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Se non si interverrà rapidamente, Terri Schiavo morirà in modo atroce, per disidratazione, fra i morsi della fame e della sete. E non in un deserto, o in uno dei più poveri paesi in via di sviluppo, ma in un ospedale della Florida. Da venerdì 18 marzo sono state sospese per lei, completamente disabile, l’alimentazione e l’idratazione artificiali (A/I), in seguito all’ennesima sentenza giudiziaria pronunciata sul caso.
Terri non è sottoposta ad alcuna terapia, è autonoma nelle sue fondamentali funzioni biologiche e, contrariamente a quanto ripetuto con martellante insistenza dai media, non c’è alcuna “spina” da staccare. Tuttavia, non è in grado di nutrirsi e dissetarsi da sola, e deve essere perciò aiutata.
Se morirà, verrà forse sedata per non soffrire, e per questo si dirà magari che la sua è stata un morte “dolce”. Ma la necessità di un’eventuale sedazione terminale non sarà causata dalla malattia, ma dalla deliberata decisione di uccidere la paziente in maniera tanto crudele da richiedere poi la sedazione (cfr. R. Johansen, Terri’s Starvation Commences: Terri’s “Exit Protocol” Begins, in Thrown away , 18 marzo 2005, ).
La vicenda di Terri, fino a poco tempo fa scarsamente conosciuta dall’opinione pubblica fuori degli Stati Uniti, ha ora fatto il giro del mondo. Eppure, la sofferta storia di Theresa Marie Schindler Schiavo inizia ben quindici anni fa, nel 1990, quando la donna, allora ventiseienne, è stata colpita da ictus. Sull’episodio e sulle sue cause i particolari scarseggiano. Si sa tuttavia per certo che la mancanza di flusso sanguigno al cervello è stata tale da compromettere in modo netto, probabilmente irreparabile, le sue funzioni neurologiche.
Da allora, vive in una condizione critica, di cui sono state date varie definizioni e valutazioni. A livello clinico, inizialmente si parlò di sindrome locked-in, cioè di quella condizione per cui il paziente è consapevole ma incapace di comunicare con gli altri, chiuso in un mondo interiore che non dà segno di sé, al punto da apparire all’esterno come un coma. Si parlò successivamente di coma vero proprio, mentre più di recente si è imposta l’idea che Terri sia in “stato vegetativo”.
Lo stato vegetativo è una condizione clinica non terminale, distinta sia dal coma che dalla morte cerebrale (o dallo stato locked-in), che può durare anche molti anni, ed è caratterizzata da vari sintomi: nessuna evidenza di autocoscienza o consapevolezza; nessuna evidenza di comportamenti volontari o finalizzati; nessuna evidenza di linguaggio; presenza di cicli sonno-veglia; presenza di sufficienti funzioni troncoencefaliche e ipotalamiche; incontinenza; presenza di riflessi dei nervi cranici e spinali; funzioni cardiocircolatorie autonome; termoregolazione normale; stato di incoscienza anche ad occhi aperti (G.L. Gigli, Lo stato vegetativo “permanente”: oggettività clinica, problemi etici e risposte di cura, “Medicina e Morale”, 2002/2, pp. 207-228).
Già dalle poche immagini mostrate in questi giorni da tutti i canali televisivi sembrerebbe chiaro che lo stato vegetativo non corrisponde alla situazione di Terri: abbiamo visto infatti una donna che segue con lo sguardo le persone attorno a lei, che sorride, che risponde agli stimoli, che mostra di riconoscere i suoi familiari, che emette suoni. Pare quindi più corretto definirla semplicemente una grave disabile fisica e psichica.
Le sue reali condizioni inducono a chiedersi se non possa recuperare parte delle sue funzioni psicomotorie con un’adeguata terapia riabilitativa, che finora le è stata negata. È di questo parere, ad esempio, uno dei medici che ha studiato il caso, William Hammesfahr, candidato nel 1999 al premio Nobel in Medicina e Fisiologia, che ha formulato per Terri una diagnosi precisa: hypoxic encephalopathy, encefalopatia ipossica (cfr. S. Ertelt, Terri Schiavo Can Still be Rehabilitated, Nobel Prize-Nominated Doctor Says, in Lifenews.com, 7 marzo 2005).
Le difficoltà vengono dal suo tutore legale, il marito Michael Schiavo, che da anni insiste perché la donna venga lasciata (o fatta?) morire attraverso la sospensione dell’A/I, sostenendo che questa sarebbe stata la volontà espressa verbalmente dalla moglie quando ancora capace di intendere e di volere. Di parere diametralmente opposto sono i genitori di Terri, che affermano con fermezza il valore incommensurabile della vita anche nell’handicap, che ribadiscono di avere sempre condiviso tali convinzioni con la figlia, anche a motivo della loro fede cattolica, e che hanno continuato per tutto il tempo a mantenere con Terri un’intensa relazione affettiva. Hanno pertanto intentato cause su cause al marito per impedirgli di prendere la decisione eutanasica.
Molte sentenze si sono succedute in quindici anni, per lo più a favore del mantenimento in vita della donna. Nel 1997, nel 2001 e nel 2003, a fronte di sentenze giudiziarie pro-eutanasia, il verdetto era stato rovesciato prima che la “condanna” di Terri giungesse a pieno compimento. In particolare il 24 aprile 2001, l’A/I erano state sospese per due giorni, quindi reintegrate per subentrate nuove evidenze, mentre il 15 ottobre 2003 Terri era rimasta senza sostegno vitale addirittura per sei giorni, finché il 21 ottobre un intervento d’urgenza del governatore della Florida Jeb Bush, aveva emanato la Terry’s Law, con cui l’A/I venivano ripristinate (cfr. A comprehensive Timeline and Archive of the Terri Schindler-Schiavo case, in www.terrisfight.com).
Non è bastato. Dietro Michael Schiavo si muove chi ha perfettamente chiaro cosa sia in gioco, oltre e “più” della vita di Terri: un enorme cambiamento etico e culturale. Non a caso, il legale del marito di Terri Schiavo è George Felos, avvocato e guru new age attivissimo sul fronte del “diritto a morire”. Questo caso, in effetti, potrebbe avere per gli Stati Uniti lo stesso valore della famosa sentenza Roe vs. Wade, che nel 1973 introdusse l’aborto volontario negli USA. Per il sistema giuridico americano, infatti, le sentenze hanno una valenza esemplare, costituiscono cioè un precedente autorevole che sostanzialmente autorizza un analogo giudizio in ogni parte dell’Unione, e dunque equivale praticamente ad una legge, anche in assenza di un pronunciamento federale.
Di più: l’eventuale legalizzazione dell’eutanasia negli Stati Uniti avrebbe una formidabile ricaduta a livello mondiale, soprattutto in un momento storico in cui l’amministrazione di questo Paese ha assunto – sia in politica interna che nelle sedi internazionali – posizioni coraggiose, in controtendenza rispetto alla dominante cultura utilitaristica e materialista: sull’aborto, sull’educazione alla castità, le cellule staminali, la clonazione umana.
Per la vita di Terri si sono espressi e hanno agito in vari modi il Presidente e il Congresso degli Stati Uniti, nella speranza che le pressioni esercitate convincessero il giudice a tornare sui suoi passi.
Ora – salvo nuovi capovolgimenti della situazione grazie all’encomiabile tenacia del Congresso e del presidente Bush – il “tubo” dell’A/I è stato tolto, e per Terri sono iniziate nuove sofferenze, quelle causate dalla sete e dalla fame.
Su questo punto i fautori dell’eutanasia obiettano: in determinate condizioni terminali non ci sarebbero più gli stimoli di fame e sete, né la capacità di provare dolore; dunque, la sospensione dell’alimentazione e idratazione sarebbe una “morte indolore”, rientrerebbe nella “buona morte” che si dovrebbe chiedere anticipatamente per sé con i testamenti di vita o “pietosamente” per i propri cari in caso di incapacità e in mancanza di volontà scritte.
Tali affermazioni non hanno però una conferma nella letteratura scientifica. Anzi, studi recenti affermano che anche nel caso di stato cosiddetto “vegetativo” – che non è stato diagnosticato per Terri Schiavo – permane la capacità di provare dolore (cfr. ad esempio S. Rifkinson Mann, Legal consequences and ethical dilemmas of pain perception in persistent vegetative states, in J. Health Law. 2003/36(4), pp. 523-548). Il malessere causato dalla mancanza di liquidi può dunque essere patito perfino dai soggetti in stato vegetativo, e a maggior ragione dai malati che hanno un maggiore livello di reazioni vitali. Tale forma, purtroppo sempre più praticata, di sospensione delle cure non è affatto una “risposta” alle sofferenze dei malati e dei disabili, ma la volontaria induzione di una morte crudele.
Inoltre, alimentazione e idratazione non rappresentano in alcun modo terapie gravose che “prolungano” inutilmente le sofferenze dei morenti, ma cure normali che mantengono la vita contribuendo piuttosto a sollevarne la sintomatologia dolorosa, senza prolungare il processo naturale del morire e senza costituire perciò forme possibili di accanimento terapeutico.
In questo senso, il Santo Padre, nel Discorso ai partecipanti al congresso su “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas” (Roma, 17-20 marzo 2004) rileva come “la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso sarà pertanto da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze”.
Colpiscono dunque le parole del padre di Eluana Englaro, una giovane donna italiana da quattordici anni in stato vegetativo, che ha rilasciato in questi giorni interviste in cui afferma che l’alimentazione e idratazione impedirebbero alla figlia di morire “naturalmente”. Non vi è nulla di innaturale nel dare cibo e acqua – anche per via artificiale – ad un paziente.
Il padre di Eluana argomenta dicendo che, fino a qualche decina di anni fa, chi era nelle condizioni di sua figlia poteva “morire in pace”, e non prolungare la sua agonia indefinitamente. Premesso che Eluana non è in agonia, e che la morte per fame e per sete non si può definire una morte “pacifica”, qualche decina di anni fa erano molte le cause di morte che oggi i progressi della medicina hanno consentito di eliminare. Un tempo un diabetico non doveva sottoporsi per tutta la vita a terapia insulinica, né un malato di cancro sottoporsi a gravosi interventi chirurgici e a pesanti cicli di chemioterapia, perché le loro patologie li conducevano rapidamente alla morte.
Perché è unanimemente riconosciuto che tali interventi terapeutici sono positivi, mentre nel sostegno vitale si vede un affronto alla “dignità” umana? Forse, la sofferenza insopportabile di cui parlano i fautori dell’eutanasia non è quella dei malati, per i quali le cure palliative rettamente intese possono fare molto, rendendo gestibile qualunque situazione di dolore, ma quella di chi li guarda, di chi li assiste; di chi, pur nella salute, vede nella sofferenza dell’uomo un richiamo troppo diretto alla propria finitezza, al proprio limite, e ultimamente alla propria morte.
Il diritto di morire sbandierato dai movimento pro-eutanasia è frutto di una logica distorta , che ha confuso la libertà e la responsabilità dell’uomo nel dirigere le proprie azioni con la “volontà di potenza” che illude l’uomo di essere padrone e signore della vita, al punto da decidere i tempi e i modi della propria morte. Nell’eutanasia tale decisione diventa una pretesa sul medico, trasformato in esecutore della volontà suicida del paziente, e sulla società che deve legittimare una simile pretesa.
È un inno al più sfrenato individualismo, in cui le decisioni individuali divengono un muro contro cui ogni valore morale e ogni motivazione razionale si infrangono senza scalfirlo. L’ipocrisia del “diritto individuale” si rivela tuttavia non appena si consideri che cosa accade in un mondo in cui l’eutanasia è ritenuta un diritto: si esegue anche su chi questo diritto non l’ha chiesto, come Eluana Englaro, come i neonati malformati della clinica olandese di Groningen. E come Terri Schiavo. Nessuno può sapere esattamente che cosa desideri in questo momento, ed è pertanto ragionevole, nel dubbio, optare per una scelta di vita. Ma quand’anche ci fosse l’evidenza di una volontà eutanasica, come nel caso di un paziente cosciente che chieda di morire, tale richiesta di morte non può essere soddisfatta.
Nessun essere umano può avere tanto potere su un altro (o su se stesso) da infliggere la morte a piacimento, come mezzo per ottenere un beneficio di qualunque tipo, fosse anche l’eliminazione della sofferenza. Nel bene della vita umana è contenuto qualcosa di misterioso e di ulteriore rispetto a ciò che vediamo e tocchiamo, qualcosa che ci fa arrestare di fronte a simili abusi, e che spinge a cercare altre vie per rispondere alla sofferenza umana. È la via dell’accompagnamento alla morte, dell’aiuto nel morire invece del più sbrigativo aiuto a morire, dell’apertura al senso dell’esistenza.
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]