Alla scoperta di semi di pace in Terra Santa

Il racconto della giornalista Rosangela Vegetti

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MILANO, martedì, 30 agosto 2005 (ZENIT.org).- Rosangela Vegetti, giornalista milanese, al rientro da un viaggio in Terra Santa chiamato “Cammino ecumenico di pace a Gerusalemme” ha scritto il libro “Dove la pace sembra impossibile. Semi e segni di speranza in Terra Santa”, ( Ancora Libri, pagg. 144, euro 12).

Parlando con ZENIT la scrittrice, autrice di altri libri come “Il sorriso di Maria”, ha affermato che la Terra Santa è la terra su cui si gioca tutto nel bene e nel male, “proprio perché non è un ‘terra qualunque’, ma il crogiolo di tutta la storia, dove l’umanità si incontra e si scontra con la storia di Dio”.

“Quel lembo di terra, promessa da Dio al suo popolo, che Mosè poté solo vedere dal monte Nebo senza poterla calpestare, alla fine del lungo peregrinare del popolo d’Israele liberato dalla schiavitù dell’Egitto, rimane la terra della promessa di Dio”, ha osservato.

“Sarà Terra Santa fino al compimento del tempo e solo allora l’umanità vi troverà pace e dovizia di frutti per tutti – ha aggiunto –. La Gerusalemme terrena ricorda e richiama la promessa di Dio della Gerusalemme celeste. Promessa di salvezza e della venuta del Messia per l’ebraismo, pienezza del Regno di Dio per il cristianesimo, porta verso il Cielo per l’Islam”.

Una terra “così carica di significati eterni” per le tre religioni monoteiste che si rifanno al Patriarca Abramo è, “da sempre, anche terra delle grandi contraddizioni umane: violenze, ingiustizie, crudeltà, prepotenza”, ha affermato la Vegetti.

Sia in Israele che nei Territori dell’Autonomia palestinese, infatti, “la gente soffre questo tempo di conflitto, di terrorismo, di continua violenza. Troppo spesso le informazioni mediatiche forniscono un’immagine di gente assuefatta alla guerra. Ma così non è”.

Secondo la giornalista, c’è la consapevolezza di dover combattere “prima di tutto contro la cultura della violenza, di dover superare i pregiudizi degli uni verso gli altri: non ogni palestinese è un terrorista kamikaze , non ogni israeliano è pronto a uccidere un palestinese perché palestinese”.

Da qui nascono i vari tentativi di creare “canali di conoscenza, di comunicazione reciproca, di cooperazione, al di là e al di fuori delle strategie politiche”, ha constatato a ZENIT.

“Questa terra è un laboratorio di esperienze di dialogo interreligioso e multiculturale, tutto da conoscere”.

La Vegetti, che ha partecipato al Cammino ecumenico di pace a Gerusalemme insieme al Consiglio delle Chiese cristiane di Milano, ha affermato che è difficile parlare di ottimismo, “perché le soluzioni politiche e militari in tempi brevi ancora sono fragili e piuttosto contraddittorie”, così come mancano “prese di posizione radicali di incontro e di volontà di pace, al di là delle minoranze fondamentaliste”.

Dal suo punto di vista, tuttavia, c’è “un bagliore nuovo” nella vita delle persone, “più consapevoli che la complessità dei problemi non potrà venir risolta dai soli strumenti della politica, ma che tutti dovranno trovare delle misure di convivenza diverse”.

C’è poi la necessità di conciliazione interna, un problema che riguarda sia gli israeliani che i palestinesi.

“Entro la stessa società israeliana le diversità sono tali che bisognerà costruire una pace interna tra gli ebrei più tradizionalisti e gli ultimi arrivati dall’Est europeo, e pure con le frotte di lavoratori immigrati asiatici: uno Stato da ristabilire su basi multirazziali e multireligiose”, ha affermato la giornalista parlando dello Stato ebraico.

Quanto ai palestinesi, “solo il superamento delle divisioni ancora familiari-tribali al loro interno potrà consentire la costruzione di uno stato unitario democratico, e per inserirsi nel mondo della globalizzazione sarà necessaria la piena collaborazione anche con il fronte israeliano”.

“Il costo – ha osservato – potrebbe essere una sorta di ‘suicidio’ nazionale, di riduzione al solo terrorismo senza orizzonti di futuro”.

Per ciò che riguarda l’azione della Chiesa cattolica, la Vegetti ha ricordato come questa esorti i suoi fedeli a riprendere la vie del pellegrinaggio in Terra Santa superando paure e insicurezze.

“Effettivamente c’è il rischio che i cristiani vadano a scomparire proprio nella terra di Gesù Cristo”, è la preoccupante constatazione della giornalista. “Infatti, la maggioranza dei cristiani è di origine palestinese, e sempre più spinta ad emigrare per poter sopravvivere e garantire futuro ai propri figli”.

“Ormai i cristiani in Terra Santa sono poco più dell’1%; fra poco saranno solo ‘custodi di musei’, come tristemente dicono i testimoni ancora residenti in quella terra”.

Di fronte a questa situazione, è ovvia “la responsabilità di farsi carico da parte di tutte le Chiese di tanti disagi e difficoltà dei cristiani di Terra Santa. I pellegrinaggi sono un modo importante per toccare con mano la situazione e per farsi prossimi a quanti faticano e soffrono, purchè non si pensi che basti toccare pietre e reliquie, per incontrare oggi il Cristo sulle vie di Giudea, Galilea e Samaria”.

“Con il mio libro ho voluto indicare alcuni spunti ai futuri pellegrini perché possano allargare il loro campo di osservazione e farsi protagonisti di incontri più ravvicinati con la storia di persone e di popoli di oggi e di ieri – ha concluso la giornalista –. Ogni aiuto di solidarietà, per ogni forma di condivisione, parte da una maggior conoscenza dei fatti e delle prospettive di vita delle persone che ne sono coinvolte”.

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ZENIT Staff

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