul mondo della vita, perché ci si occupi soprattutto del destino della coscienza cristiana. Credenti maturi e testimoni saranno così il miglior contributo alla causa della civiltà del nostro tempo.

Per questo il Convegno ha bisogno di interrogarsi non tanto sul posto dei laici nella Chiesa, ma sui modi con cui tutte le vocazioni, i ministeri e le missioni della Chiesa costruiscono la comunità credente come segno vivo del Vangelo per il mondo. Non si tratta di amministrare una faticosa distribuzione dei compiti o di regolare ruoli che possono diventare conflittuali tra di loro. La relazione tra pastori e laici, tra religiosi e missionari, tra parrocchie e movimenti ecclesiali può aprirsi a una nuova stagione di confronto e di convergenza. Al tempo della puntigliosa ricerca e affermazione della propria identità deve seguire uno sforzo corale dove ciascuno cerca di scorgere sul volto degli altri ciò che manca alla propria vocazione. Non è forse questo il tempo favorevole in cui tutte le anime del cattolicesimo italiano possano parlarsi e confrontarsi, in cui anche le associazioni e i movimenti che li rappresentano possano percepire e vivere la loro esperienza singolare come un’“identità aperta”, attraverso la diversità delle componenti del popolo di Dio e delle ricche tradizioni spirituali delle diocesi italiane?

3. La triplice vocazione del laico oggi

Nell’ottica della testimonianza si potrà meglio mettere a fuoco la figura del laico. La vocazione laicale raccomanda la cura della formazione, il riconoscimento dei doni di ciascuno, la creazione di nuovi ministeri, la responsabilità che deve essere richiesta e riconosciuta, l’autonomia per l’impegno nel mondo, nella professione, nel terziario, nella pólis, nell’agone politico, negli spazi culturali, nella missione ad gentes. Il laico, come testimone, dovrà “immaginare” un triplice spazio di cura di sé, in particolare la sua vocazione formativa, comunionale e secolare.

Bisogna ritornare prima di tutto a riscoprire la vocazione formativa delle comunità cristiane. L’accento di novità del Convegno ecclesiale è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamenti della vita battesimale (la parola, il sacramento, la comunione), la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella Chiesa. Dove sono oggi i credenti che abbiano la fierezza di dirsi cristiani, dove il nome cattolico non è un’etichetta per schierarsi, ma l’indicazione di una sorgente a cui si alimenta la “speranza viva”? Bisogna ritornare, nelle diocesi e nelle parrocchie, ad essere gli annunciatori premurosi e tenaci della necessità insopprimibile di formare credenti solidi, storie di vita cristiana che possano dire: “io ho visto il Signore!”.

In secondo luogo, si dovrà coltivare la vocazione comunionale del laico. Mai come oggi, il laico deve partecipare al carattere corale della testimonianza, parlare i molti “linguaggi” della testimonianza. Essere testimoni non è un atto isolato, ma si dà solo nella comunione ecclesiale. Il NT non conosce dei profeti isolati, ma semmai pionieri che fanno da battistrada e trascinano dietro di sé la comunità credente. Non si dà testimonianza separata dalla trama di relazioni della comunione ecclesiale. Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni, o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d’Italia, drammatico della scarsità del clero e dell’aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella Chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del Vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e missioni. Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza. Il laico deve stare attento al pericolo della burocrazia ecclesiastica e, al contrario, deve promuovere la corrente viva della pastorale d’insieme, della lettura dei segni nuovi della vita della Chiesa, dell’animazione di progetti profetici, anche se parziali, della capacità di abitare i linguaggi della cultura, della socialità, della cittadinanza, soprattutto presso le nuove generazioni. Il laico è un uomo della “sinodalità”, capace di “camminare insieme” (syn-odós), soprattutto di aprire strade nuove. Penso a una Chiesa abitata da persone che faranno uscire il laicato dall’essere semplice collaboratore dell’apostolato gerarchico per diventare corresponsabile di una comune passione evangelica.

E, infine, è urgente riattivare il genio cristiano del laico in Italia. Potremmo dire che il genio cristiano del laico si esprime nell’opera di uomini e donne che sono uno spazio personale e associato di discernimento vivo del Vangelo, dove avviene quel “meraviglioso scambio” tra le esperienze della vita e le esigenze del Vangelo. Questi uomini e donne possono assumere nella comunità credente la figura del “cristiano vigilante”, della sentinella del mattino, quella che prevede il sole luminoso attraverso i bagliori dell’aurora. Si tratta di un credente che unifica in sé le forme del cristianesimo incarnato e, insieme, escatologico, capace di mostrare l’altra faccia del Vangelo che non è ancora realizzata nel frammento presente. È un credente che non abbandona la terra per guardare le cose di lassù, ma vede quelle di lassù abitando la terra.

Che cosa significhi questo sotto il profilo di un cammino pastorale è insieme facile e difficile a dirsi. Ci vorrebbe la passione di Paolo VI per far sognare queste donne e questi uomini come costruttori della “civiltà dell’amore”, ci vorrebbe lo slancio di Giovanni Paolo II per parlarci di quell’intellectus spei che è il racconto della speranza. Questa è un’operazione spirituale, pastorale e culturale, perché oggi non è più possibile pensare e praticare un rinnovamento dei modi della vita cristiana nelle chiese locali non solo senza i laici, ma urgentemente con i laici. Questi tre aspetti – spirituale, pastorale, culturale – sono fortemente connessi e possono trovare negli ambiti disegnati per il Convegno un terreno di nuova elaborazione.

3. “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione
della speranza che è in voi” (1Pt 3,15)
L’esercizio della speranza nel mondo della vita


Infine, la terza pista ci sprona a essere testimoni di speranza nel mondo. La testimonianza della Chiesa e dei credenti si attua mediante la “conversione missionaria”. Tutto questo indica il cambiamento di rotta della Chiesa italiana, cioè lo strumento teologico e culturale con cui nella Chiesa si elaborano – con uno stile di comunione – nuovi linguaggi, nuovi strumenti e nuove decisioni per dire l’evangelo nel mondo che cambia. Infatti, da un lato, il credente/testimone e la Chiesa/testimonianza potranno avventurarsi ad “esercitare” la speranza negli spazi della vita, solo rimanendo presso il Crocifisso risorto e abitando una dimora ecclesiale. Dall’altro lato, è molto importante intendere l’esercizio della speranza non semplicemente come un “mettere in pratica” alcuni valori presupposti e da realizzare semplicemente nell’impegno del mondo.

La testimonianza non ha prima di tutto la forma dell’impegno, ma quella di un “esercizio del cristianesimo”, con cui si entra negli spazi della vita umana, messi a tema per il Convegno di Verona (la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità della vita umana, i modi della trasmissione e della comunicazione, la cittadinanza). Ci viene in soccorso la terza immagine contenuta nella Prima lettera di Pietro, la metafora del dibattito (confronto) pubblico.

1. “Rendere ragione” come forma della testimonianza

L’immagine si trova in un brano (1Pt 3,13-17) in cui l’Apostolo prepara i credenti ad affrontare le sofferenze incombenti, con l’esempio incoraggiante di Cristo. La domanda iniziale è di grande attualità: e chi è colui che potrà farvi del male? È il momento critico della vita: l’esperienza del confronto, della prova e del dolore sembra soffocare la speranza. Talvolta il male appare accovacciato alla porta di casa. Pietro proclama ai suoi destinatari, anzitutto, la beatitudine di coloro che soffrono per la giustizia, richiamando una delle più caratteristiche beatitudini di Gesù (Mt 5,10). La beatitudine trova riscontro nella vita delle comunità che soffrono per le persecuzioni o, forse più semplicemente, per la loro situazione di marginalità e di minoranza.

A questo punto ricorre la metafora del confronto pubblico, a cui i credenti sono chiamati nelle diverse situazioni della testimonianza. Pietro, infatti, esorta: «siate sempre pronti alla difesa di fronte a chiunque vi chieda ragione della speranza che è dentro di voi». L’espressione, giustamente famosa, è il motto della Prima lettera di Pietro. Rendere conto, difesa, apologia è il termine tecnico del dibattito pubblico, della controversia con i giudei o di un processo dove c’è un interrogatorio e un discorso di difesa. Questa “situazione di confronto” diventa un’occasione per la testimonianza cristiana che risponde a chiunque chieda il lógos (la ragione, il motivo, la giustificazione) della speranza che è in noi. Ecco il messaggio forte della Lettera: al centro della nostra vita c’è una speranza a caro prezzo, che è Gesù sofferente divenuto il Risorto! È la “speranza vivente”, cuore dell’esistenza cristiana (in voi) e della comunità credente (fra voi). È difficile identificare nella lettera la situazione di sofferenza e di prova: forse non si tratta proprio di una persecuzione, ma di una condizione di marginalità e quasi di disprezzo per cui i cristiani erano considerati nella società del tempo un gruppo poco influente, senza potere, deriso e dileggiato.

“Rendere conto” della speranza cristiana in un tempo di prova espone al pericolo del vittimismo. Per questo l’apologia della speranza va fatta con dolcezza (di fronte a chi chiede), con rispetto (timore, davanti a Dio), con retta coscienza (riguardo a se stessi). Il cristiano rende ragione nella prova in modo disarmato e disarmante, anche di fronte alle calunnie per il suo modo di essere e di agire nello stile di Cristo. La situazione del “confronto pubblico” illumina tutte le occasioni in cui il cristiano deve “rendere conto” della speranza che è in lui: l’annuncio pasquale, la controversia con gli avversari, la missione ai pagani. E oggi si deve aggiungere: il dibattito culturale e il confronto multireligioso.

Tutto ciò pone la testimonianza su un terreno di fragilità e la espone al rischio di scadere nella falsa testimonianza. Per questo Pietro raccomanda ai credenti dolcezza e coraggio, mitezza nel porgere agli altri e timore di tradire la verità di Dio. Ciò si prova nella (retta) coscienza, con cui il testimone difende la sua causa al prezzo del suo stesso scomparire, fino al sacrificio della vita. Non perché la sua attestazione sia insignificante, ma perché la sua dedizione personale alla verità deve favorire che si affermi anzitutto la bontà e la giustizia della cosa testimoniata: la speranza che è in noi, di cui non siamo padroni, ma che ci avvolge e ci supera. E per questo può e deve essere donata a tutti.
Il carattere contrastato della testimonianza mette in luce che il cristiano può dire Cristo, in quanto speranza del mondo, solo nella forma di un “esercizio del cristianesimo”. Con questa espressione entriamo nell’arena del confronto pubblico. La speranza cristiana può stabilire, così, un fecondo contatto con gli spazi della vita umana. Da qui discendono le ultime due istanze pastorali che forniscono alcune indicazioni concrete per questi giorni.

2. Il cristianesimo come “esercizio” negli spazi della v ita

L’espressione “esercizio del cristianesimo” ha una lunga tradizione spirituale ed ecclesiale. Essa allude al fatto che la sequela del discepolo è un “tirocinio”, il rischio con cui la libertà del credente sottopone la speranza cristiana alla prova del tempo, anzi della propria epoca. Per questo gli “esercizi spirituali” sono un’operazione guidata dallo Spirito, perché Egli ci fa essere “contemporanei” di Gesù, senza sottrarci alle dinamiche e alle attese del nostro tempo. Questa preziosa tradizione cristiana getta un cono di luce anche sulla testimonianza dei credenti nel mondo: essi sono memoria creativa di Gesù. La presenza del Risorto nella loro vicenda diventa un discernimento “spirituale”, proprio perché “comunitario” e “storico”.

La testimonianza come “esercizio” significa che la vita cristiana è un agire che sa assumere le forme della vita umana come un alfabeto in cui dirsi e in cui realizzarsi. Sarebbe un’interpretazione fuorviante immaginare che il “mondo”, presente nel motto di Verona, sia solo lo scenario passivo di un’azione di salvezza che il credente opera in favore d’altri. Il “mondo”, quando si riferisce ai modi con cui l’uomo d’oggi desidera, soffre, lotta, sogna, ama e spera, è l’alfabeto dell’annuncio del Vangelo. Allo stesso modo con cui le parabole hanno offerto una similitudine del Regno di Dio a partire dalle forme dell’umana esperienza. Gesù ha abitato lo scenario di Nazaret e della Galilea per trenta lunghissimi anni, immergendosi nei linguaggi umani, perché in soli tre anni quelle esperienze e quei linguaggi potessero quasi lievitare, anzi esplodere per dire l’evangelo di Dio. In fondo si tratta di ricuperare in modo corretto il rapporto tra creazione e salvezza, tra mondo e chiesa, non solo come tema teorico, ma come “incontro vitale” tra l’esistenza umana e la sapienza di Dio.

Questo incontro è pertanto un esercizio, un mettersi in gioco tra il testimone e il destinatario, perché diventi a sua volta testimone. Il cristianesimo come “esercizio” significa che l’agire del credente non è tanto un “mettere in pratica” ciò che è già saputo nel limbo di una presunta fede disincarnata, ma avviene nello scambio reale delle forme pratiche della vita con il lievito del vangelo di Gesù. Perciò la testimonianza si esprime in un racconto, cioè nella narrazione di un evento che viene trasmesso ad altri attraverso la mediazione del testimone che chiama il destinatario a consegnarsi non al testimone, ma alla verità del Dio di Gesù. Non è un caso che il Vangelo di Gesù abbia assunto la forma di un racconto e anche la stessa professione di fede (kérygma) deve sempre mediarsi in un racconto se non vuole decadere in dottrina ideologica.

In questi giorni saremo chiamati più volte a un “esercizio di discernimento”. Lo faremo, sapendo che è un’operazione complessa e comunitaria, dove sono in gioco molteplici fattori e soggetti. I fattori sono di tipo spirituale, ecclesiale e culturale, e ci sottraggono alla duplice illusione di dare risposte semplificanti o di perderci in interminabili analisi. La pluralità dei soggetti richiede un ascolto prolungato della ricchezza delle persone e delle esperienze, perché si realizzi un vero discernimento comune e non un suo simulacro mascherato. Gli uomini e le donne che hanno saputo leggere e amare il loro tempo sono state persone permeabili all’azione dello Spirito, che non soffia mai da una parte sola, ma risuona dentro la grande sinfonia della communio sanctorum.

La testimonianza è allora un modo di leggere e agire nel proprio tempo alla luce della speranza. Essa deve evitare di elaborare teorie o modelli senza che diventino scelte storicamente possibili e praticabili: “discernere” significa capire e scegliere, ma la decisione non segue a un comprendere già chiaro e distinto, bensì esige un sapere pratico, un incremento di sapienza cristiana proprio sugli ambiti della vita personale e sociale su cui saremo chiamati a confrontarci. In questo contesto la libertà dei credenti può diventare il crocevia di incontri, e talvolta anche di discernimenti critici, che portano a comunicare la speranza cristiana dentro la figura incerta e, nondimeno, aperta del mondo attuale. La riflessione di questi anni del Progetto culturale e l’attenzione alle forme della comunicazione di massa hanno predisposto molti strumenti preparatori ed efficaci per l’“esercizio” che verrà fatto qui a Verona. Anche il lavoro delle diocesi italiane sul tema della trasmissione e dell’educazione, gli interventi e le esperienze sui temi del volontariato, della carità, della legalità, della missionarietà, dell’attenzione multiculturale, potranno diventare terreno fecondo per rilanciare l’azione dei cristiani nel mondo. Questo è l’obiettivo concreto del Convegno ecclesiale.

3. Interdipendenza verticale e orizzontale degli ambiti

Un’ultima indicazione pastorale dev’essere proposta. Penso corrisponda al sentire di coloro che si sono appassionati alla preparazione di questo evento. Uno degli aspetti più apprezzati della Traccia e degli Eventi celebrati quest’anno in varie parti del paese è stato certamente l’inusuale formulazione dei cinque ambiti a tema qui a Verona. Con ciò si è voluto rompere la consueta articolazione dei momenti con cui si è soliti immaginare la missione della Chiesa nel mondo. La rappresentazione diffusa delle funzioni della pastorale (annuncio, celebrazione, comunione, carità, missione, animazione culturale, presenza sociale, lavoro, turismo, migrantes, ecc.) ha sovente preso nella pratica un andamento molto settoriale e autoreferenziale. I settori della vita e dell’azione pastorale della Chiesa sono così diventati motivo per documenti e interventi talvolta senza ascolto reciproco e interdipendenza pratica. Il danno prevedibile è di perdere non solo l’unità della vita cristiana e della missione ecclesiale, ma di non riuscire a servire alla vita quotidiana della gente.

Occorrerà, dunque, un atteggiamento coraggioso e lungimirante nell’affrontare i cinque ambiti. Il nostro compito non è quello di specialisti di un convengo teologico o culturale, né quello operativo di un parlamento che fa leggi e prende decisioni pratiche. Il nostro impegno è quello di acquisire e scambiare sapienza pastorale, mettendo in contatto le variegatissime esperienze delle chiese d’Italia, per far circolare la vita tra le diverse parti del corpo ecclesiale. Pertanto, il confronto che avverrà dentro gli ambiti dovrà essere preoccupato di mantenere una sorta di interdipendenza orizzontale e verticale. Orizzontale, perché la discussione dovrà mostrare l’intreccio del nostro tema con le altre sfere di esperienza della vita umana e cristiana. Verticale, perché dovrà sempre mettere il tema sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall’incontro con il Risorto.

Ciò che ci interessa sopra ogni cosa è servire l’esistenza di fede e aprire nuovi orizzonti nell’azione della Chiesa e nel servizio al mondo. Per questo anche le necessarie analisi e le opportune proposte devono mantenere gli “occhi semplici” dell’unità della vita personale e del patto sociale. A ben vedere già questo è un esercizio di speranza di fronte all’esperienza frammentata e fluida del vivere attuale. La speranza cristiana non perde la fiducia che anche le forme più complesse, talvolta inutilmente complicate, di analisi antropologica e sociale, devono riferirsi all’unità della coscienza pratica. È forse proprio l’assenza del riferimento alla coscienza di sé sempre implicata in ogni agire e sperare umano che provoca la debolezza di identità personale e di rilevanza sociale nell’attuale società complessa.

Questa è però la certezza che proviene dalla risurrezione di Gesù. Essa ha seminato nel grembo della vita e nel solco della storia una promessa che alimenta e rigenera sempre da capo una speranza capace di edificare il sogno di una dedizione personale e di un’operosità sociale. Soltanto così si può “rendere ragione” della speranza che è in noi anche nel confronto e talvolta nel contrasto con mondo moderno. Le tre metafore che ci hanno guidato nel nostro itinerario di introduzione al Convegno, le immagini della generazione, della casa e del confronto pubblico si danno la mano e disegnano davanti ai nostri occhi il testimone di Gesù risorto, speranza del mondo. Essere testimoni così è oggi possibile all’interno di una misericordia che ci sorprende e di una grazia che ci alimenta con il soffio del suo Spirito.

La speranza è certamente oggi un bene fragile e arduo. I testimoni della fede, i santi cristiani, sono stati uomini e donne di speranza, perché si sono lasciati lievitare dal soffio dello Spirito. Lo stesso Marcel, menzionato all’inizio, ce lo ricorda con parole profetiche:

Bisogna dire che sperare, così come possiamo presentirlo, è vivere in speranza, al posto di concentrare la nostra attenzione ansiosa sui pochi spiccioli messi in fila davanti a noi, su cui febbrilmente, senza posa, facciamo e rifacciamo il conto, morsi dalla paura di trovarcene frustrati e sguarniti. Più noi ci renderemo tributari dell’avere, più diverremo preda della corrosiva ansietà che ne consegue, tanto più tenderemo a perdere, non dico solamente l’attitudine alla speranza, ma alla stessa fiducia, per quanto indistinta, della sua realtà possibile. Senza dubbio in questo senso è vero che solo degli esseri interamente liberi dalle pastoie del possesso sotto tutte le forme sono in grado di conoscere la divina leggerezza della vita in speranza. (G. Marcel)

La “divina leggerezza” della speranza sia la compagna di viaggio di questi giorni. E che la sua vela sia sospinta dal soffio dello Spirito, il dolce Consolatore che ci dona la vita del Risorto.