Quando concepì Dante la stesura della Commedia? Davvero gli ultimi tredici canti del Paradiso erano andati perduti? Qual era la reale visione politica dell’autore? Chi era Beatrice? Perché il sommo poeta si sentiva investito di una missione? Perché dovremmo leggere la Commedia a 700 anni dalla sua composizione?
A tali quesiti risponde Giovanni Fighera, professore di Italiano e Latino nei licei e collaboratore con il dipartimento di Filologia moderna dell’Università degli Studi di Milano, nonché autore del libro “Tre giorni all’inferno. In viaggio con Dante” edito da Ares. Insieme al poeta Alessandro Rivali, l’autore presenterà il volume il prossimo mercoledì 24 agosto, alle ore 12, nella saletta della Libreria del Meeting di Rimini (padiglione A3).
Scrive per ZENIT Fighera: “Chi bazzica nella scuola e insegna letteratura italiana sa bene che la Commedia dantesca versa in una situazione di emergenza tanto che il capolavoro è a rischio di sopravvivenza. Purtroppo, in mezzo alle tantissime educazioni proposte dalla scuola che hanno spesso dimenticato l’Educazione con la «E» maiuscola, in un clima relativista dove si può proporre soltanto una cultura politically correct conforme all’ideologia imperante del momento, nell’incombenza di ottemperare ai tanti nuovi progetti proposti dall’Istituto o dal Ministero, ciò che spesso viene sacrificato è la vera cultura, tutto quanto possa apparire come pensiero forte, ormai vetusto, non al passo con i tempi.
Volete qualche esempio? Molti tra quei docenti che professano ancora la stima per Dante e presentano il suo capolavoro come opera inimitabile e indefettibile, si trovano ad affrontare la Commedia solo in un periodo limitato dell’anno e a terminarne lo studio nel quarto anno quando vengono studiati Purgatorio e Paradiso, con un piccolo assaggio dell’incomprensibile terza cantica. Questo accade, bisogna dirlo, nei casi migliori.
Eppure, laddove venga proposta la rilettura del capolavoro dantesco, in contesti scolastici o extrascolastici, appare evidente come l’opera di Dante susciti un interesse generale e riscuota successo. Mi pare di poter dire che c’è tanto bisogno di Commedia, di pensiero forte, di speranza nell’eterno, di bellezza incarnata nell’arte.
La Commedia è per l’appunto uno degli esiti più grandi e più belli che l’uomo abbia mai partorito. Charles Moeller dice addirittura che c’è una sola cosa che la supera per bellezza della Divina Commedia, ed è la bellezza dei santi, persone che hanno incontrato un ideale così grande che nel loro volto è come se incarnassero questa bellezza.
Perché l’opera dantesca attira così tanto? Perché intercetta sempre i desideri più profondi dell’uomo. La Commedia parla dell’uomo, della vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio di Dante.
Un capolavoro sa parlare al cuore di ogni uomo, a qualsiasi epoca e popolo appartenga. Per questa ragione la traduttrice in persiano de La vita nova e della Divina Commedia, Farideh Mahdavi-Damghani, ha scritto: «La gente in Persia non conosceva Ravenna, non sapeva che è la città in cui è sepolto Dante, ma vedendo tutto quello che io amo fare per questa città, leggendo le mie traduzioni, il pubblico persiano ora conosce Ravenna.
C’è questo paradosso: siamo lontani dal punto di vista culturale, ma nello stesso tempo siamo molto vicini: le credenze sulla famiglia, sull’emotività, sull’amore per la poesia e la letteratura, cose primordiali che forse per altri paesi hanno minore importanza, sono molto simili in Italia e in Persia. Quindi si può dire che gli italiani somigliano ai persiani».
Se tutti sono colpiti dalle parole cortesi di Francesca, dalla forza d’animo di Farinata e dal suo desiderio di «ben far», dall’ardore di conoscenza di Ulisse è perché il poeta racconta storie che testimoniano il cuore dell’uomo di ogni tempo. La Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull’uomo di oggi, come del passato.
Avvertiamo una comunione universale tra noi moderni e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità. Ci accorgiamo che l’antico Dante sa esprimerci meglio di quanto sappiamo fare noi, così come il maestro Virgilio nel viaggio sa intendere il discepolo meglio di quanto questi sappia fare.
Tutto il viaggio rappresenta il cammino nella vita di ogni uomo. Nel Dante che vuole salire il colle luminoso da solo, all’inizio dell’Inferno, ci ritroviamo noi tutti. Dobbiamo sperimentare che da soli non riusciamo a salire e dobbiamo come Dante mendicare e gridare «Miserere di me».
Per grazia incontriamo una compagnia umana che ci salva dalla selva oscura, con cui poter intraprendere il viaggio della vita. Non c’è verso della Commedia in cui non si respiri l’esperienza e la fatica di uomini che vogliono fare da soli e rifiutano la luce di Dio o di uomini che, invece, si lasciano abbracciare dall’amore e dalla grazia.
Così quando nel canto III del Purgatorio Virgilio è dispiaciuto per un piccolo errore che ha commesso, Dante auctor esclama: «O dignitosa coscienza e netta/ come t’è picciol fallo amaro morso», ovvero il poeta dice che tanto più una persona è pulita nella coscienza tanto più si sente responsabile e peccatore.
E pochi versi dopo ancora scrive che i suoi piedi lasciarono andare la fretta «che l’onestade ad ogn’atto dismaga», ovvero la fretta toglie, sottrae la bellezza ad ogni cosa bella. Qualunque cosa tu faccia, falla bene, per non sminuirne la bellezza. E poi ancora leggiamo: «Perder tempo a chi più sa più spiace», cioè quanto più sei consapevole, tanto meno vuoi sprecare tempo. Una perla di saggezza dopo l’altra, che derivano dall’esperienza di vita dell’autore, che documentano e illuminano il nostro al di qua, prima dell’aldilà.
Nello stesso canto Dante sintetizza in maniera potente l’aspirazione dell’uomo a conoscere la verità e il Mistero e ad un tempo la necessità della rivelazione: «Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone./ […] Se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria».
Perché ancora oggi per noi uomini del terzo millennio vale la pena leggere la Commedia? Proviamo a sentire lo stesso Dante che spiega perché ha scritto la Divina Commedia in una lettera indirizzata a Cangrande della Scala, insieme al Paradiso.
Il fine è quello di rimuovere i viventi, cioè noi finché siamo in vita, dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza, e accompagnarci alla felicità e alla beatitudine. La Divina Commedia è stata scritta perché potessimo intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterna. Dante ha pensato a sé e a coloro che avrebbero chiamato il suo tempo antico, cioè i posteri.
Per questo conviene ancora oggi affrontare l’avventura del viaggio con Dante. Vogliamo offrire solo un’avvertenza per la lettura. Non bastano l’apparato critico, le note, la parafrasi. Dante ci ha avvisato nel Convivio che un’opera di carattere sacro deve essere letta su quattro livelli: il letterale, l’allegorico, il morale e l’anagogico.
Troppo spesso ci si limita nelle scuole a capire la lettera del testo dantesco e l’allegoria (il significato nascosto), senza la preoccupazione di intendere quello che Dante scrive per la nostra felicità (significato morale) e per la nostra salvezza (livello anagogico).
Per ritornare a leggere la Commedia occorre un io che sia risvegliato e assetato di domanda di vita e di significato, che sia desideroso di «divenire del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore», che riscopra che la natura umana non è fatta come quella delle bestie, ma «per seguir virtute e canoscenza».
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Commedia a rischio estinzione. Perché ha senso leggerla oggi?
Risponde Giovanni Fighera, professore di italiano e latino, autore del libro “Tre giorni all’inferno. In viaggio con Dante” che sarà presentato il 24 agosto al Meeting di Rimini