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Sono cinque i possibili “passaggi genitoriali” programmabili per ottenere un bambino: madre biologica, madre surrogata, madre sociale o legale, padre biologico e padre legale. Chi nasce è un sopravvissuto in mezzo ai pericoli e alle difficoltà che comportano le tecniche di riproduzione artificiale, e che quasi certamente hanno impedito ad altri suoi fratelli e sorelle, meno fortunati, di giungere alla fine della gravidanza, per scoprire così una serie di altre spiacevoli sorprese che la vita, fin dall’inizio, riserva ai piccoli “figli dell’eterologa”.
Il bambino, infatti, sarà biologicamente figlio di uno solo (o di nessuno) della coppia che ha assunto il compito di allevarlo. Ammesso che si tratti di una coppia. La fecondazione artificiale eterologa, infatti, ha sullo sfondo le rivendicazioni di chi, single con “velleità genitoriali”, desidera comunque procreare, generando così “orfani programmati”. Come in altri campi della bioetica, c’è chi tenta di giustificare tale eventualità con il fatto che situazioni familiari mono-genitoriali esistono comunque (per vedovanza, per divorzio o separazione, per abbandono, per lontananza), senza che ciò abbia influito pesantemente sullo sviluppo dei figli.
A parte la difficoltà di stabilire quanto possa essere stata “pesante” la mancanza di un genitore per un figlio, resta il fraintendimento radicale per cui, di fronte all’esistenza di fatto di strutture familiari a rischio, si auspica l’introduzione di principio di tali strutture potenzialmente dannose (cfr. C. Navarini, Aspetti etici della riproduzione post-mortem, ZENIT, 10 ottobre 2004).
Perché? La causa più diretta è l’incapacità tutta moderna di opporsi alla pressione dei desideri, che, rinnegata l’esistenza di valori morali oggettivi, restano l’unico (utilitaristico) criterio di valutazione dell’agire umano. «Quando una persona o una coppia – di qualsiasi genere – non può avere figli, aumenta la voglia di averli», si legge nel sito internet Girodivite (Pina La Villa, Fecondazione assistita: uno scrupolo di coscienza in più, 11 febbraio 2004).
All’uomo tecnologico non occorre altro: basta il desiderio e la possibilità di realizzarlo, indipendentemente dalle possibili conseguenze negative e dalla violazione dei più basilari principi etici. Come osservano Di Pietro e Sgreccia, «[l]a fecondazione eterologa non è a servizio della vita di colui che dovrebbe essere chiamato all’esistenza: è a servizio del desiderio degli adulti, un desiderio che pur di essere soddisfatto non esita a ferire il bambino […] e a privarlo della conoscenza di una parte delle sue origini (M.L. Di Pietro – E. Sgreccia, Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto, La Scuola, Brescia 1999, p. 167).
Infatti, se vige la regola dell’anonimato del donatore, il bambino sarà condannato ad ignorare per sempre la persona che possiede la metà del suo patrimonio genetico, e di cui porterà con sé per tutta la vita (e in parte tramanderà alla sua prole) i geni, e con essi l’aspetto, forse il temperamento e il ritmo di sviluppo psico-fisico, così come una parte importante della sua storia sanitaria: «[Il] personale sanitario […] in questa società artificiale si dovrà trovare a fare i conti con un’altra situazione molto impegnativa:quella di avere pazienti senza il 50% o il 100% della propria storia familiare da poter raccontare. Si risparmieranno questi sanitari di fare l’anamnesi familiare del paziente: ma quante volte una diagnosi verrà ritardata proprio perché quella determinata patologia a carattere familiare non è stata neanche sospettata?» (ibid. , p. 176).
In alcuni casi, invece, sono i genitori legali a preferire il silenzio, privando così il figlio del legittimo diritto di sapere la verità sulla propria origine, nascondendogli eventualmente informazioni genetiche importanti per la sua salute ed esponendolo al rischio di contrarre matrimonio con consanguinei, dal momento che il seme dei donatori è normalmente utilizzato per più fecondazioni artificiali.
La moltiplicazione delle figure genitoriali nelle prime fasi della vita umana ha portato il linguista americano George Lakoff, nel suo libro Women, Fire, and DangerousThings, a prendere il termine mother come tipico esempio di concetto “metaforico”, cioè di categoria che non ha una definizione propria (in termini aristotelici potremmo dire un’essenza), ma una serie di caratteristiche più o meno centrali che configurano un plesso di relazioni semantiche tutte comprese nel concetto di madre (G. Lakoff, Women, Fire, and DangerousThings. What Categories Reveal about the Mind, The University of Chicago Press, Chicago and London 1987, pp. 74-76).
Quel che è interessante nella visione lakoviana è che tale insieme non corrisponde soltanto al modo in cui “parliamo” delle madri, ma alla nostra comprensione e conoscenza della realtà madre (G. Lakoff – M. Johnson, Metaphors We Live By, The University of Chicago Press, Chicago and London 1980). Anzi, per la vacuità, secondo Lakoff, del problema della corrispondenza fra realtà e pensiero, è opportuno accontentarci della nostra percezione della realtà (ad esempio quella espressa dal concetto metaforico madre) e non cercare altro, come la verità oggettiva, gli universali, la legge naturale.
Stiamo assistendo, in altre parole, ad una “riscrittura” culturale della maternità e della paternità, che da incrollabili capisaldi della società e del mondo dei valori sono divenuti termini relativi, accessori, da confinarsi nel privatissimo regno delle scelte individuali. Questa condizione aggrava e porta all’estremo i rischi di fraintendimento della procreazione già insiti in ogni fecondazione artificiale, ed esplode nei possibili prevedibili “usi” dell’eterologa: le unioni omosessuali, la procreazione “solitaria” (dei single), l’affitto d’utero.
Ma le aberrazioni insite nella fecondazione artificiale eterologa non si estinguono se a richiederla è una coppia di sposi, invece che un singolo. Infatti, la negazione della realtà dell’uomo che sta alla base della fecondazione artificiale, e in particolare della fecondazione eterologa, si traduce in uno snaturamento della famiglia stessa. È sotto gli occhi di tutti che la famiglia, sganciata dalle sue dimensioni costitutive, è sempre più spesso vittima e bersaglio di attacchi spietati, in cui viene talora descritta relativisticamente come una delle unioni possibili fra persone, talora addirittura identificata come “luogo patogeno” in cui si originano le peggiori forme di violenza.
Vari studi che riguardano le adozioni mostrano che il figlio senza un “passato” abbisogna di molto aiuto e attenzione, in quanto sviluppa più facilmente sensi di insicurezza e di sfiducia in se stesso (Brodzinsky, D.M., Smith, D.W., & Brodzinsky, A.B., Children’s adjustment to adoption: Development and clinical issue, Sage Publication, Thousand Oaks 1998). Pare siano addirittura più colpiti, in questo senso, i figli abbandonati dei figli orfani, in quanto questi ultimi possono compiere un cammino di elaborazione del lutto, in cui nonostante i genitori non ci siano, a volte fin dalla nascita, permane vivo nella memoria propria o altrui il loro ricordo, che può restituire senso alla loro mancanza.
Il figlio abbandonato, invece, sa che da qualche parte colui e/o colei che lo hanno generato vivono indipendentemente da lui, esistono forse nell’indifferenza al suo destino, e forse con altri figli e figlie che gli somigliano. Sono pensieri contrastanti di appartenenza e non appartenenza che esercitano un influsso soprattutto nella delicata fase adolescenziale, in cui nascono le domande s
u se stessi, in cui si ricerca la propria identità e si inizia a progettare il proprio futuro.
Se la fecondazione eterologa è gravida di rischi aggiuntivi, rispetto la fecondazione omologa, per il figlio, non lascia indifferenti neanche i “genitori”. Negli Stati Uniti, che hanno già una lunga storia di consenso all’eterologa, si sono moltiplicati i casi di disconoscimento di paternità a seguito di eterologa con seme di donatore. Qualche padre legale, che credeva di essere ben preparato ad un figlio che fosse “suo” anche senza affinità genetica, ha trovato il nuovo nato troppo “diverso” da lui, quasi un estraneo, e troppo chiuso il rapporto fra il bimbo e la “vera” mamma, quasi che la cosa in fondo non lo riguardasse.
Bisogna ammettere che molti padri biologici hanno impressioni analoghe nei primi tempi dopo la nascita di un figlio, a causa del legame strettissimo, a volte un po’ esclusivo, che può crearsi fra madre e bambino. È una difficoltà superabile, ma nei “padri per eterologa” la percentuale di chi si reputa definitivamente escluso è più alta. In generale, l’aver concepito attraverso la fecondazione eterologa espone la coppia a minor resistenza psicologica di fronte alle difficoltà che prevedibilmente si presentano lungo il cammino di una famiglia, e che spesso coinvolgono direttamente o indirettamente questioni legate al rapporto con i figli, alla loro educazione, alle loro reazioni.
Quando d’altra parte è la donna a ricorrere ad una “donatrice”, si profilano nuove complicazioni, legate alla gestazione del bambino. Una donna che deve ricorrere ad ovuli altrui non ha naturalmente le condizioni per portare avanti una gravidanza, dunque deve sottoporsi a cure ormonali pesanti che sopperiscano ai suoi limiti fisici, con tutti i disagi e i rischi che ciò comporta.
Un esempio emblematico è costituito dai casi di maternità tardive di donne già in menopausa, che con gravi rischi per sé e per il bambino, scelgono e ottengono di essere madri “gestazionali” e “sociali” in un età in cui sarebbe più adeguato il ruolo di nonne. A questo proposito, il 17 gennaio 2005 è stata diffuso il caso della più anziana “mamma” di cui si abbia notizia, la rumena Adriana Iliescu, che ha partorito una bimba prematura di 1,4 kg, a otto mesi di gestazione, unica sopravvissuta di una gravidanza trigemellare (Cfr. È un segno di progresso riuscire a diventare mamma a 67 anni? , ZENIT, 19 gennaio 2005).
Dall’altra parte, per converso, vi sono le madri “surrogate” che prestano unicamente il loro utero, per lasciare poi alla nascita il bambino partorito alla madre “committente”. Di Pietro e Sgreccia osservano che si parla di «maternità e paternità “frammentate, dissociate, abortite”: ma credo che nessuno di questi termini sia in grado di far comprendere, ad esempio, l’entità dello strazio che deve provare una mamma quando – anche se vi era stato un precedente accordo – cede il proprio bambino, un bambino che ha immaginato per nove mesi, che ha accudito e alimentato con il suo sangue» (M.L. Di Pietro, E. Sgreccia, Procreazione assistita…cit., p. 169).
Sono così accaduti vari casi come quello, divenuto noto, del 1985, in cui due coniugi americani avevano “commissionato” la gestazione del “loro” figlio ad una donna, che era madre “genetica” e “gestazionale” del concepito, e che dopo il parto aveva rifiutato di rispettare l’accordo di consegna del piccolo, ottenendo dopo una rocambolesca vicenda giudiziaria verdetto favorevole dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
In tutto ciò vi sono bambini trascinati nell’esistenza e gestiti come prodotti da banco, eppure ancora colmi alla nascita di quello stupore e di quella fiducia che caratterizza tutti i bambini. È toccante la condizione di fiduciosa debolezza del neonato: piccoli uomini che vengono al mondo ignari di tutto, bisognosi di tutto, senza avere scelto alcuna delle condizioni in cui si trovano a vivere: né il luogo di nascita, né la famiglia, né la situazione economica e sociale, né le disposizioni degli altri nei suoi riguardi. Qualcuno nasce già orfano, qualcuno già abbandonato, o già malato, o ancora troppo piccolo. Spesso proprio a causa di coloro (i “genitori”?) che lo hanno richiesto, e a cui il bimbo si rivolge con una fiducia incondizionata.
Eppure anche il neonato (come il feto, o l’embrione) ha dei diritti, dei diritti umani fondamentali che non sempre gli vengono riconosciuti, perfino nell’opulento mondo occidentale. La Chiesa cattolica si è sempre occupata di questi diritti dei bambini e delle loro famiglie, diritti che riguardano tutti, poiché tutti vengono al mondo piccoli e senza difese, bisognosi di una famiglia.
È allora chiara l’esemplarità della posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che nella Donum Vitae afferma: «Il figlio ha diritto ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato nel matrimonio», nel quale un uomo e una donna, per l’esclusiva e indissolubile unione che li caratterizza, acquisiscono «il diritto esclusivo a diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro», e trovano in ciò «una conferma e un completamento della loro donazione reciproca» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sul rispetto della vita nascente e la dignità della procreazione Donum Vitae, 1987, parte II).
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]