MILANO, venerdì, 2 luglio 2004 (ZENIT.org).- Una teoria economica della felicità è possibile. Lo sostiene un gruppo di economisti, fra i quali figura anche Luigino Bruni, promotore della cosiddetta “Economia di Comunione”, sorta in seno al Movimento dei Focolari.
Luigino Bruni è ricercatore di economia politica dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa principalmente di storia del pensiero economico e dei fondamenti etici e antroplogici del discorso economico
Presso l’editrice Città Nuova ha pubblicato recentemente un volume dal titolo “L’Economia, la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere”. Riportiamo di seguito il testo dell’intervista rilasciata a ZENIT.
Ci spieghi cos’è l’Economia di Comunione?
Luigino Bruni: L’Economia di Comunione (EdC) è un progetto che coinvolge, oggi, circa 800 imprese di molti paesi del mondo, alle quali si propone di vivere l’attività economica come un’espressione della comunione. In particolare, le imprese che aderiscono al progetto si impegnano a vivere nei vari momenti della vita d’impresa (rapporti interni ed esterni, con il fisco, ecc.) in uno stile di vita improntato alla giustizia e, appunto, alla comunione.
Una volta conseguiti gli utili, questi vengono messi in comune secondo tre scopi: la ricapitalizzazione per lo sviluppo dell’azienda, la diffusione della cultura del dare e dell’amore (senza una cultura nuova non si può neanche pensare una economia di comunione), e per le persone che si trovano in necessità economica, gli indigenti, che si trovano in contatto con la comunità del Movimento dei Focolari. L’EdC, infatti, è stata pensata e lanciata da Chiara Lubich, fondatrice e presidente dei Focolari, nel 1991 in Brasile.
Questo tipo di economia può anche essere avviata da una coppia così come da un singolo individuo, oppure è solamente destinata alle comunità?
Luigino Bruni: L’EdC in senso stretto è un progetto che rivolge imprese, non individui o famiglie. La sua cultura e la sua concezione economica è però di portata più universale, perché non è altro che un tentativo di applicare la logica evangelica anche alla gestione dei beni economici.
Per questo, anche una famiglia può ispirarsi alla cultura della comunione nel proprio rapporto con i beni e la ricchezza economica. Se poi guardiamo da vicino la vita di una famiglia, ci accorgiamo che le è molto congeniale la filosofia dell’EdC.
Essa infatti utilizza le proprie risorse economiche esattamente per gli stessi scopi dell’EdC: dopo aver provveduto al proprio sostentamento e agli investimenti tipici di una famiglia (abitazione, vestiario, vitto, ecc.), le risorse vengono destinate alla formazione culturale (pensiamo alle spese nell’istruzione, di vario tipo), e a coloro che non percepiscono un reddito: bambini e ragazzi, e persone che possono trovarsi in situazione di necessità (malati). L’EdC infatti si basa sulla cultura del dare, del dono e della reciprocità, e la famiglia, quando funziona, è proprio l’icona naturale di questi principi.
Quali sono i paradossi della felicità?
Luigino Bruni: Il principale paradosso messo in luce negli ultimi anni dagli studi è che nelle società a reddito avanzato l’aumento di reddito individuale non porta più ad un aumento di benessere; anzi, alcuni studi sembrano mostrare un rapporto inverso tra ricchezza e felicità; e questo è un paradosso, se pensiamo all’enfasi posta dalla società dei consumi sull’aumento del PIL e del reddito come indicatore di benessere.
Ma il paradosso più profondo sottostante questo paradosso della felicità, ha a che fare con quanto detto sopra: i beni non condivisi con altri raramente diventano ben-essere. E la società attuale tutta centrata sul consumo dell’individuo senza o contro gli altri, non riesce più a trasformare i beni in ben-essere, cadendo nella sindrome di Re Mida: muoriamo di fame (di senso e di felicità), pur circondati da oro.
È possibile una teoria economia della felicità?
Luigino Bruni: In tanti vi lavorano, e anche io cerco di dare il mio contributo, perché mi interessano molto i paradossi di una ricchezza che invece di farci star meglio ci fa cadere in trappole di infelicità, dalle quali non usciamo soprattutto perché non ci accorgiamo di esserci dentro (tipico l’esempio del lavoro: lavoriamo troppo, ma non riusciamo a fermarci un attimo per rendercene conto).
La teoria della felicità in economia se serve a “risvegliare” molti di noi addormentati dal comfort della società dei consumi, farebbe già una cosa meritevole. E questo perché, come sostiene il nobel per l’economia Amartya Sen, “siamo infelici, non liberi, ma non sappiamo di esserlo”.
L’economia è importante, la felicità di più. Come si possono conciliare?
Luigino Bruni: Si abbinano facilmente: da una parte, come detto, l’aumento di ricchezza può portare molta infelicità, dall’altra è molto difficile vivere una vita buona quando non si possiede da che nutrirsi e vivere decentemente.
Ecco perché il primo nome della scienza economica è stato a Napoli “Scienza della Pubblica felicità”, per indicare che lo scopo dell’economia non è aumentare i beni economici; ma aumentarsi se e nella misura in cui portano ad un maggior benessere individuale e collettivo.
Ecco quindi il rapporto con le prime domande, cioè con l’EdC: se l’ultimo scopo dell’economia è il ben-essere (e non il ben-avere), allora non stupisce che un progetto economico, che ha capito questa realtà grazie alla spiritualità di comunione che lo ispira, faccia dei beni del profitto e della ricchezza non il fine (lo “scopo di lucro”) ma il mezzo per una vita buona, una vita felice. Ecco quindi come io vedo la possibilità per abbinare felicità ed economia.