Un Sinodo per l’unità tra Oriente e Occidente (II)

di Antonio Gaspari

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ROMA, giovedì, 28 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Per don Nicola Bux, docente di Liturgia orientale e di Teologia dei sacramenti alla Facoltà Teologica Pugliese, presente al Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente in qualità di delegato nominato da Papa Benedetto XVI, l’assise episcopale svoltasi dal 10 al 24 ottobre in Vaticano è stata un successo e porterà molti frutti.

Don Bux ha insegnato a Gerusalemme e Roma, è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi e consulente della rivista teologica internazionale “Communio”, nonché consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.

ZENIT lo ha intervistato sui temi affrontati nel Sinodo. La prima parte dell’intervista è stata pubblicata questo mercoledì 27 ottobre.

Come procede il dialogo con le Chiese Ortodosse?

Don Nicola: In generale il rapporto è buono e di condivisione. Soprattutto in Medio Oriente siamo all’ottimo vicinato. Nello stesso tempo però ci sono delle discrepanze. Molti ortodossi non riconoscono il battesimo cattolico e ribattezzano i cristiani in occasione dei matrimoni misti. Si tratta di un brutto fenomeno che crea difficoltà tra le comunità.

E’un problema, ma è risibile di fronte al fenomeno dei cristiani che abbandonano quelle terre, quindi per certi versi l’urgenza di una unità tra i cristiani dovrebbe essere considerata prima e più importante della rivendicazione della proprie autonomie.

E’ noto che nel Medio Oriente i cristiani insieme rappresentano una percentuale minima, circa il 2% dei residenti. Inoltre i cristiani sono sparsi e divisi. In questo contesto il Sinodo è stato una grande occasione per far capire che  prima viene l’unità della Chiesa cattolica e poi vengono le affermazioni identitarie che tra l’altro oggi nella società globale rischiano di sparire se non sono legate a un’identità forte. In sostanza l’essere cattolico aiuta ad andare oltre l’Oriente e l’Occidente, ma aiuta ad essere fino in fondo orientali e occidentali.

Quali problemi sono stati sollevati al Sinodo circa le relazioni con il mondo giudaico ed il mondo islamico?

Don Nicola: Il rapporto con il mondo giudaico si muove nell’alveo delle buone relazioni avviate con il Concilio Vaticano II, anche se sappiamo bene che all’interno del mondo giudaico ci sono gruppi più aperti e gruppi più refrattari al dialogo. Complessivamente il rapporto è buono. E’ chiaro che là dove il giudaismo è maggioritario come in Israele la Chiesa cattolica chiede libertà religiosa, e non è sempre facile. Per esempio è noto che in Israele essere un ebreo cristiano è discriminante. Pochi sanno che in Israele ci sono ebrei cristiani e c’è una comunità con un Vicariato per i cristiani di lingua ebraica. Si tratta di fedeli in gran parte provenienti dall’ebraismo. Il fenomeno persiste ma non è riconosciuto dalle autorità israeliane.

Per quanto riguarda il rapporto con l’islam, i cristiani sono da 1300 anni in mezzo ai musulmani, vivono in convivenza con più o meno diritti. In Libano siamo cittadini allo stesso livello, è l’unico stato in cui siamo riconosciuti a livello di Costituzione, ma ci sono Paesi come l’Arabia Saudita dove non c’è alcun riconoscimento. Anzi peggio. C’è una persecuzione costante nei confronti di sacerdoti che celebrano e praticano la fede cattolica.

La situazione è complicata dal fatto che l’islam non ha un magistero unico e non esiste una posizione unica del rapporto con i cristiani. Alcuni sostengono che non esista l’islam moderato, c’è un islam e basta che viene applicato e interpretato a seconda di persone e luoghi.

Così ogni comunità deve rapportarsi e misurarsi con la maggiore o minore disponibilità dell’interlocutore. Ci sono Emirati che permettono di costruire delle chiese pur limitando la libertà di culto, e ci sono luoghi come la Giordania dove ci sono le scuole e le associazioni caritative cattoliche, con un notevole riconoscimento della presenza cristiana.

La varietà di comportamenti chiede ai cristiani di avere il coraggio della propria identità, di non avere paura, di dichiarare la propria fede senza alcuna imposizione e senza venire a contesa con nessuno, come diceva San Francesco ai suoi frati.

Gli stessi frati francescani che da oltre sette secoli sono in quelle terre sono la dimostrazione vivente di come si possa essere se stessi e nello stesso tempo essere umilmente a servizio di una realtà che è altra da quella cristiana.

L’esempio dei francescani deve essere molto considerato dai movimenti. Ci si deve incarnare nei luoghi senza arroganza, con grande umiltà e capacità di ascolto, e al momento dovuto offrire anche il proprio tributo di sangue. I francescani hanno avuto oltre 5000 martiri in oltre 750 anni di presenza in quelle terre.

E’ vero che i francescani sono più protetti, dopo che San francesco incontrò il Saladino?

Don Nicola: Il mito di San Francesco che fa i patti con Saladino è stato chiarito dagli storici. San Francesco non è andato per fare il dialogo interreligioso. Era andato perchè voleva convertire il sultano, non lo voleva fare con la forza o con le armi, però voleva parlare con lui di Gesù Cristo, e forse lo ha fatto, anche se su questo episodio le fonti non sono molto esaurienti.

Il sultano rimase colpito dalla mitezza di San Francesco, anche lui era un uomo aperto alla ragionevole riflessione. Ci fu un dialogo, non si realizzò molto, ma nella regola San Francesco dice ai frati di parlare di Gesù Cristo e che quando il Signore mostra battezzeranno e annunceranno la fede con grande minorità.

Questa è una grande lezione che i movimenti ecclesiali devono imparare e seguire, l’umiltà l’obbedienza, la semplicità nel far conoscere e servire il Signore Dio nostro.

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ZENIT Staff

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