"In Cristo si attua la signorìa di Dio"

Omelia del card. Scola in occasione della Domenica delle Palme

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MILANO, domenica, 1 aprile 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nel Duomo del capoluogo lombardo, in occasione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore.

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1. «Sei benedetto Signore! Tu che salisti al monte, tu che spirasti in croce, tu che gustasti la morte, tu che glorioso regni» (Alla Comunione). Così ci farà pregare il Canto alla Comunione delineando, con un potente “crescendo”, l’ultimo tratto del cammino umano del nostro Redentore, dalla Passione alla Gloria. «Gustasti la morte», cioè ne bevesti il calice fino all’ultima goccia, assaporandola fino in fondo.

Sorelle e fratelli carissimi, questo è il nostro Dio: Uno che non si sottrasse in nulla all’orrore della sofferenza e della morte. Uno che sovrabbondò nell’amore per aprirci l’accesso alla sovrabbondanza della vita. Con la processione, le palme, gli ulivi, i canti ed i salmi abbiamo voluto immedesimarci con il popolo che accolse l’ingresso di Gesù a Gerusalemme con gli Osanna.

La Domenica delle Palme è il portico della Settimana Autentica: i fatti della vita di Gesù che la Chiesa nostra Madre, a partire da oggi, ci farà vivere rappresentano la verità presente nell’Eucaristia illuminata dalla Parola di Dio. Danno senso pieno all’esistenza di ciascuno di noi e di tutti gli uomini di ogni tempo, di tutta la storia. Viviamo quindi con fede questa Settimana eminente come figura del percorso della nostra vita.

2. «Osanna al re d’Israele!» (Vangelo, Gv 12,13) grida la folla uscendo incontro a Gesù. Con la sua acclamazione esprime la speranza che l’attesa messianica del popolo d’Israele finalmente si realizzi. «Non temere figlia di Sion, il tuo re viene…» (Vangelo, Gv 12,15). Ma inevitabilmente il popolo riveste questa attesa con le sue immagini. Le stesse che suscitano sentimenti opposti nei capi del popolo e nei sacerdoti che giungono fino a tramare di ucciderLo.

Anche il contesto in cui Giovanni colloca la narrazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è ad un tempo carico di segnali di morte (oltre alla decisione del sinedrio, per cui Egli sarà costretto a nascondersi, l’unzione di Betania interpretata da Gesù stesso come annuncio della sua sepoltura…), ma anche da promesse e presagi di vita (le folle che Lo seguono, la fede di molti Giudei, l’episodio dei Greci che vogliono vedere Gesù…).

L’evento dell’entrata a Gerusalemme è quindi un evento dalle varie valenze, vissuto in maniera profondamente diversa dalla folla, dai capi e dal Signore Gesù. Come lo stiamo vivendo noi, qui ed ora?

Come sciogliamo questa ambivalenza?

Noi sappiamo che Gesù ci rivela chi è il nostro Dio: un Padre che ama la libertà dei figli a tal punto da non sopraffarla mai, senza mai cessare di pro-vocarla con la forza della verità. Essa ci scuote dalla “gaia rassegnazione” in cui spesso, quasi senza accorgercene, scivoliamo, incapaci – o semplicemente – stanchi di cercare il senso pieno della nostra esistenza.

3. «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Prima Lettura, Zc 9,9) annuncia il profeta. E Giovanni ne dà piena conferma.

Benedetto XVI nel primo volume del suo Gesù di Nazaret ci spiega che la parola greca per dire mansueto, umile (praýs) – la stessa impiegata anche nelle Beatitudini – è una parola usata tanto per descrivere chi è Gesù come per dire l’identità della Chiesa. Una parola che dice la natura della nuova “regalità” inaugurata da Gesù. La Sua mansuetudine è la sua obbedienza al disegno del Padre. Questa deve essere anche la nostra, di noi che portiamo il Suo nome: cristiani. La Chiesa nasce dal costato di Cristo e deve ogni giorno rinascere dal cuore di ogni fedele.

4. «I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte» (Vangelo, Gv 12,16). I discepoli sciolgono l’ambivalenza di cui, come il popolo erano vittime, solo di fronte alla Sua glorificazione. Con questo termine il Vangelo di Giovanni sintetizza l’evento della Pasqua di morte e resurrezione. È il termine che indica la manifestazione, il peso di Gesù nel mondo.

Così afferma San Paolo: al nostro Dio «è piaciuto che abiti in Cristo tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cf. Epistola, Col 1,20).

La profezia di Zaccaria – «Egli annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra» (Prima Lettura, Zc 9,10) -si compie quindi non tanto nell’accoglienza di Gesù all’entrata a Gerusalemme, ma sul Calvario.

Gesù «con la sua obbedienza ci chiama dentro questa pace, la pianta dentro di noi» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 1,106). Infatti nell’azione eucaristica il Re della pace ci educa a riconoscere che non c’è possibilità di bene per sé e di edificazione di vita buona a tutti i livelli dell’umana convivenza che non passi dal dono di sé. Se questo è vero, come è vero, a nessuno sfugga la grande attualità della Pasqua di nostro Signore.

5. «Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti,perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose» (Epistola, Col 1, 18). In Cristo si attua la signorìa di Dio sul mondo creato e redento, di cui Egli ci vuole partecipi. Ma di quale signorìa, di quale regalità si tratta? Ce lo indica il CCC 1884. Il Signore «non ha voluto riservare solo a sé l’esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di esercitare, secondo le capacità proprie della sua natura. Questo modo di governare deve essere imitato nella vita sociale. Il comportamento di Dio nel governo del mondo, che testimonia un profondissimo rispetto per la libertà umana, dovrebbe ispirare la saggezza di coloro che governano le comunità umane. Costoro devono comportarsi come ministri della provvidenza divina» (CCC 1884).

6. Apprestiamoci a vivere, qui nella nostra cattedrale e nelle nostre comunità, la potente liturgia della Settimana autentica. Lasciamoci commuovere dall’invito di Andrea di Creta: «Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro, non però per stendere davanti a Lui, lungo il suo cammino, rami di olivo o di palme, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione, dinnanzi ai suoi piedi, le nostre persone».

«… stendere le nostre persone…». Che significa in concreto? Prostrarci nell’umile riconoscimento dei nostri peccati nel sacramento della Confessione, donare qualcosa di noi stessi e dei nostri beni a chi è nel bisogno materiale e spirituale, fare, mediante la partecipazione alla liturgia, intenso spazio al Crocifisso glorioso nelle nostre giornate, conformarci non a questo mondo ma al pensiero di Cristo. In una parola, con l’intercessione della Vergine Santissima, di San Giuseppe, di Sant’Ambrogio e di San Carlo invocare quel profondo cambiamento che abbiamo inseguito lungo tutta la Quaresima: la nostra conversione. Nella morte e Risurrezione di Gesù, la nostra morte e la nostra risurrezione. Amen.

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ZENIT Staff

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