Lo svolgimento del seder pasquale

Alla scoperta di un rituale familiare ebraico che fa da “retroterra” all’istituzione dell’Eucaristia

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Nel Vangelo di Giovanni leggiamo che il Verbo di Dio si è fatto carne. Ciò implica che il divino ha in qualche modo assunto tutte le coordinate dell’umano: lo spazio, il tempo, il linguaggio, la cultura. Infatti Gesù è nato circa 2000 anni fa, quando era Imperatore Augusto, a Betlemme, in seno al popolo ebraico. Tutto ciò ha ovviamente influito sulla sua persona, nella misura in cui l’ambiente può influire sul vissuto di qualsiasi altra persona. Possiamo quindi dire che delle categorie culturali di questo popolo sono totalmente imbevuti i suoi pensieri e le sue azioni.

Se stiamo attenti, in ogni pagina del Vangelo possiamo scorgere il back-ground socio culturale ebraico di Gesù e questo, lungi dall’essere un esercizio di erudizione, ci permette di penetrare ancora più in profondità il Mistero dell’Incarnazione e di comprendere più pienamente la figura di Gesù ed il suo messaggio.

Vogliamo soffermarci su un episodio fondamentale della vita di Gesù, l’istituzione dell’eucaristia, per leggerlo alla luce della sua cultura ebraica. Gesù ha istituito l’eucaristia in un contesto di liberazione. Infatti, nella notte in cui Gesù fu tradito, egli, come ogni buon israelita, stava festeggiando con i suoi discepoli il memoriale della fuga dalla schiavitù degli egiziani. Questo memoriale avveniva, e avviene tutt’ora presso gli ebrei di oggi, consumando determinati cibi che avevano altrettanti significati durante una speciale cena chiamata “seder (=ordine) pasquale”.

Sulla tavola troviamo questi alimenti: il pane azzimo, 4 calici di vino, il sedano da intingere nell’acqua, le erbe amare, la salsa karoset e l’agnello.

Partiamo dal pane azzimo. Si tratta di pane senza lievito. Racconta il libro dell’esodo che gli ebrei fuggirono di notte, andavano di fretta e non avevano tempo di far lievitare il pane. Fu così che prepararono delle focacce fatte solo di farina, di acqua e di sale.

I calici di vino sono 4 e ognuno di essi ha un preciso significato: col primo si consacra la festa della Pasqua, col secondo si ricorda come Dio ha liberato gli ebrei dall’Egitto, col terzo si ricorda l’agnello che fu immolato per segnalare all’angelo della morte le case degli ebrei, col quarto si ringrazia Dio per avere eletto il popolo di Israele fra tutti i popoli della terra.

Un bastoncino di sedano viene intinto nell’acqua e le goccioline che cadono sulla tavola ricordano le lacrime versate in Egitto.

Un analogo triste significato hanno le erbe amare: ricordano l’amarezza del tempo in cui gli ebrei erano schiavi.

La salsa karoset, fatta di nocciole, fichi secchi, arance e miele, ricorda l’impasto che serviva per fabbricare i mattoni.

L’agnello (oggi sostituito da molte comunità ebraiche col pollo, ma non a Roma) ricorda quello ucciso dagli ebrei per segnalare le proprie case all’angelo della morte. Il sacrificio di questo animale permetteva agli israeliti di salvarsi.

Dopo aver visto quali sono i cibi che vengono consumati durante la cena di Pasqua, vediamo come si svolge il seder pasquale cercando di fissare l’attenzione su quei passaggi di questo rito che sono finiti nella narrazione evangelica.

Il capo famiglia beve dal primo calice e dà così inizio alla festa. Ci si lava poi le mani. Ognuno lo fa per conto suo, perché in questa festa di liberazione, nessuno deve essere servo di un altro. Vediamo qui un primo intervento, diremmo di “discontinuità” di Gesù. Infatti Cristo, così come ci racconta il Vangelo di Giovanni, prese un catino e, avvoltosi un panno attorno alla vita, si mise a lavare i piedi dei discepoli. Possiamo immaginare tutta la meraviglia e lo stupore degli apostoli davanti a questo gesto di Gesù, compiuto in un momento così particolare per la religione ebraica. In maniera chiara ed inequivocabile, ancora di più per un lettore ebreo, Gesù si rende servo dei suoi discepoli.

Viene poi intinto il sedano nell’acqua, le gocce che cadono ricordano le lacrime versate in Egitto. Delle tre focacce di pane azzimo, si prende quella di mezzo e la si spezza in due. Si beve poi dal secondo calice e si narra come Dio abbia liberato il popolo ebraico dalla schiavitù degli egizi. Ci si lava ancora una volta le mani.

Il capo famiglia prende poi il pane azzimo, lo spezza e lo distribuisce ai commensali. È a questo punto della cena che Gesù ha detto le parole “Questo è il mio corpo”. Quel pane, che già aveva un significato positivo di libertà e di liberazione, acquista in maniera ancora più forte questo significato, divenendo il corpo di colui che libera dal peccato e dalla morte.

Si intinge poi nella salsa karoset. È a questo punto che Gesù ha smascherato il traditore. Seguiamo la narrazione di Giovanni. Gesù ha detto durante la cena che qualcuno lo avrebbe tradito, provocando un momento di gelo fra i suoi discepoli. Pietro ha così chiesto a Giovanni che sedeva vicino a Gesù di domandargli chi fosse il traditore. E così fece appoggiandosi sul petto di Gesù. Il maestro disse a Giovanni che il traditore era colui al quale avrebbe passato un boccone intinto (nella salsa karoset).

Dopo tutti questi “antipasti”, si passa alla cena vera e propria, quando si mangia l’agnello, in ricordo di quello che si è sacrificato per la salvezza degli ebrei. Dopo aver mangiato la carne arrostita. Si beve il terzo calice, quello della redenzione. È a questo punto che Gesù ha detto le parole: “Questo è il mio sangue”. Ne abbiamo un eco nella formula di consacrazione, quando il sacerdote dice: “Dopo la cena (cioè dopo aver consumato l’agnello), allo stesso modo prese il calice…”.

Si brinda poi col quarto calice, quello col quale si ringrazia Dio per aver scelto il popolo ebraico fra tutti i popoli della terra e si conclude la cena recitando un inno. Di questa preghiera ci parlano i vangeli quando ci dicono “E dopo aver recitato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi” (Cfr. Mc 14,26).

C’è un quinto calice, riservato al profeta Elia, che secondo una tradizione ancora viva presso gli ebrei, sarebbe dovuto venire prima dell’avvento del Messia. È a questo calice che probabilmente Gesù allude quando nell’orto degli ulivi prega dicendo “Padre, allontana da me questo calice”.

Per approfondimenti o informazioni: Àncora Online

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Nicola Rosetti

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