Prove di civiltà dell'amore (Prima parte)

Veronika Ottrubay racconta l’opera di carità dell’Arche Internationale

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ROMA, martedì, 17 aprile 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la testimonianza che Veronika Ottrubay ha dato nel corso dell’incontro “Il Papa e i volontari cattolici europei”, svoltosi a Roma il 10-11 novembre 2011 per iniziativa del Pontificio Consiglio Cor Unum in occasione dell’Anno Europeo del Volontariato.

L’Arche Internationale (http://www.larche.org/) lavora a stretto contatto con le persone con disabilità mentale. Conta 150 comunità che operano in 36 Paesi che accolgono quasi 4000 persone con un handicap mentale.

La seconda parte della testimonianza della Ottrubay verrà pubblicata domani 18 aprile.

***

di Veronika Ottrubay

Ho la gioia di vivere all’Arche Internationale (http://www.larche.org/) da 26 anni.

Attraverso le persone con handicap mentale talvolta grave ho scoperto un percorso di vita che mi ha trasformato e ha trasformato molti assistenti. Vorrei dunque parlarvi di quanto scopriamo all’Arche, che considero un tesoro per la Chiesa e per l’umanità.

Per cominciare, desidero parlarvi di Edith. Edith é arrivata all’Arche all’età di 18 anni. Era portatrice di un grave handicap che la rendeva completamente dipendente. Non parlava, non camminava e a causa di un’emiplegia e di una forte scoliosi viveva raggomitolata su stessa.

Portava dentro di sé una grande violenza, che agiva soprattutto contro se stessa. Sbatteva la testa contro il muro e se la percuoteva con i pugni. La sua violenza era un grido – un grido d’angoscia ma anche un grido che veicolava un messaggio:  «C’é qualcuno che vuole accogliermi e ascoltarmi, rispettarmi e trattarmi come una persona ?» Certo, Edith aveva bisogno di professionisti specializzati – medici, psichiatri, ecc. – che la curassero e ci spiegassero l’origine della sua sofferenza, che le prescrivessero le medicine e le cure necessarie. Ma aveva soprattutto bisogno di assistenti che rispondessero al suo appello, le manifestassero la gioia di conoscerla e di vivere con lei, e la aiutassero così a scoprire la sua persona, al di là della sua violenza e del suo handicap.

Poco a poco, Edith ha stretto legami di amicizia con molti assistenti. Ha maturato fiducia in sé stessa e la consapevolezza di poter contribuire alla costruzione della comunità. Quando si assentava dal focolare, ne sentivamo tutti la mancanza. Ha quindi scoperto la gioia del ritrovarsi.

Rimasi sconvolta dal mio primo incontro con Edith. Ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a un mostro. Edith mi faceva paura. Con il passare del tempo, ho imparato a capirla. Ho conosciuto una persona che aveva bisogno di essere amata e che ha saputo accogliermi per come sono, senza giudicarmi.

C’erano momenti in cui Edith si percuoteva e gridava incessantemente. Questo scatenava in me sentimenti di violenza e di odio. Un giorno dovetti accompagnarla in quello stato a fare la siesta. Fui costretta ad abbandonare la sua stanza di corsa perché, spinta oltre i miei limiti, sentivo che avrei voluto ucciderla. In quel momento mi resi conto che ero capace di schiacciare un debole. Il suo grido e la sua angoscia mi disturbavano moltissimo. Ho dovuto farmi carico dei suoi sentimenti per sapere accompagnare Edith con verità e giustizia.

La comunità mi ha aiutato a parlare e a rendermi conto di tutto quello che avevo dentro. Ho scoperto dietro la mia violenza e la mia capacità di odiare, la bambina ferita che è in me. I miei genitori mi hanno trasmesso amore, ma anche la loro difficoltà ad amare, la loro impazienza, i loro giudizi affrettati, nonché un’educazione severa e moralizzante.

Ho preso coscienza dei miei limiti, delle mie ferite e del mio handicap. Anch’io avevo bisogno degli altri. Questo passaggio di verità è stato difficile ma mi ha permesso di intraprendere un cammino verso la libertà. Mi sono liberata delle pressioni che esercitavo su me stessa per sembrare una donna priva di debolezze, invulnerabile e perfetta. Ho scoperto che siamo tutti legati gli uni agli altri da un’umanità comune. (Edith) è rimasta all’Arche per 22 anni.

Ci ha lasciato un lunedì mattina, dopo essere stata circondata tutta la notte da numerosi assistenti. Le persone con un handicap vivono nel presente – un presente relazionale. L’essenziale sta nella quotidianità condivisa, nella gioia di vivere il presente, nel sapersi amati e rispettati. Questo presente dipende senz’altro da chi vive con loro, ma dipende anche da loro stesse.

La trasformazione degli assistenti

I volontari vengono all’Arche per motivi diversi : vogliono impegnarsi nel sociale o desiderano condurre una vita evangelica, o entrambe le cose, oppure sono spinti da altre motivazioni umane e personali. Spesso essi arrivano con il desiderio di fare del bene a persone con un handicap.

Scoprono così le sofferenze e le ingiustizie inflitte da una società che disprezza e le mette da parte quelle persone. Impegnandosi affinché i portatori di handicap vengano riconosciuti come persone che hanno un dono da offrire alla società, alla Chiesa, essi si impegnano per la pace.

La vita nelle nostre comunità non è sempre facile. Poco a poco, attraverso la vita in comune, gli assistenti si misurano con le loro stesse difficoltà relazionali, la loro impazienza, il loro ego invadente, il loro bisogno di essere apprezzati e di essere i migliori, la loro paura del fallimento, la loro sfiducia nei confronti della vita e degli altri.

Si rendono anche conto del fatto che loro stessi possono essere fonte di conflitto a causa delle loro rigidità e delle loro chiusure.

La vita di Edith, di Agnès, di Marie-José e di tanti altri ci mostrano che l’uomo è chiamato a raggiungere la maturità e la pace interiore. L’assistente si trova quindi a fare i conti con la propria crescita, ad interrogarsi sul senso dello umano e su cos’è la maturità.

Scopriamo che il debole ci chiama ad andare oltre noi stessi, ad abbandonare la comodità delle nostre certezze e convinzioni per accoglierlo così com’è, per capirlo e compiere un percorso insieme, un percorso di vita e di verità. Sono tante le testimonianze di assistenti che giungono con le loro conoscenze, la loro formazione, e le loro competenze per fare del bene ai cosiddetti poveri e scoprono che sono queste persone a donare loro qualcosa di radicalmente nuovo e inaspettato.

*

Per ogni approfondimento http://www.corunum.va/corunum_it/iniziative/eventi.html.

Sul convegno in oggetto Il Pontificio Consiglio Cor Unum ha anche pubblicato un libretto che può essere richiesto all’indirizzo di Via della conciliazione 5,00153 Roma.

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ZENIT Staff

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