Com’è cambiato il sistema informativo della Santa Sede (Parte II)

Intervista con Joan Lewis, giornalista del Vatican Information Service (VIS)

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CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 14 dicembre 2004 (ZENIT.org).- In questa intervista concessa a ZENIT Joan Lewis racconta del suo ultimo viaggio in Quatar, dove ha preso parte alla Conferenza Internazionale sulla Famiglia, e di come attraverso un programma radiofonico sia riuscita a far filtrare nel chiuso di una prigione il messaggio di speranza della Chiesa.

Statunitense e con una più che ventennale esperienza come giornalista vaticanista, la Lewis afferma di sentirsi come una “missionaria” in ciò che fa, e di avere una profonda coscienza del suo lavoro di evangelizzazione, nel far giungere la voce del Vaticano fino a quei Paesi come la Russia, Cuba o gli ex Paesi comunisti che per lunghi anni ne sono stati privati.

La prima parte dell’intervista è stata pubblicata questo lunedì.

Il suo lavoro l’ha portata a conoscere tutto il Vaticano e più recentemente a recarsi a Doha, nel Qatar. Cosa hanno significato per lei queste esperienze?

Joan Lewis: Negli anni ho viaggiato molto per conto di o con delegazioni della Santa Sede, e quello in Qatar, in occasione della Conferenza Internazionale sulla Famiglia di Doha, è stato il viaggio più recente e sicuramente uno dei più interessanti.

Ho partecipato alla conferenza sulla famiglia che, nella Dichiarazione finale di Doha, ha avuto risultati complessivamente positivi per ciò che interessava la Chiesa – si è espressa a favore della famiglia e del matrimonio tradizionale, ha riaffermato la dignità umana, eccetera. Ha anche ripreso e riaffermato i punti principali contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani –l’obiettivo principale che la conferenza si era posta.

Affascinanti – da un punto di vista personale e professionale – sono state le altre conferenze ad alto profilo alle quali ho partecipato, come la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Popolazione al Cairo nel 1994, quella sulle Donne a Pechino nel 1995, quella ad Istanbul sull’Ambiente nel 1996, etc.

La cosa più sorprendente per me è stato vedere la Chiesa Universale in azione – il microcosmo espresso dai membri delle delegazioni. A Pechino, la delegazione della Santa Sede era composta da 22 membri in rappresentanza di 14 nazionalità e di 9 lingue, così da riuscire a comunicare con chiunque! I delegati – e le ONG cattoliche – erano così coinvolti nel loro lavoro, nella Chiesa, in Giovanni Paolo II, nel nostro messaggio…

Ho visto la stessa passione in molta, molta gente che ha partecipato alla Conferenza di Doha.

Doha è stata estremamente gratificante perché, invece di vedere i Paesi opporsi l’uno all’altro in base alle diverse idee sulla famiglia, si sono viste 139 Nazioni sostenere la Dichiarazione di Doha!

La Dichiarazione, a proposito, è stata presentata all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 6 dicembre, giorno in cui l’ONU celebrava il 10° anniversario dell’Anno Internazionale della Famiglia. Gli organizzatori della Conferenza di Doha hanno anche chiesto che venisse inclusa nella lista dei documenti ufficiali delle Nazioni Unite.

Cosa ha significato in particolar modo questo evento per lei, una giornalista laica rappresentante della Santa Sede?

Joan Lewis: Non mi sono vista come una donna, o come un’Americana. Mi sono vista semplicemente come una persona che ha avuto la benedizione di lavorare per la Santa Sede e per ciò in cui crede. Non chiamerei nemmeno le questioni che stavamo affrontando problemi delle donne, perché la famiglia ha a che fare con ognuno di noi.

Era toccante trovarsi con tanta gente che non si inseriva nella categoria di ‘essere’ uomo o ‘essere donna’. Per molti di noi si trattava di ‘essere’ Chiesa. E’ davvero fantastico.

Come lei ha sottolineato in precedenza, la conferenza tendeva a puntare l’attenzione sui ruoli tradizionali dell’uomo e della donna all’interno del contesto familiare. Com’è stata presentata la questione dei matrimoni omosessuali?

Joan Lewis: Non ho assistito a tutte le decine e decine di discorsi che si sono susseguiti, né li ho letti, perché c’erano molti eventi che si svolgevano simultaneamente. Da quanto ho capito, comunque, questo argomento non è stato il punto centrale della conferenza e non gli è stata dedicata alcuna sessione.

Il cardinal Alfonso López Trujillo, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia, ha tuttavia sollevato il problema durante uno splendido discorso sulla complementarietà della maternità e della paternità.

Ha affermato che è “necessario opporsi alla ‘sessualità poliforme’, sottolineando che il riconoscimento delle unioni di fatto, che costituiscono una finzione legale, proponendo unioni omosessuali come alternativa al matrimonio ed inventando nuove ed inaccettabili nozioni di matrimonio al punto da accettare l’adozione di bambini, sono gravi segni di disumanizzazione. Non è una questione di discriminazione: vuol dire proteggere i coniugi e i bambini”.

I “matrimoni” omosessuali sono visti come una minaccia per la società, per i matrimoni tradizionali? Per la maggior parte dei presenti a Doha sicuramente sì.

Con quale entusiasmo è stata accolta la Dichiarazione finale di Doha?

Joan Lewis: Quando la Dichiarazione di Doha è stata letta all’assemblea durante la seconda ed ultima giornata, il documento è stato applaudito moltissimo perché riaffermava la famiglia e i valori familiari tradizionali, il fatto che ogni vita umana è sacra e deve essere protetta. Ci sono parti del documento che sembrava fossero state scritte qui a Roma.

Ho chiesto ad uno degli oratori ed organizzatori della conferenza, Bill Saunders del Consiglio per la Ricerca sulla Famiglia, quali speranze e quali aspettative avesse dopo Doha e come si sentisse alla fine della conferenza. Mi ha detto: Volevamo una dichiarazione forte, a favore della famiglia a nome dei due terzi dell’umanità che sostengono la famiglia naturale ed è quello che abbiamo ottenuto.

E’ stato un viaggio emozionante, in cui abbiamo incontrato tante gente diversa, e quello che abbiamo visto nella conferenza e che ne è venuto fuori è stato un enorme sostegno alla famiglia e al rafforzamento dei legami familiari, e la convinzione che i Governi dovrebbero essere coinvolti nel sostegno alle famiglie quando ne hanno bisogno a livello economico e molto altro. E’ stato commovente.

E’ stato una grande opportunità di dialogo, come abbiamo testimoniato attraverso le presentazioni della “forza motrice” che stava dietro alla conferenza – Sheikha Moza, l’affascinante, dinamica moglie musulmana dell’emiro del Qatar. Proponendo un centro universale per la ricerca sulla famiglia, la signora ha espresso la propria speranza che la Dichiarazione di Doha non solo venga adottata dalle Nazioni Unite, ma venga trasformata in azione pratica della quale possa beneficiare il mondo intero.

Lei ha fatto anche molti commenti a questo proposito nel suo popolarissimo programma su 105-live di “Radio Vaticana”, “Joan knows”. Ci potrebbe dire cos’è e qual è il suo pubblico?

Joan Lewis: Il programma, che dura circa 15 minuti, può essere ascoltato a Roma sulla “Radio Vaticana” (105FM) ed è ritrasmesso in tutto il mondo attraverso varie stazioni radiofoniche. E’ disponibile anche ogni sabato sul sito web della “Radio Vaticana” (www.105live.vaticanradio.org). “Joan knows” è aggiornato ogni sabato, anche se le tre edizioni precedenti rimangono sul web.

La maggior parte del programma è costituita dai fatti più importanti accaduti in Vaticano durante la settimana. Gli ultimi due minuti, molto divertenti, sono dedicati ad un botta e risposta.

Le doma
nde in genere arrivano via e-mail anche se alcune sono arrivate anche telefonicamente. Sono stata perfino fermata per la strada da gente che ascolta regolarmente il programma e che aveva una domanda da pormi!

Le domande riguardano moltissimi argomenti e vanno dal perché il Papa veste di bianco al perché il Vaticano ha una fattoria, o a dove si possono trovare più informazioni sul significato e la storia della corona dell’Avvento.

Non mi occupo di filosofia o di teologia, ma delle curiosità del Vaticano. E’ divertente sapere ciò che interessa la gente al di là delle grandi dottrine diffuse dalla Santa Sede. Se non conosco la riposta ad una domanda la troverò! E’ una sfida e l’adoro!

Se non sbaglio, il programma è seguito da molta gente, dai cardinali ai detenuti…

Joan Lewis: Devo dirle che questo – il suo riferimento alle prigioni – mi ricorda uno dei periodi più belli della mia vita.

Quando ho risposto ad una lettera di un detenuto in un carcere dello Stato di New York che assisteva il cappellano della prigione e chiedeva del materiale sulla Città del Vaticano, le basiliche di Roma, non avrei mai potuto immaginare cosa ne sarebbe derivato.

Ho inviato rosari e libri, santini ed un ritratto di Madre Teresa e, dopo aver corrisposto con il cappellano, il diacono Tom, abbiamo cominciato a scriverci delle e-mail. Non poteva avere un computer con e-mail in prigione, per cui stampava le lettere che io inviavo al suo computer di casa e le appendeva ai muri del suo ufficio.

Ha anche registrato “Joan knows” ed ha portato la registrazione in carcere per farla ascoltare ai detenuti – riscuotendo un discreto successo –, compresi gli impiegati della prigione e le guardie! Le notizie volano, e presto la maggior parte dei prigionieri voleva sapere cosa stesse accadendo ai Cattolici! Il gruppo del rosario del lunedì sera ha visto aumentare i suoi frequentatori, la gente, che per anni non aveva voluto sapere niente della Chiesa, ha iniziato a parlare con il diacono e così via.

Molti uomini hanno detto al diacono che per la prima volta nella loro vita si sentivano collegati alla Chiesa universale! Il diacono Tom mi ha raccontato la storia di qualcuno degli uomini ed alcuni di loro hanno iniziato a scrivermi lettere – completamente stupefacenti, con storie che scaldano il cuore.

Mi sono piaciute moltissimo, mentre a loro apparentemente piacevano le mie “lettere da Roma” – storie sulla vita nel Vaticano, sulla vita di Roma, sugli eventi speciali per la Chiesa, sull’albero di Natale e sulla scena della Natività, sulle celebrazioni della settimana di Pasqua, sui concerti speciali alla presenza del Santo Padre, eccetera.

Ho cominciato a chiamarli “Gli Uomini di Orleans”, dal nome della struttura in cui vivono, e quando prima o poi scriverò un libro su di loro ho deciso che userò questo titolo.

E’ un ricchissimo scambio di esperienze splendide, ma è una storia con notizie buone e cattive. Le cattive riguardano il fatto che, con la modifica dello staff, negli ultimi mesi nella cappellania sono cambiate molte cose e niente è più come sei mesi fa – i detenuti hanno meno accesso all’assistenza spirituale, al rosario, eccetera –, ma sto pregando che tutto ritorni com’era. E’ stato fatto tanto bene. C’era molta gente felice, gente che cresceva nella propria fede, gente che chiedeva aiuto e gente che aiutava. Il diacono Tom era in cima alla lista. La vita di quegli uomini si è arricchita, ed anche la mia.

La buona notizia è che molti dei detenuti che ho avuto modo di conoscere attraverso le loro lettere e il diacono Tom sono usciti di prigione. Alcuni mi scrivono e si stanno comportando bene. Il primo che ha scritto al VIS chiedendo del materiale sta passando un periodo difficile ed ha bisogno delle nostre preghiere.

Considerando questa storia, si nota che lei spesso fa più di quello che dovrebbe fare. Quanto di ciò che fa lo considera una missione?

Joan Lewis: Questa che lei mi ha posto è una domanda bellissima e appropriata, perché fin dal primo giorno, da quando ho scritto la prima parola di una storia per il Vatican Information Service, mi sono accorta di essere una missionaria.

Stavo evangelizzando, stavo portando fuori il mondo di qui. Questo è diventato estremamente importante quando le nostre parole hanno cominciato a penetrare in Paesi che ne erano stati a lungo privati – la Russia, Cuba, gli ex Paesi comunisti.

Ogni giorno mi rendo conto dell’importanza di ciò che scrivo. Non sono io l’ispirazione; lo è il Santo Padre, o chi sta parlando. Bisogna però usare le parole giuste, prendere le citazioni giuste per creare un arazzo spettacolare dei pensieri, delle parole, del messaggio che viene trasmesso.

E’ una responsabilità enorme e sapere che siamo la voce ufficiale della Santa Sede insieme alla Sala Stampa ci spinge ad essere non solo obiettivi, ma anche assolutamente accurati.

Ha qualche aneddoto particolare da raccontarci che, a suo avviso, potrebbe riflettere la sua esperienza in Vaticano?

Joan Lewis: Ci sono così tante storie, così tanti momenti unici, così tanti eventi importanti che dovrei scrivere un libro. Devo comunque dire che per me è stata una benedizione essere stata in presenza del Santo Padre molte volte, ognuna delle quali speciale ed unica.

Non dimenticherò mai il mio primo incontro con Giovanni Paolo II, il 7 dicembre 1985. Dopo la Messa nella sua cappella privata, ho avuto il privilegio di incontrarlo con un gruppo ristretto di altre persone.

Volevo onorare le sue abilità linguistiche parlandogli in Inglese, così quando il suo segretario mi ha presentato ed io ho risposto al saluto del Papa, gli ho detto – non avevo idea di cosa mi stesse succedendo – che la mia vita a Roma stava per finire perché sarei tornata negli Stati Uniti di lì a pochi giorni.

Non appena ho detto quelle parole, si è sporto verso di me, mi ha preso per il braccio e mi ha detto in Italiano “Cosa?”. Allora ho capito come doveva aver interpretato le parole “la mia vita stava per finire”, per cui sono passata immediatamente all’Italiano per spiegargli cosa intendevo dire!

E’ sembrato sollevato, ma quando guardo quella foto con il Papa che mi tocca il braccio ricordo sempre la sua preoccupazione per me!

Un altro evento importante è accaduto durante l’Anno Giubilare, quando ho ottenuto un’udienza con Giovanni Paolo II per mio fratello Bill, sua moglie Anna e i loro cinque figli, dai 16 ai 31 anni. Il segretario del Santo Padre mi ha chiesto se avrei avuto piacere a presentare personalmente ognuno dei miei nipoti al Papa!! Me lo ricordo come se fosse accaduto cinque minuti fa.

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ZENIT Staff

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