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Dal 16 agosto 2005, e fino al 25 novembre, si svolge nel Regno Unito una grande consultazione popolare, voluta dal governo allo scopo di modificare la legge britannica sulla fecondazione artificiale. Ma certamente non in senso restrittivo.

La Human Fertility and Embryology Act (HFE Act) è stata una delle prime leggi ad autorizzare (o, se si vuole, a “regolamentare”) le tecniche di procreazione medicalmente assistita. È stata approvata dal Parlamento della Gran Bretagna nel 1990, cinque anni dopo la presentazione del Rapporto Warnock, in cui una commissione speciale affrontava varie questioni bioetiche legate alla fecondazione in vitro. Il problema dei “figli della provetta”, infatti, non era più eludibile: proprio in Gran Bretagna era nata nel 1978 la prima bambina concepita in vitro, Louis Brown, e molti bambini continuavano a nascere.

A giudicare dal suo approccio etico-scientifico, il Rapporto Warnock era apparso fortemente teso a promuovere le tecnologie riproduttive in nome del “progresso scientifico” e della “libertà di scelta” degli aspiranti genitori, mentre solo in seconda istanza veniva considerato il rispetto per la dignità e i diritti del concepito. Così, è stato proposto e accettato nel Rapporto l’ambiguo termine pre-embrione per indicare l’individuo umano nei primi quattordici giorni di vita dopo il concepimento (cfr. C. navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2005, pp. 53-57).

Il termine è stato aspramente criticato nella comunità scientifica, e tuttavia è rimasto nel linguaggio propagandistico, in quello politico e anche in certa divulgazione scientifica. Di fatto, la HFA Act ha recepito - all’articolo 3(4) - il divieto di manipolazione dell’embrione solo dopo la comparsa della stria primitiva, ovvero dopo il quattordicesimo giorno dalla fecondazione.

La legge inglese del 1990, in realtà, non entra molto nei dettagli. L’elemento fondamentale della normativa è l’istituzione di un’Authority che vigili sulla creazione, sulla conservazione e sull’utilizzo degli embrioni in vitro, nonché sull’uso dei gameti umani e sul ricorso ai donatori, valutando e rilasciando caso per caso il consenso a tali pratiche. Tale autorizzazione ( licence), di fatto, può essere concessa quasi in ogni circostanza.

I divieti assoluti, quelli che non possono essere valicati nemmeno dall’Authority sono infatti pochissimi: il trasferimento nelle vie genitali femminili di embrioni o di gameti non umani – art. 3(2) – , il trasferimento di embrioni umani in animali – art. 3(b) – , la clonazione per trasferimento di nucleo (in realtà superata dall’emendamento del 2001, che autorizza la clonazione cosiddetta “terapeutica”), la conservazione e l’uso degli embrioni dopo il quattordicesimo giorno – art. 3(a)(d) – .

L’assunto di fondo è che l’Authority, e non la legge, sia l’organo più adatto a giudicare la liceità delle tecnologie nella maggior parte dei casi. È stato così possibile approvare senza particolari riserve pratiche come la fecondazione artificiale eterologa, la maternità e la paternità per i single, la diagnosi preimplantatoria per la diagnosi precoce di eventuali patologie nel concepito.

Ma come era prevedibile tale diagnosi ha mostrato nel tempo risvolti problematici, producendo quegli inevitabili scivolamenti verso la discriminazione umana su base genetica giustamente deplorata nella sua essenza da tutti. La selezione era consentita inizialmente per poche patologie ritenute certe e mortali. Ma il quadro è gradualmente mutato, e già da alcuni anni è consentito ad esempio eliminare embrioni portatori di geni associati (peraltro saltuariamente) al cancro della mammella. Più di recente si è riconosciuto il diritto dei genitori all’eliminazione degli embrioni a rischio di sviluppare in età adulta la poliposi adenomatosa familiare, una malattia di tipo neoplastico ad insorgenza tardiva, associata solo nel 60% dei casi al gene incriminato.

Si potrebbe continuare. La direzione è palese: c’è nell’idea di “selezione” della vita umana una portata eugenetica dagli effetti eticamente e socialmente devastanti. È una tendenza inesorabilmente contenuta nel concetto di “scelta” di un figlio fra i tanti “disponibili”, in virtù di caratteristiche possedute o non possedute dai nascituri. Il progetto di revisione della HFE Act, in linea con questa pericolosa tendenza, vorrebbe addirittura introdurre la possibilità di scegliere il sesso del bambino, eliminando gli embrioni di sesso contrario. E neppure per ragioni mediche, cioè a causa di patologie legate ai cromosomi sessuali, ma per attuare un adeguato “bilanciamento familiare” o per motivi di natura “economica, culturale, religiosa”.

In pratica, si potrebbe decidere che dopo due figli maschi non è tollerabile un terzo maschio, o al contrario si potrebbe preferire un maschio ad una femmina. In Israele, dal maggio di quest’anno, la pratica è divenuta legale dopo il quarto figlio, mentre in alcuni stati americani la scelta del sesso del figlio (come di altre caratteristiche genetiche) può avvenire nella pressoché totale assenza di limitazioni. Dunque, la selezione del sesso dei concepiti in provetta sta diventando veramente uno dei big issues da cui il Regno Unito non vuole restare fuori.

Già il 24 marzo di quest’anno una commissione parlamentare britannica, la Science and Technology, aveva pubblicato, su richiesta del governo, un rapporto in cui segnalava i punti per i quali la HFE Act richiederebbe un “aggiornamento” (Great Britain Parliament, House of Commons - Science and Technolgy Committee, Human Reproductive Technologies and the Law , Fifth Report of Session 2004-05, 24 marzo 2005). Il dibattito etico all’interno della commissione era stato acceso: alcune proposte sostenute dal presidente, Ian Gibson, come quella di autorizzare la scelta del sesso negli embrioni in vitro, oppure l’uso di gameti artificiali per non ricorrere ad un donatore esterno (ad esempio nel caso di coppie omosessuali), o l’impianto di embrioni umani in animali a scopo di ricerca, avevano spaccato nettamente in due la commissione.

David King, direttore dell’associazione londinese Human Genetic Alert per il monitoraggio delle questioni sollevate dalla genetica umana, ha osservato: “Il tipo di etica presentato in questo rapporto non è capace di dire di no a niente e perciò non si può definire come etica. La sua inclinazione in un’unica direzione scredita la commissione e la causa politica che sta appoggiando”. In particolare, “la selezione del sesso non dovrebbe essere permessa, dato che trasforma i bambini in oggetti di consumo e aprirà la porta ad un futuro di bambini su misura”.

Ian Gibson non si scompone: “Esistono poche prove per sostenere che il fatto di permettere ai genitori la scelta del sesso dei figli possa avere un effetto squilibrante nella società. Se è un rischio concreto in paesi come la Cina – dove è frequente l’aborto selettivo delle bambine – in Gran Bretagna non esistono indizi che possano verificarsi situazioni simili”.

Può darsi che il diritto alla selezione del sesso, in Gran Bretagna, riesca a non urtare la sensibilità di molte femministe “evolute”; tuttavia non può sfuggire all’annichilimento del senso etico che dalle profondità della coscienza ingiunge di difendere e onorare ogni vita umana nascente, anche la più debole e la meno fortunata, rifuggendo la folle tentazione di popolare il mondo di designer babies.

E alle coscienze della gen te il Parlamento inglese chiede ora di esprimersi – via posta o via e-mail – su questa (e su altre) questioni di etica della riproduzione. In un brillante articolo pubblicato all’indomani del rapporto della Commissione Scienza e Tecnologia, Adriano Pessina esprimeva preoccupazione per lo stato “dell’immaginario collettivo, che sembra sempre più incapace di cogliere il confine tra desiderare, progettare, pretendere e discriminare” (A. Pessina, Sembra una scelta neutra. Invece solo barbara, “Avvenire”, 25 marzo 2005).

E continuava: “C’è una perfetta simmetria tra la pretesa di programmare figli sani e belli e l’insofferenza per coloro che non sono all’altezza delle nostre aspirazioni. Il desiderio può facilmente diventare intolleranza”.

Il Parlamento italiano ha riflettuto su tali conseguenze, quando ha emanato la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita che vieta ogni forma di selezione degli embrioni umani, anche a scopo apparentemente “terapeutico”, nella consapevolezza che la malattia e la sofferenza non si sconfiggono eliminando i malati e i sofferenti.

Ci ha riflettuto anche il popolo italiano, prima dei referendum abrogativi del 12 e 13 giugno scorsi, scegliendo di non prendere in considerazione modifiche alla legge 40 in senso eugenetico e selettivo.
Auguriamoci che anche il popolo britannico, sebbene confuso dalla consuetudine con una sostanziale de-regolamentazione della fecondazione artificiale, sappia smascherare l’ipocrisia e l’insensatezza nascosta nelle parole di chi sostiene che “un po’ più” di selezione non farà male.

Quello della selezione del sesso, in realtà, è l’ennesimo tentativo, da parte di un mondo “vecchio”, di far cadere con un colpo di spugna i pilastri stessi della giustizia sociale e il riconoscimento del valore inviolabile della vita umana.