Come costruire l’avvenire in un’Europa “multireligiosa”

Rispondono il Vicario Apostolico della Turchia e un esperto sull’immigrazione della CCEE

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ROMA, martedì, 18 ottobre 2005 (ZENIT.org).- In occasione dell’Assemblea Plenaria annuale del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), svoltasi al “Salesianum” di Roma dal 29 settembre al 2 ottobre sul tema “Il Concilio Vaticano II e l’Europa. Quali indicazioni per il futuro?”, ZENIT ha incontrato monsignor Louis Pelatre, Vicario Apostolico di Istanbul, responsabile dei cattolici latini per Istanbul ed Ankara, e padre Hans Vöking, consultore della Commissione Migrazioni della CCEE.

Siete giunti a Roma con questioni importanti, forse soprattutto lei, monsignor Pelatre, che ha a cuore il caso della Turchia. In particolare, cos’è che volete portare all’attenzione di questa Assemblea plenaria?

Monsignor Pelatre: Non penso che l’Assemblea plenaria si possa preoccupare di tutto ciò che concerne la Chiesa in Turchia. Ad ogni modo, i cristiani in Turchia sono una piccola minoranza e convivono anche con altre confessioni cristiane, cioè gli ortodossi, quindi i greci, che sono molto pochi, gli armeni e i siriaci, e anche i protestanti. Insieme formiamo una minoranza. Il nostro problema è proprio la testimonianza che la Chiesa, che i cristiani devono dare ad un popolo musulmano, ma anche ad una società, la società turca, che è anche laica perché in Turchia ci sono due tendenze, una più tradizionale legata all’impero ottomano, all’Islam, e una tendenza molto moderna, repubblicana, laica. Viviamo in questo mondo molto complesso e dobbiamo dare la nostra testimonianza, il nostro servizio, come abbiamo sempre affermato. La Chiesa cattolica non vive solo per se stessa. Ha anche una missione per la popolazione che la circonda.

Ci sono progressi nel dialogo con i musulmani? O nella questione della libertà religiosa? Può tracciare un bilancio a 40 anni dalla fine del Concilio Vaticano II?

Monsignor Pelatre: Quando la quasi totalità della popolazione appartiene ad una religione, sono piuttosto loro a dover dire se c’è libertà religiosa. Chi siamo noi, cristiani in Turchia, per dire come si esercita la libertà religiosa nei nostri confronti? Lo fa capire la popolazione, che si dichiara islamica al 99%. La laicità turca si esercita in modo tale che lo stesso Islam, che è la religione professata da quasi tutti, non ha uno statuto ufficiale e non è quindi riconosciuto ufficialmente dallo Stato. Resta di dominio privato e nonostante questo lo Stato, che è laico, amministra la religione, il che vuol dire che ha voce in capitolo, che esercita un controllo.

Non ci sono ministri di culto in Turchia. C’è quella che viene chiamata la Presidenza degli Affari Religiosi, che dipende direttamente dal Primo Ministro. C’è una sorta di collusione tra lo Stato e la religione, ma la popolazione in generale lo accetta. Non è considerato un grande problema perché essere un buon cittadino ed essere un buon musulmano sono cose che vanno di pari passo. Lo dico perché questa è la situazione generale. Come si può pensare che noi cristiani possiamo avere un posto in un sistema del genere? E’ un po’ difficile.

Al centro dei dibattiti c’è anche il tema dell’immigrazione. Secondo voi questo può davvero essere un modo per creare un’unità in Europa?

Padre Hans Vöking: L’immigrazione fa parte della società europea. Ogni giorno ci sono movimenti migratori nella società europea, da sud verso nord, da est verso ovest, verso l’America e l’Australia. Dopo 40 anni, però, si possono distinguere due fenomeni: da un lato la migrazione da sud a nord, che è legata allo sviluppo economico ed è una migrazione intraeuropea. Ha posto problemi, ma a partire dagli anni ‘70-‘80 si è trattato anche di un’immigrazione di uomini e donne venuti da altre culture.

La società europea è caratterizzata dall’interculturalità, dovuta agli uomini venuti da culture islamiche, buddiste, indù, e non è più composta come trent’anni fa. Ciò pone dei problemi politici, sociali, giuridici. E pone un problema anche alla Chiesa. Come lavora con la mobilità umana? Non si considerano solo gli uomini e le donne in movimento a causa del lavoro, che si insediano e si integrano in uno Stato europeo, e che resteranno lì.

C’è poi una mobilità lavorativa limitata a tre, quattro mesi, di ingegneri, di tecnici che viaggiano per l’Europa. Anche questa pone alcuni problemi pastorali alla Chiesa. Come assistere i cattolici in movimento o che si spostano in Europa? E come vivere con uomini e donne di altre religioni, di altre culture? Anche questa è una novità. L’Europa è diventata multireligiosa. Non dico multiculturale, ma multireligiosa. Questo solleva alcune questioni per la Chiesa cattolica, ma anche per le Chiese protestanti e ortodosse sul come costruire l’avvenire.

L’altro problema che quanti parlano di immigrazione affrontano molto poco nella Chiesa cattolica è il fenomeno demografico della società europea. Gli Europei stanno diminuendo enormemente e se vogliono mantenere un certo livello sociale ed economico devono permettere a uomini e donne di venire a lavorare qui in Europa. Questo segnerà un cambiamento radicale nella nostra società nei prossimi 50 anni.

Ci sono punti nuovi nell’agenda della Commissione di cui vi occupate? Penso ad esempio al terrorismo. Questo aspetto è menzionato nella pastorale della Chiesa?

Padre Hans Vöking: Questo è legato all’immigrazione di musulmani in Europa e anche al fatto che i musulmani guardano sempre alla grande comunità musulmana a livello mondiale. Se c’è un movimento da qualche parte, in Iran, in Egitto o in Afghanistan, questo coinvolge anche i musulmani che vivono in Europa. Ci sono giovani musulmani, o di tradizione musulmana, o di famiglie musulmane sradicate, alla ricerca di un orientamento per la loro vita e per la comunità. Sono spesso molto accessibili per gli attivisti islamici e pronti a consacrare la loro vita per la “salvezza” di tutti i musulmani, per la comunità musulmana. La Chiesa è preoccupata per il fattore estremista che viene dai musulmani o da certi gruppi musulmani.

Qual è l’aspetto dell’Eucaristia che vorreste portare all’attenzione del Sinodo dei Vescovi partendo dal punto di vista del vostro Paese, o di quello di cui vi occupate? La Turchia, ad esempio.

Monsignor Pelatre: L’Eucaristia è una realtà specificatamente cristiana. L’ho detto. Vivendo in un Paese che non è cristiano, non vedo come poter far passare i valori dell’Eucaristia a quanti non sono cristiani. E’ questo il nostro grande problema. Siamo delle piccole comunità. Ci riuniamo. E’ vero che spesso i musulmani si interessano a noi e vengono nelle nostre chiese, però sicuramente non possono cogliere e comprendere ciò che facciamo quando celebriamo l’Eucaristia.

Noi siamo convinti che sia il centro della nostra fede. Tutto trova la sua unità in questa celebrazione. Alcuni dicono: è bene condividerla con gli altri. Io rispondo: non si può condividere tutto. Non è possibile. Capita anche che riceviamo delle autorità. E’ molto curioso dire: venite a pregare con noi, ma non potete fare questo.

A livello di comunità cristiane non è lo stesso. Per quanto riguarda i nostri fratelli ortodossi, ad esempio, questo è uno dei punti sui quali ci sentiamo profondamente uniti. E lì, al contrario, soffriamo per il fatto di non poterla condividere. Non vogliamo l’impossibilità di condividere la stessa Eucaristia, ma ci sono ancora dei problemi. Attualmente è molto sentita tra le confessioni cristiane la sofferenza dovuta alla non condivisione dell’Eucaristia. Per quanto riguarda noi cattolici, abbiamo provato come tutti ad entrare quest’anno in questo movimento. Una volta al mese c’è stata un’adorazione in una chiesa, animata dai giovani con canti nuovi. Un modo di vivere il sacramento eucaristico molto vivo, adatto alla vita di oggi.

L’Eucaristia può unire i migranti?

Padre Hans Vökin
g: Dopo il Concilio la Chiesa ha detto: c’è bisogno di seguire gli immigrati, di costruire strutture per accoglierli, di celebrare l’Eucaristia nella lingua madre dei cattolici. Ma ora gli emigrati cattolici di Italia, Spagna, Croazia che attualmente vivono in Belgio, nei Paesi Bassi, in Germania, Svizzera, ecc., sono già alla terza o quarta generazione. La prima generazione si reca ancora alla missione per celebrare l’Eucaristia, ma i giovani sono inseriti nel sistema scolastico del Paese. Preferiscono prepararsi alla Prima Comunione con la loro classe. Non avviene più nella missione, ma nella parrocchia. I pastori comprendono, ma non è una cosa facile da gestire, né per il parroco, né per i responsabili della pastorale. Nella maggior parte dei Paesi ci sono anche iniziative con gli immigrati, giornate interculturali con gli immigrati e per i cattolici, celebrazioni comuni dell’Eucaristia. In Germania, ad esempio, c’è la processione del Corpus Domini, e tutte le missioni sono invitate e sono ben visibili nei loro costumi tradizionali.

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ZENIT Staff

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