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Con una espressione ormai al centro del dibattito sui tempi in cui viviamo, durante la Messa d’inizio-conclave dello scorso aprile, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger – oggi Benedetto XVI – chiamava “dittatura del relativismo” il pericolo incombente sulle nostre società.
In quella occasione veniva efficacemente sintetizzata la deriva della nostra civiltà: Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo.
Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie (J. Ratzinger, Missa pro eligendo Romano Pontifice – omelia).
In altre parole, si va configurando nel panorama dell’etica questo interessante fenomeno: il relativismo viene propugnato come unico atteggiamento “rispettoso” delle differenze di ciascuno, e dunque come unica possibile soluzione alle forme più o meno velate di “dogmatismo” e di “fondamentalismo” presenti in certa parte della cultura odierna e responsabili – si dice – di pericolosi attentati alla libertà individuale, in quanto “imposizioni” di un punto di vista.
Eppure, questo stesso relativismo che inneggia ad una libertà senza condizioni, svela clamorosamente il suo volto dispotico e violento allorché ci sono in ballo i diritti umani fondamentali come il diritto alla vita di tutti gli uomini, anche di quelli non nati o di quelli morenti, o la tutela del “santuario della vita umana”, cioè l’istituzione naturale della famiglia fondata sul matrimonio (cfr. C. Navarini, Gay marriage: le nuove minacce alla famiglia, ZENIT, 4 aprile 2004, http://www.zenit.org/italian/visualizza.php?sid=1142; Idem, Famiglia e unioni di fatto: il ruolo della Chiesa Cattolica , ZENIT, 16 maggio 2004).
Questi valori – quello della vita umana, quello della famiglia normale (cfr. A. Mantovano, Dalla parte dei discriminati. Le famiglie normali, “Il Domenicale”, 1 ottobre 2005, p. 2) – , travolti dal relativismo etico, sembrano perdere l’oggettività che li rende doverosamente difendibili, e restano per converso totalmente indifesi. Il dramma del relativismo, infatti, è che nello scontro ideologico i più forti, quelli che possono far valere il loro punto di vista, sono agevolati, mentre i più deboli rischiano di essere impietosamente schiacciati dagli interessi o dall’indifferenza altrui, anche di coloro che dovrebbero assumerne la difesa. E così, il “massimo” della libertà, cioè il relativismo etico, si rivela il massimo dell’intransigenza, cioè un totalitarismo.
Lo sintetizza bene il Card. Camillo Ruini nella sua Prolusione al Consiglio Permanente della CEI, commentando gli interventi del Santo Padre Benedetto XVI alla trascorsa Giornata Mondiale della Gioventù: le rivoluzioni del secolo XX, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo, dovevano per forza assolutizzare ciò che è relativo, prendere un punto di vista umano e parziale come misura assoluta di orientamento. Ma l’assolutizzazione del relativo è l’essenza del totalitarismo: invece di liberare l’uomo gli toglie la sua dignità e lo schiavizza (Conferenza Episcopale Italiana – Consiglio Permanente, Prolusione del Cardinale Presidente, Roma 19-22 settembre 2005).
Ed è proprio questo paradosso che rivela il nesso tra i crescenti attacchi alla vita e quelli contro la famiglia, spiegando perché questioni apparentemente più legate alla politica e al diritto, come l’attuale dibattito sui “patti civili di solidarietà” (i famosi “pacs”), abbiano una straordinaria rilevanza bioetica. E possano a buon diritto rientrare nei discorsi alle coscienze pronunciati dal Magistero della Chiesa Cattolica e dai rappresentanti del clero.
La veste giuridica delle “unioni di fatto”, di cui tanto si discute nelle ultime settimane e per cui una legge è pronta in Parlamento, rappresenta un problema molto più profondo del semplice “riconoscimento di una scelta privata”. In primis perché rappresenta un attacco frontale alla famiglia.
Alcuni sostenitori dei pacs, a dire il vero, si adoperano a negarlo. Dicono che i “patti” garantirebbero alcuni diritti ai conviventi senza intaccare l’istituto familiare, un po’ come avviene in Francia, dove i pacs sono in vigore dal 1999 senza “sovrapposizioni” con il matrimonio. A parte le obiettive contraddizioni e ambiguità in cui tale “rigida” distinzione incorre in Francia, bisogna ammettere che la proposta di legge italiana andrebbe oltre quella francese, riconoscendo ai conviventi diritti che li assimilerebbero per alcuni versi ai coniugi:
A leggerne il testo, salta agli occhi che sotto il titolo, francesizzante, dei “pacs” non si delinea una via italiana alla tutela contrattualistica di un’unione di fatto, ma il rischio di dar vita – magari oltre le intenzioni – a un’ipotesi, in salsa spagnola, di mini-matrimonio: un patto che cambierebbe lo stato civile dei contraenti, solubile in appena tre mesi eppure capace di generare benefici fiscali, previdenziali, successori in tutto e per tutto uguali a quelli coniugali (M. Tarquinio, Strada imboccata male, “Avvenire”, 13 settembre 2005).
Insomma, si tratterebbe di una formula, come molti hanno notato, piena di diritti e scarna di doveri, che del matrimonio “copia” aspetti vantaggiosi eliminandone tuttavia l’aspetto fondamentale di responsabilità e di impegno. Si tratterebbe di un “piccolo matrimonio”, come lo chiamava il Card. Ruini nella Prolusione citata, modellato in buona parte sull’istituto matrimoniale.
Una simile figura giuridica si tradurrebbe in un passo deciso verso lo svuotamento del significato di “famiglia fondata sul matrimonio”, che sarebbe assimilata ad un certo “grado” di stabilità nel vincolo fra due persone. Eppure, anche la Corte Costituzionale si è espressa varie volte sulla differenza fondamentale fra convivenza e matrimonio, stabilendo che la convivenza more uxorio (obiettivamente presente nei costumi) non può pretendere la parificazione di trattamento con il legame matrimoniale. Che è quanto dire: chi vuole accettare i vincoli del matrimonio, con i relativi diritti e doveri pubblici, si sposi. Il matrimonio non è infatti un affare privato, ma, proprio in quanto tale, pubblico, al punto che i futuri coniugi vedono “pubblicato” l’annuncio del loro imminente matrimonio (le “pubblicazioni di matrimonio”, appunto).
Non esiste una via intermedia fra sposarsi e unirsi in una convivenza (più o meno stabile) avulsa dal matrimonio. È talora inevitabile prendere atto, come nota il Cardinale, di situazioni concrete di convivenz
a che necessitano di alcune tutele, ma si tratta di casi da valutare singolarmente nel diritto privato, non di materia di diritto pubblico.
Anche perché, è bene ribadirlo, sono gli stessi conviventi che, nella stragrande maggioranza dei casi, non intendono ricorrere a nessun registro o patto per “vincolare” la loro unione. Le regioni italiane che hanno istituito in passato registri dei conviventi, ad esempio, hanno ottenuto bassissime percentuali di iscritti (cfr. A. Galli, Unioni di fatto, il flop dei registri, “Avvenire”, 15 settembre 2005).
E a chi invece ama affermare orgogliosamente che i pacs rappresentano in effetti una modalità nuova, più moderna, di famiglia, si potrebbe rileggere l’articolo 29 della Costituzione italiana, che individua con precisione la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. La famiglia naturale non è sostituibile. Anzi, è l’insostituibile nucleo della società su cui si gioca il futuro e la salute della civiltà umana, di contro alla struttura transitoria e inaffidabile delle unioni di fatto, soprattutto fra persone dello stesso sesso, inadatte a costruire un rapporto che guarda realmente al domani, ovvero al benessere della prole e con essa delle generazioni future.
La Chiesa ha precisato più volte la spinta dissolutoria del matrimonio insita nelle unioni di fatto. Lo ha fatto Benedetto XVI (cfr. il discorso del 6 giugno 2005) e Giovanni Paolo II prima di lui, come pure la Congregazione per la Dottrina della Fede (2002 e 2003) e il Pontificio Consiglio per la Famiglia (2000). La Chiesa non ha mai perso di vista, oltre al valore spirituale e teologico della famiglia, il suo importante ruolo sociale. Al contrario, il mondo laico mette all’ordine del giorno i pacs invece di attivare maggiori misure difensive e rafforzative della famiglia normale.
Osserva ancora il Card. Ruini: il paradosso della nostra situazione è che il sostegno pubblico alla famiglia in Italia è invece molto minore, meno moderno e organico, pur in presenza di una gravissima e persistente crisi della natalità che sta già provocando, e causerà assai di più in futuro, ingenti danni sociali. Il sostegno alla famiglia legittima dovrebbe essere dunque la prima e vera preoccupazione dei legislatori ( Prolusione, … cit.).
La conclusione del Cardinale sul dibattito in corso è di chiarezza esemplare: i pacs rappresentano qualcosa di cui non vi è alcun reale bisogno e che produrrebbero al contrario un oscuramento della natura e del valore della famiglia, e un gravissimo danno al popolo italiano (ibidem).
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]