Papa Francesco, Circo Massimo, 3 giugno 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

“Li udiamo proclamare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”

Meditazione di padre Raniero Cantalamessa al Circo Massimo — Testo completo

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Proponiamo le parole rivolte da padre Raniero Cantalamessa OFMCap ai partecipanti alla veglia di preghiera di Pentecoste al Circo Massimo, organizzata sabato 3 giugno a Roma in occasione del 50° del Rinnovamento Carismatico Cattolico.
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Dagli Atti degli apostoli, capitolo secondo:

“Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: «Che cosa significa questo?» (Atti 2, 5-13).

Questa scena si rinnova oggi tra noi. Siamo venuti anche noi “da ogni nazione che è sotto il cielo” e siamo qui per proclamare insieme “le grandi opere di Dio”.
C’è un importante messaggio da scoprire in questa parte del racconto di Pentecoste. Fin dall’antichità si è capito che l’autore degli Atti – cioè, in primo luogo, lo Spirito Santo! – con questa insistenza sul fenomeno delle lingue ha voluto farci capire che a Pentecoste avviene qualcosa che rovescia quello che era avvenuto a Babele. Questo spiega perché il racconto di Babele di Genesi 11 è inserito tradizionalmente tra le letture bibliche della vigilia di Pentecoste.
I costruttori di Babele non erano, come si pensava un tempo, degli empi che intendevano sfidare Dio, una specie di corrispettivo dei titani della mitologia greca. No, erano degli uomini pii e religiosi. La torre che volevano costruire era un tempio alla divinità, uno di quei templi a terrazze sovrapposte, chiamate ziggurat, di cui restano ancora rovine in Mesopotamia.
Dov’era allora il loro peccato? Ascoltiamo cosa dicono tra loro nel mettersi all’opera: “Dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Martin Lutero fa un’osservazione illuminante a proposito di queste parole:
“Costruiamoci una città e una torre”: costruiamo per noi – non per Dio […]. “Facciamoci un nome”: facciamolo per noi. Non si danno premura che sia glorificato il nome di Dio, essi sono preoccupati di fare grande il proprio nome”[1].
In altre parole, Dio è strumentalizzato; deve servire alla loro volontà di potenza. Pensavano, secondo la mentalità del tempo, che offrendo sacrifici da una altezza maggiore potevano strappare alla divinità vittorie sui popoli vicini. Ecco perché Dio è costretto a confondere le loro lingue e mandare all’aria il loro progetto.
Questo porta di colpo la vicenda di Babele e dei suoi costruttori vicinissima a noi. Quanta parte delle divisioni tra i cristiani era dovuta al segreto desiderio di farci un nome, di elevarci al di sopra degli altri, di trattare con Dio da una posizione di superiorità rispetto agli altri! Quanta parte era dovuta al desiderio di farsi un nome, o di farlo a quello della propria Chiesa, più che a Dio! Di qui la nostra Babele!
Passiamo ora a Pentecoste. Anche qui vediamo un gruppo di uomini, gli apostoli, che si accingono a costruire una torre che va dalla terra al cielo, la Chiesa. A Babele si parlava ancora una sola lingua e a un certo punto nessuno comprende più l’altro; qui parlano tutti lingue diverse eppure tutti capiscono gli apostoli. Perché? È che lo Spirito Santo ha operato in essi una rivoluzione copernicana.
Prima di questo momento anche gli apostoli erano preoccupati di farsi un nome e per questo discutevano spesso “chi tra loro fosse il più grande”. Ora lo spirito Santo li ha decentrati da se stessi e ricentrati su Cristo. Il cuore di pietra è andato in frantumi e al suo posto batte il “cuore di carne” (Ez 36, 26). Sono stati “battezzati nello Spirito Santo”, come aveva promesso Gesú prima di lasciarli (Atti 1, 8), cioè completamente sommersi dall’oceano dell’amore di Dio effuso su di loro (cf. Rom 5,5).
Sono abbagliati dalla gloria di Dio. Il loro parlare in lingue diverse si spiega anche con il fatto che parlavano con la lingua, con gli occhi, con il volto, con le mani, con lo stupore di chi ha visto cose che non si possono ridire. “Li udiamo proclamare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. Ecco perché tutti li comprendono: non parlano più di se stessi, ma di Dio!
Dio ci chiama ad attuare nella nostra vita la stessa conversione: da noi stessi a Dio, dalla piccola unità che è la nostra parrocchia, il nostro movimento, la nostra stessa Chiesa, alla grande unità che è quella dell’intero corpo di Cristo, anzi dell’intera umanità. È il passo ardito che papa Francesco sta spingendo noi cattolici a fare e che i rappresentanti di altre Chiese qui convenuti mostrano di volere condividere.
Già san’Agostino aveva messo in chiaro che la comunione ecclesiale si realizza per gradi e può avere diversi livelli: da quello più alto che consiste nel condividere sia i sacramenti esterni che la grazia interiore dello Spirito Santo, a quello meno completo che consiste nel condividere lo stesso Spirito Santo. San Paolo abbracciava nella sua comunione “tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1 Cor 1,2). Una formula che dobbiamo forse riscoprire e tornare a valorizzare. Essa ci permette di estendere la nostra comunione anche ai fratelli Ebrei messianici.
Il fenomeno pentecostale e carismatico ha una vocazione e una responsabilità particolari, nei confronti dell’unità dei cristiani. La sua vocazione ecumenica appare ancora più evidente, se ripensiamo a ciò che avvenne all’inizio della Chiesa. Come fece il Risorto per spingere gli apostoli ad accogliere i pagani nella Chiesa? Dio mandò lo Spirito Santo su Cornelio e la sua casa nello stesso modo e con le stesse manifestazioni con cui lo aveva inviato all’inizio sugli apostoli. Sicché a Pietro non rimase che tirare la conclusione: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17). Al concilio di Gerusalemme, Pietro ripeté questo stesso argomento: “Dio non ha fatto discriminazione tra noi e loro” (At 15, 9).
Ora noi abbiamo visto ripetersi sotto i nostri occhi questo stesso prodigio, su scala, questa volta, mondiale. Dio ha effuso il suo Spirito Santo su milioni di credenti, appartenenti a quasi tutte le denominazioni cristiane e, affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, lo ha effuso con le stesse identiche manifestazioni, inclusa la più singolare che è il parlare in lingue. Anche a noi non resta che tirare la stessa conclusione di Pietro: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi, chi siamo noi per continuare a dire di altri credenti cristiani: non appartengono al corpo di Cristo, non sono dei veri discepoli di Cristo”?

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Dobbiamo vedere in che cosa consiste la via carismatica all’unità. San Paolo ha tracciato alla Chiesa questo programma: “Fare la verità con la carità” (Ef 4, 15). Quello che dobbiamo fare non è scavalcare il problema della fede e delle dottrine, per ritrovarci uniti sul fronte dell’azione comune dell’evangelizzazione. L’ecumenismo ha sperimentato, ai suoi inizi, questa via e ne ha costatato il fallimento. Le divisioni riemergono ben presto, inevitabilmente, anche sul fronte dell’azione. Non dobbiamo sostituire la carità alla verità, ma piuttosto tendere alla verità con la carità; cominciare ad amarci per meglio comprenderci.
La cosa straordinaria, circa questa via ecumenica basata sull’amore, e che essa è possibile subito, è tutta aperta davanti a noi. Non possiamo “bruciare le tappe” circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza, nelle sedi appropriate. Possiamo però bruciare le tappe nella carità, ed essere uniti, fin d’ora.
E l’unico “debito” che abbiamo gli uni verso gli altri (cf. Rom 13, 8). Le differenze non possono essere una scusa per non farlo. Cristo non ci ha comandato di amare solo quelli che la pensano come noi, che condividono interamente il nostro credo. Se amate solo costoro, ci ha ammonito, che fate di speciale che non facciano anche i pagani? (cf. Mt 5, 46).
Noi possiamo accoglierci l’un l’altro perché quello che già ci unisce è infinitamente più importante di quello che ancora ci divide. Ci unisce la stessa fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; Gesù Signore, vero Dio e vero uomo; la comune speranza della vita eterna, il comune impegno per l’evangelizzazione, il comune amore per il corpo di Cristo che e la Chiesa.
Ci unisce anche un’altra cosa: la comune sofferenza e il comune martirio per Cristo. In tante parti del mondo, i credenti delle diverse Chiese stanno condividendo le stesse sofferenze, sopportando lo stesso martirio per Cristo. Essi non vengono perseguitati e uccisi perché cattolici, anglicani, pentecostali o altro, ma perché “cristiani”. Agli occhi del mondo noi siamo già una cosa sola, ed è una vergogna se non lo siamo davvero, anche nella realtà.
Come fare, in concreto, per mettere in pratica questo messaggio di unità e d’amore? Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:

“La carità è paziente…
La carità non si vanta…
La carità non manca di rispetto…
Non cerca solo il suo interesse [sottinteso: ma anche quello delle altre Chiese] Non tiene conto del male ricevuto [sottinteso: da altri cristiani, ma piuttosto di quello fatto ad essi] ( l Cor 13,4 ss).”

“Beato quel servo – diceva san Francesco d’Assisi in una delle sue Ammonizioni – che si rallegra del bene che Dio fa per mezzo degli altri, come se lo facesse per mezzo suo”. Noi possiamo dire: Beato quel cristiano che è capace di rallegrarsi del bene che Dio fa per mezzo di altre Chiese, come per il bene che fa per mezzo della propria Chiesa.

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Il profeta Aggeo ha un oracolo che sembra scritto per noi in questo momento della storia. Il popolo d’Israele è appena ritornato dall’esilio, ma anziché ricostruire insieme la casa di Dio, ognuno si mette a ricostruire ed abbellire la propria casa. Dio manda allora il suo profeta con un messaggio di rimprovero:
Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina? Ora, così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene sul vostro comportamento! Avete seminato molto, ma avete raccolto poco. […] Riflettete bene sul vostro comportamento! Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore (Ag 1, 4-8).
Dobbiamo sentire come rivolto a noi questo stesso rimprovero di Dio e pentirci. Coloro che ascoltarono il discorso di Pietro il giorno di Pentecoste “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘Che dobbiamo fare, fratelli?” Pentitevi –fu la risposta dell’apostolo -, dopo riceverete il dono dello Spirito Santo” (Atti 2, 37 s.). Una rinnovata effusione di Spirito Santo non sarà possibile senza un corale movimento di pentimento da parte di tutti i cristiani. Sarà una delle intenzioni principali della preghiera che seguirà questo momento di condivisione.
Dopo che il popolo d’Israele si accinse a ricostruire il tempio di Dio, il profeta Aggeo fu inviato di nuovo al popolo, ma questa volta con messaggio di incoraggiamento e di consolazione:

Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore -, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi […] Il mio spirito sarà con voi, non temete” (Ag 2, 4-5).

La stessa parola di consolazione è rivolta ora a noi cristiani e io ardisco farla risuonare in questo luogo, non come una semplice citazione biblica, ma come parola di Dio viva ed efficace che opera ora e qui quello che significa: “Coraggio, papa Francesco! Coraggio capi e rappresentanti di altre confessioni cristiane! Coraggio popolo tutto di Dio, e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore! Il mio Spirito sarà con voi”.
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NOTA
[1] Martin Lutero, In Genesin Enarrationes, WA, vol. 42, p. 411.

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ZENIT Staff

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