di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 20 gennaio 2009 (ZENIT.org).- In Italia la rivoluzione sociale e culturale conosciuta come il 68’ ha avuto i natali ed è stata in parte alimentata dal mondo cattolico.
Un fenomeno che precede il Concilio Vaticano II e che ha lasciato segni profondi nella Chiesa, tanto che la discussione sui temi della morale, dell’autorità del Pontefice, della collegialità, del celibato dei sacerdoti, dell’impegno sociale e politico del clero, sono ancora di scottante attualità.
A cercare di raccontare i fatti e fare una analisi di cosa sia accaduto in quegli anni, ci ha pensato Roberto Beretta, giornalista di Avvenire, con la pubblicazione del libro “Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici” (Piemme, pagine 222, euro 13,50).
Beretta racconta la rivolta del mondo cattolico contro l’autorità. L’occupazione dell’Università Cattolica di Milano, lo scontro tra un sacerdote ed il Vescovo nell’Isolotto, il quartiere popolare di Firenze, la fuga dai seminari, la deriva marxista e rivoluzionaria di tanti. Le liturgie blasfeme, il rifiuto della Humanae Vitae e il catechismo olandese.
In quegli anni tumultuosi il Pontefice Paolo VI, tra il dicembre ’67 e il maggio ’70, scrisse ben sessantanove discorsi sulla contestazione nella Chiesa. Arrivò al punto di pensare di chiudere l’Università Cattolica di Milano e fu tanto amareggiato da denunciare nel 1972 la “presenza del fumo di Satana nella Chiesa”.
Nel libro di Beretta però non si analizzano solo i cattivi frutti di una rivolta giacobina, ma anche le condizioni per cui nacquero i movimenti laicali come Comunione e Liberazione, Bose, Sant’Egidio, numerose comunità di accoglienza, dalla Comunità di Capodarco al Ceis di don Mario Picchi, ed anche la comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi.
Per approfondire la conoscenza e gli sviluppi di un momento importante della storia recente, ZENIT ha intervistato Roberto Beretta.
Nel libro lei sostiene che il 68’ in Italia è nato soprattutto tra i cattolici. Perché?
Beretta: Beh, che il ’68 in Italia sia nato cattolico è un fatto facile da constatare: la prima università occupata dagli studenti fu la Cattolica di Milano, già il 17 novembre 1967; i primi leader (Mario Capanna compreso) erano cattolici praticanti, anzi anche “raccomandati” dai loro Vescovi e leader delle associazioni ecclesiali nelle rispettive diocesi; infine il primo indumento indossato da Capanna, quando fuori dall’università arringava con un microfono i colleghi studenti perché protestassero contro l’aumento delle tasse, non fu il mitico eskimo, bensì un lungo impermeabile nero da prete. Che gli era stato prestato da un cappellano universitario perché piovigginava…
Se invece la domanda intendeva puntare sul motivo per cui proprio i cattolici si trovarono (almeno all’inizio) a capeggiare la rivolta, allora la risposta è assai più complessa e anche meno sicura. Di certo posso dire che – da una parte – nel mondo cattolico, grazie al Concilio Vaticano II da poco concluso, si respirava un’atmosfera largamente favorevole al rinnovamento e in generale al cambiamento; mentre – d’altra parte – tra le richieste degli studenti poteva starci benissimo anche una certa ansia “evangelica”, che purtroppo però nello svolgersi dei fatti andò presto perduta. O meglio: fu sopraffatta da istanze provenienti da altre ideologie.
Può illustrarci in che modo si propagò la rivolta all’interno del mondo cattolico?
Beretta: Anzitutto ci fu appunto l’Università Cattolica, che in quei mesi venne interessata addirittura da 4 occupazioni, l’ultima delle quali (nel giugno 1968) durò due settimane; né si trattò di episodi sempre e del tutto “nonviolenti” (basti pensare alla “battaglia di largo Gemelli”, uno di primi episodi di “guerriglia urbana” in Italia, nel marzo 1968).
Ma poi si verificarono altri episodi di natura ecclesiale che, nel contesto dell’epoca, assunsero caratteri “mitici”: il cosiddetto “controquaresimale di Trento”, il 26 marzo 1968, quando uno studente cattolico contestò pubblicamente il predicatore nella cattedrale; l’occupazione della cattedrale di Parma il 14 settembre; l’inizio della contestazione dell’Isolotto, il quartiere periferico di Firenze dove nel dicembre 1968 cominciò la “messa in piazza” e che divenne poi l’alfiere delle comunità di base in Italia.
In estrema sintesi: mentre la contestazione nelle scuole e all’università si secolarizzava, perdendo di vista le sue origini “religiose”, la protesta usciva dalle aule ed entrava sotto altre forme nelle chiese, nei seminari, tra i gruppi parrocchiali.
Quali erano le ragioni della contestazione cattolica?
Beretta: Si parlava molto di mettere in pratica il Concilio e anche di più: di attuare il famoso (e fumoso) “spirito del Concilio”. Ma non tutto nella contestazione cattolica era strumentale o anti-gerarchico, anzi forse il suo maggior difetto non fu tanto la destabilizzazione delle strutture tradizionali, bensì la scelta di darsi ideali troppo alti senza la consapevolezza (che in realtà avrebbe dovuto essere contenuta nel Dna stesso dei cattolici…) che comunque la vera salvezza, l’unica e definitiva “rivoluzione” non si sarebbe mai potuta compiere con le sole forze umane né seguendo qualsivoglia ideologia terrena.
Molti “buoni propositi” e una grande quantità di energie giovanili vennero così convogliate verso un’utopia che nel suo fondo non era cattiva né sbagliata dal punto di vista anche evangelico (“Cambiare il mondo”), ma di fatto rifiutava di fare i conti con il limite e le miserie umane. Ne sortì – parlo sempre in termini generali e generici: ci furono infatti anche esperienze molto positive, per esempio nel volontariato – un enorme incendio che ha fatto terra bruciata intorno a tutti gli ideali ed ora ci ha lasciati più cinici nei riguardi del futuro.
Dove si distinguevano dalla contestazione di carattere marxista?
Beretta: Ci furono ambiti e periodi in cui cattolici e marxisti non si distinguevano affatto… La cosa più sconcertante, infatti, fu l’appiattimento di molti credenti (preti compresi) sugli strumenti di analisi marxista, o comunque materialista. L’imperativo era infatti “rovesciare le strutture”: come se non sapessimo da almeno duemila anni che il male sta invece nei cuori e che anche la struttura più perfetta non è di per sé la “salvezza”…
Credo che la colpa principale dei cattolici nel Sessantotto fu esattamente questa: invece di portare all’interno del movimento studentesco e della contestazione gli ingredienti fondamentali della loro millenaria sapienza teologale ed umanistica, mitigando così gli eccessi della protesta, si fecero contagiare da atteggiamenti contro i quali la fede stessa avrebbe dovuto vaccinarli.
Un solo esempio: quanti intellettuali cattolici e religiosi, a quei tempi e non solo in America Latina ma su riviste cattoliche occidentali, predicavano non soltanto la “teologia della liberazione” bensì la “teologia della rivoluzione” e sostenevano che “il vero cristiano aveva il dovere di imbracciare il mitra”….
Nel libro lei sostiene che, nonostante tante defezioni nei seminari, la rivolta contro l’autorità dei Vescovi e del Papa, la deriva social-comunista di molti cattolici, il 68’ hanno generato anche nuovi movimenti. Ci spieghi perché e quali sono questi movimenti?
Beretta: Sì, l’obiezione che molti testimoni e “reduci” – durante le mie ricerche e gli incontri per preparare il libro – mi ponevano era questa: “Ma all’epoca non si poteva scegliere, o si stava con la contestazione oppure si era contro.
Vie di mezzo non ne esistevano”. Mi sono messo allora a cercare se questo era proprio vero, se sul serio non ci furo
no esperienze capaci nello stesso tempo di assumere la parte positiva della contestazione e di rifiutare per esempio la violenza e il massimalismo. Ebbene, ne ho trovate almeno tre, definibili all’ingrosso di destra, di sinistra e di centro (in realtà ce ne sono diverse altre, penso per esempio alla Comunità di Sant’Egidio o a quella di Capodarco).
Quella “di destra” è Comunione e Liberazione, che proprio nel ’68 visse una crisi fortissima e una rifondazione, dalla quale uscì con quel nome nuovo che secondo me accomuna gli intenti migliori della protesta (“liberazione”) con l’appartenenza fedele alla Chiesa (“comunione”). Quella “di sinistra” è la comunità di Bose, nata ufficialmente proprio nell’agosto 1968: il fondatore Enzo Bianchi era un ex studente dell’università di Torino, molto amico dei contestatori, e spesso ospitò nella sua comunità i gruppi del dissenso cattolico; ma ebbe sempre il coraggio di mettere in chiaro che non accettava di mettersi contro la gerarchia.
Infine quella “di centro”, che identifico genericamente nel volontariato cattolico: quanti gruppi per l’aiuto ai tossicodipendenti, agli handicappati, al terzo mondo sono nati nel Sessantotto! E ancora molti di essi vivono e lavorano, spesso nel silenzio, “cambiando il mondo” lentamente e dal basso. Sono loro il Sessantotto migliore, non quello del “tutto e subito” o del “vogliamo l’impossibile”….
Guardando al dibattito sulla enciclica Humanae Vitae, si nota che è ancora presente in una parte del mondo cattolico un fascino per certe utopie relativiste, ed in fin dei conti nichiliste, emerse nella metà degli anni Sessanta. Non crede che i tempi siano maturi per constatare quanto illusoria e errata sia stata l’ideologia sessantottina?
Beretta: Sì, certamente. Però devo dire che oggi – dopo oltre un trentennio in cui ha dominato la canzone dei “formidabili quegli anni” e non è stato possibile non dico criticare, ma nemmeno sottoporre ad un’analisi obiettiva il bene e il male del Sessantotto – mi sembra che il nichilismo dominante, piuttosto che nelle svianti utopie marxiste o rivoluzionarie ormai tramontate, si esprima più pericolosamente nello scetticismo e nel cinismo della società dei consumi, che tende ad affogarci tutti (e soprattutto i giovani) nella sazietà del benessere, facendoci credere che ogni tentativo di “cambiare il mondo” sia per ciò stesso utopistico, illusorio, sbagliato. In questo senso ritengo che un po’ dello spirito del Sessantotto – quello buono, veramente “cattolico” – sarebbe da rivalutare.