Papa Francesco martedì 9 agosto – nel giorno in cui Innocenzo IV nel 1253 consegnò a Chiara d’Assisi la Regola con tanta di bolla pontificia di conferma – ha visitato a sorpresa il monastero delle clarisse di Borgo San Pietro in cui sono custodite le spoglie di santa Filippa Mareri, una clarissa la cui vicenda è tanto sconosciuta quanto importante.
Per questo risulta importante leggere la più antica vita che di essa si conosce tratta dall’ufficio liturgico in suo onore. Si tratta di nove letture prese da una Vita probabilmente scritta alcuni anni dopo la sua morte nel 1236 – in vista della canonizzazione – di cui non si sono conservati codici manoscritti, ma solo si conosce la redazione che costituisce le nove letture dell’Officium Beatae Philippae Mareriae virginis Ciculanae stampato in una prima edizione a Roma nel 1545 ed una seconda a Napoli nel 1668.
La straordinaria donna di nome Filippa, della zona del Cicolano, ebbe i natali nel castello di Mareri. Suo padre, un nobile barone di nome Filippo, possedeva molte ricchezze. La madre, di nome Imperatrice, era nata da nobili baroni, e tutta la sua schiatta poteva vantare una famosa progenie. Mentre la madre era gravida di lei e, come suole accadere a tutte le donne, aveva cominciato a pensare all’evento del parto, narrò che le era apparsa una visione siffatta. Vedeva, infatti, che un pellegrino di bellissimo aspetto avanzava verso di lei portando con sé una florida palma. Con il volto atteggiato a letizia, rapidamente pose la palma nella sua mano, ma poco dopo se la riprese, volendo con ciò indicare che la donna avrebbe partorito la palma dei fiori delle virtù, e che questa, con il gradito ossequio floreale era destinata a servire presto Gesù Nazareno.
E mentre durante la gravidanza le donne, secondo il corso voluto dalla natura, sono solite sentirsi sempre più appesantite, la madre, affermando di dire la verità, riferì che prima del parto non avvertì alcun appesantimento del seno, durante il parto non sentì quasi nessun dolore, e dopo il parto la nutrice non perdette il suo sonno abituale per custodire la bambina, che era sotto la custodia del cielo. Quanto più, per mirabile azione naturale, la bambina cresceva, tanto più essa appariva in tutto e per tutto graziosa e gradita agli occhi di tutti. E chi la vedeva, per la sua straordinaria grazia, quasi per ispirazione divina affermava che essa avrebbe compiuto grandi cose in questo mondo, come in seguito fu dimostrato dai fatti.
All’inizio della sua giovinezza, Filippa volle istruirsi nelle Sacre Scritture, in cui la volontà divina, in rapporto alla capacità del suo ingegno, sembrava esprimersi più apertamente e manifestarsi chiaramente. Ogni qualvolta poteva trovarsi a contatto con qualche uomo che avesse profonda conoscenza dei testi sacri e che fosse al tempo stesso scrupoloso osservante della castità, lo pregava umilmente affinché volesse alimentare la sua mente con le Sacre Scritture, desiderosa com’era di ristorarsi più con il cibo spirituale che con quello materiale. E poiché non prova delizia soltanto chi ascolta la parola di Dio, ma anche chi opera in modo conforme ad essa, proprio per questo Filippa, superando la passività delle orecchie, faceva di tutto per mettere in opera le parole che aveva ascoltato e che avevano il sapore della divinità. E sebbene fosse una fanciulla ben formata e bella come una principessa, tuttavia evitava decisamente ogni atto consono alla sua età, e così una grande serietà di costumi rendeva più belle le sue azioni e adornava i suoi gesti, così che si manifestava chiaramente nel suo animo e nel suo corpo la grande modestia di una venerabile vecchiaia.
Da san Francesco e da altri religiosi accuratamente istruita e perfettamente informata nelle cose del Signore, cominciò a disprezzare il mondo con le sue pompe e le sue ricchezze, che, come si sa, sono particolarmente nemiche della salvezza delle anime, e, messasi sulle orme dei santi Padri, si premunì di uno scudo impenetrabile e delle armi spirituali atte a respingere coraggiosamente i dardi infuocati del demonio.
Quando giunse in età da marito ed erano già avviate molte trattative con molti nobili giovani circa il suo futuro, affinché essa potesse andare sposa con fasto e pompa mondana, alla fine la fanciulla dai genitori fu messa al corrente delle trattative. Essa, però, con ferma decisione rifiutò uno sposo mortale, come se fosse un nemico del suo corpo, desiderando essere la sposa dello Sposo celeste, al quale aveva fatto voto della castità della mente e del corpo, non di uno sposo mortale.
Vegliava con molta cura sulla salvaguardia di se stessa, preoccupandosi soprattutto della custodia di un tesoro inestimabile, vale a dire, della sua verginità, riposta in un vaso di coccio, che desiderava preservare in onore della santità attraverso l’intatta purezza nei confronti di qualsiasi uomo.
, dato che non disponeva di alcun luogo appartato in cui potesse meditare tranquillamente tanto sulla propria salvezza quanto su quella altrui, si chiuse in una camera della dimora paterna come in un carcere: e lì, pregando e lacrimando di tutto cuore, supplicava devotissimamente Gesù Cristo, perché la facesse uscire dalla terra d’Egitto, cioè da questa valle di lacrime, e, usando della sua abituale misericordia, si degnasse di condurla il più velocemente possibile nella terra promessa.
Tuttavia, anche stando in quella camera, per il disturbo e il fracasso di suo fratello Tommaso, nonché degli altri parenti e della servitù, non poteva avere la tranquillità che la sua anima desiderava. Perciò, confortata dallo Spirito Santo, decise, come serva del Signore, di rinunziare completamente a se stessa, e umilmente si affidò tutta alla volontà di Dio.
Tagliatisi, dunque, completamente i capelli, li buttò via, e avendo costituito una comunità di donne dotate di nobili sentimenti, si diresse prontamente verso la montagna, e precisamente a una grotta esistente sopra Mareri, e lì, deposto l’abito secolare, sfarzoso e adorno, che prima splendeva di seta e di pietre luccicanti, in segno di amore verso Colui che, per salvar l’umanità, fu sospeso nudo sulla croce, si accontentò in seguito di portare un’umile veste, isolandosi da povera dalle miserie di questo mondo, fatta segno anche a non poco disprezzo. In quel luogo, desiderando vivere una vita eremitica, come se si trovasse in un eremo, con quella piccola comunità di donne religiose che si sforzano di seguire le sue orme, si dispose a rimanere sotto la protezione divina, finché Cristo, nelle cui mani si era messa completamente, nella sua misericordia non decidesse di lei altrimenti.
Pur avendo dedicato la parte migliore di sé alla vita contemplativa, riservò una parte di sé anche alla vita attiva, adoperandosi molto opportunamente a rendere più confortevole il luogo con la costruzione di mura più ampie e di edifici all’interno e all’esterno, e facendo recintare con molta cura i luoghi che erano intorno a sé e alle sue compagne, secondo quanto richiedeva la purezza di santità, in relazione alla disponibilità del luogo.
Intanto il fratello Tommaso, uomo certamente saggio e discreto, riconsiderando dentro di sé quelle vicende, per quanto si rendesse conto di essere stato raggirato dall’astuzia della donna, modificò finalmente la sua opinione, dato che quelle cose avvenivano per volere di Dio. Salì, dunque, alla volta di quel luogo e con tono di preghiera chiese alla sorella di trasferirsi con le sue compagne, come madre e padrona, nella chiesa di San Pietro per trattenervisi: egli prometteva che avrebbe di buon grado e spontaneamente affrancato per sempre il luogo, essendo l’unico padrone naturale di quella chiesa. Filippa allora, accogliendo umilmente la preghiera del fratello, confortata dallo Spirito Santo, con le sue compagne discese dal monte ed entrò nella chiesa suddetta, con grande gioia dei suoi due fratelli, intenzionata a vivervi in perpetua penitenza, secondo la prassi e la regola che le risultava essere seguita dall’illustre vergine Clara con le sue sorelle.
Poiché quella serva di Cristo desiderava far crescere il culto di Dio, attirò verso di sé la sorella, che era stata già promessa in matrimonio, e inoltre parecchie nipoti e altre nobildonne, con le quali, e con altre che, attratte dalla fama della sua santità, affluivano presso di lei, costituì un’ottima comunità votata al servizio perpetuo di Gesù Cristo. Avendo dunque, col favore e la volontà di Cristo, trasformato la chiesa della pieve in un monastero secondo la regola della vergine Clara, lo dotò opportunamente di libri e paramenti sacri, che sembravano indispensabili all’esercizio del culto, e con i beni delle sue compagne e quelli del suo patrimonio fece erigere anche nuove costruzioni, sia claustrali sia comuni, in relazione alle necessità.
Considerando poi che la condizione servile degli esseri è talvolta di ostacolo all’esercizio dei doveri spirituali, volle che il monastero ne fosse esente e lo esonerò dal giogo della servitù, facendosi rilasciare dal fratello un atto pubblico di stabile affrancamento e di perpetua libertà. E acciocché quell’esenzione ottenesse forza e validità perpetua, da parte della Chiesa reatina, che è il capoluogo della diocesi, ottenne in breve tempo i privilegi dell’esenzione, convalidati autorevolmente dalla Curia romana.
Messo dunque in ordine il monastero e rafforzatolo al meglio, perfezionò la regola per le sorelle in Cristo, modellandola su quella che la nobile Clara osservava con le sue sorelle nel suo monastero, e custodendole attentamente come pecore di gran pregio affidate alle sue cure, con l’onestà degli atti e con la sue virtù le educava come una madre educa le figlie, promettendo mansioni stellari in cielo e quelle che avessero superato la prova e che servissero devotamente il Signore. Le consorelle, dal canto loro, seguendo i suoi consigli e la regola al limite delle loro forze, nei loro cuori consideravano più dolci di un favo di miele le sue parole ispirate dalla grazia dello Spirito Santo.
Mentre l’ancella di Cristo se ne stava nel monastero e splendeva come la stella Lucifero tra le altre stelle, piena di virtù avanzava di bene in meglio, così da fare ogni cosa ordinatamente e da mettere in atto i consigli divini. In mezzo alle sorelle era semplice come una colomba, e, guardinga come un serpente nel condurre a buon fine gli affari. Ubbidiva umilmente alla santa madre Chiesa e al suo padre spirituale, il frate Ruggero, dell’Ordine dei Frati Minori (che Dio esaltò durante la sua vita terrena per i suoi meriti con molti miracoli), ben sapendo che Adamo per la sua disobbedienza era stato cacciato dal Paradiso terrestre.
Vivendo in mezzo alle consorelle, non voleva essere servita come una superiora, bensì servire puntualmente, adoperandosi ad esercitare i più piccoli e i più umili servizi del monastero, per diventare imitatrice del mandato del Signore, il quale disse: «Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore» (Matteo, 11,29). E poiché il primo uomo perì per la sua gola, essa lesinava il cibo al proprio minuscolo e delicato corpo, e con i suoi digiuni e un’astinenza che ha dell’incredibile, lo indeboliva a tal punto che a mala pena, quando camminava, poteva reggersi in piedi. Inoltre, essendo come una lucerna ardente e brillante, posta sopra un candelabro perché fosse di esempio agli altri, e coltivando le virtù, che costituiscono i cibi celesti delle anime, fuggiva scrupolosamente l’ozio come se fosse il veleno delle anime.
Perciò si affaticava diligentemente in lavori manuali, e tenendo presente l’esempio degli Apostoli, soggiogava il suo corpo al più umile stato di servitù, acciocché la carne ubbidisse prontamente allo spirito come una serva.
Ogni qualvolta si ammalava, accogliendo la malattia come un beneficio di Dio, tra le fitte del dolore diceva con gioia: «La virtù durante la malattia si affina, e io gioirò di buon grado delle mie malattie, affinché la virtù di Cristo abiti dentro di me». E ripiena della consolazione dello Spirito Santo, si rassegnava dicendo: «Dio, nostro rifugio e virtù, soccorritore delle tribolazioni, che molto ci affliggono».
Essendo l’avarizia, come dice san Paolo, schiavitù nei confronti degli idoli (Efesini, 5,5), la serva di Cristo si teneva ben lontana da essa e, incurante del futuro, offriva generosamente tutto ciò di cui riteneva di poter disporre per omaggio a Cristo e per il benessere dei poveri di Cristo.
Quando sentiva la voce dei poveri che chiedevano l’elemosina in nome dell’amor di Dio, molto si rallegrava dando segni di grande esultanza, e ai presenti diceva con volto sereno: «Oh, quale voce dolcissima è questa, e piena di celeste melodia, dato che essa ci ripropone l’autentica immagine di Cristo, ci stimola pressantemente a un’opera meritoria, e ci esorta e spinge con fervore alla carità fraterna!». Tosto, ascoltando la loro voce e facendo seguire i fatti, nascondeva nel loro seno un’abbondante elemosina, per mezzo della quale, come dice il Signore, vengono cancellate le macchie dei peccati.
Talvolta, essendo madre di umiltà, per amore di Cristo serviva personalmente gli stessi poveri, perché si accrescesse il suo tesoro in cielo, dove né ruggine né tarli hanno potere di distruzione, e dove i ladri non scassinare né rubare. E poiché, come il cervo desidera raggiungere le sorgenti delle acque, così essa desiderava la salvezza delle anime, ambiva confortare nel servizio di Dio tutti coloro che si rivolgevano a lei, promettendo con fiduciosa speranza a quelli che servivano devotamente Cristo, che avrebbero ottenuto gioie eterne dopo questa vita.
Con la sua totale umiltà e pazienza confondeva i superbi e gli arroganti in modo tale, che ciò si può ascrivere a miracolo. Ad esempio, se qualche laico andava superbo in qualche cosa, essa adduceva la testimonianza delle Sacre Scritture, dicendo: «Dio resiste ai superbi, e invece concede la sua grazia agli umili». Coloro che dopo un colloquio con lei, corroborato dalla grazia divina, le davano ascolto, subito deponevano la loro superbia e cercavano di acquisire nel maggior grado possibile la virtù dell’umiltà. Essa si rattristava molto dei vizi e delle ignominie del prossimo, e se vedeva o sentiva dire che le anime redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo fossero inquinate da qualche sozzura di peccato, trafitta straordinariamente dall’aculeo del dolore, piangeva con una tenerezza di commiserazione così grande, da partorirle ogni giorno in Cristo come una madre, e prontamente supplicava piangendo l’onnipotente Iddio per la loro salvezza, affinché le sottraesse celermente al loro infelice stato, e si degnasse di condurle prontamente alla completa salvezza.
Il suo animo si scioglieva continuamente di fronte alle persone infelici e malate, e a quelle alle quali non poteva dare una mano, faceva giungere il suo affetto. Infatti, qualunque carenza, qualunque insufficienza vedesse in qualcuno, con la dolcezza del suo cuore devoto la faceva risalire a Cristo. E così grande fu l’abbondanza della pietà nel suo cuore, che nel cercare di alleviare le miserie delle persone nel suo cuore sembrava dotata di viscere materne. Aveva infatti anche una mitezza congenita, che l’amore di Cristo raddoppiava.
Essendo entrata nel monastero sua nipote Imperatrice, figlia del signore Ruggero di Montana, essa fu ben presto visitata dai suoi fratelli e dal signor Tommaso Mareri, che ne chiesero con parole concitate la restituzione.
La serva di Cristo, di fronte alla loro insistenza, decise di accondiscendere alla loro volontà, e già essi la riportavano fuori dal monastero alla vita secolare contro la sua volontà, conducendola davanti alla porta del monastero, quando all’improvviso Filippa si pentì piangendo di aver restituito sua nipote, e tosto, prostrata a terra, indirizzò con molto fervore una preghiera al Signore.
Allora lo Spirito Santo infuse nella nipote un così grande peso, che i suoi parenti, sentendosi mancare le forze, non furono più in grado di portarla via, ed essa fu ritrovata sola in quel medesimo luogo davanti alla porta, del tutto abbandonata dai malvagi predetti.
La figlia del nobiluomo Bernardo da Valviano, di nome Margherita, mentre per una malattia aveva la bocca distorta in maniera assai brutta e mostruosa, supplicò con molta devozione la Santa, affinché vi apponesse la sua mano con il segno della croce. Per umiltà la Santa rifiutò di fare ciò, parlando immediatamente con il linguaggio degli umili servi di Dio: «Cristo nostro Signore, o brava figliola, si degni di aiutarti con la sua solita pietà». Ma quella di scatto, afferrando la sua mano, con essa piamente sfiorò la parte malata, e poco dopo riebbe diritta e guarita la bocca, completamente restituita al suo primitivo stato naturale.
Una volta, lamentando la dispensiera con voce piagnucolosa che nel granaio restava poco frumento e che in nessun modo poteva bastare fino alla raccolta delle messi, Filippa, che aveva riposto ogni sua speranza e fiducia in Cristo, avendo saputo ciò, dopo avere recitato sommessamente una preghiera, si avvicinò al granaio e, toccando con le sue mani quel poco di frumento e rivoltandolo da una parte e dall’altra, si ritirò con gioia e con volto sorridente. Ma Dio, che è colui che accresce tutte le grazie, per i meriti della sua serva conservò e moltiplicò quel poco di frumento a tal punto, che esso bastò in abbondanza sia per le suore, sia per i poveri e per i viandanti fino alla fine della raccolta delle messi, quantunque intercorressero molti mesi tra l’una e l’altra circostanza.
Quantunque la serva di Cristo celebrasse con devozione tutte le feste del Salvatore, della sua Madre Vergine e degli altri Santi, tuttavia il suo spirito celebrava più devotamente, con grandissima partecipazione dell’animo, la festa della Resurrezione del Signore, e si riempiva di una particolare gioia spirituale, considerando il trionfo del Salvatore sul nemico e la straordinaria potenza della resurrezione.
In occasione della medesima festività, dopo avere ascoltato e considerato con la dovuta riverenza gli uffici divini unitamente alle consorelle, quando arrivò l’ora del pranzo, l’ancella di Cristo, riunite le consorelle suddette nel refettorio, con volto sereno benedisse i piccoli pani posti sulla mensa.
Ma Colui che per la sua misericordia con cinque pani sfamò cinquemila persone, moltiplicò quei pani benedetti dalla sua ancella a tal punto che, pur mangiandone le consorelle sia nel giorno della festa sia per tutta l’ottava successiva, essi non diminuirono affatto il numero, ma dopo il pasto se ne ritrovavano nella stessa quantità posta sulla tavola imbandita, senza che fosse stato aggiunto affatto dell’altro pane, mentre quelli messi a tavola sarebbero stati a mala pena sufficienti per un pasto modesto.
L’ancella di Cristo, perfusa di celeste rugiada, era di così grande devozione e rispetto nell’osservanza dei sacramenti divini ed ecclesiastici, che nei limiti del possibile non tollerava che avvenisse alcunché di turpe o di sconveniente nelle chiese dedicate a Dio. Perciò, soffermandosi molto spesso in preghiera nella chiesa, che è la madre di Cristo – nella quale la stessa Vergine delle Vergini le apparve e le rivelò i misteri –, dato che amava quella chiesa più di qualsiasi altra e trascorreva in essa la maggior parte del suo tempo, portava sempre con sé una scodella di legno, nella quale sputava quando vi era costretta da esigenze naturali, affinché insieme con la grazia celeste delle lacrime non deturpasse il pavimento della chiesa suddetta con qualche sputo.
A quella scodella l’altissimo Iddio, per i meriti della sua ancella, dopo la morte di lei, dall’alto del cielo concesse una così grande potenza di guarigione, che moltissimi ammalati di entrambi i sessi, amarissimamente sofferenti per varie malattie, bevendo devotamente l’acqua con cui veniva lavata quella scodella, furono guariti, e spesso, come in molti appare evidente, vengono guariti per i meriti di lei, come più avanti sarà scritto più compiutamente e più chiaramente riguardo ad alcuni.
Il Dio della luce inaccessibile e Padre delle stelle con il raggio celeste rischiarò l’anima della sua ancella di tanta luminosità, che essa con gli occhi della mente vedeva apertissimamente e conosceva con piena sicurezza tutti i secreti delle sue consorelle sia presenti sia assenti, nonché tutto ciò che portavano in cuore e nel corpo. E se talvolta per una maligna suggestione si fossero abbandonate a pensieri sconvenienti, essa, parlando amorevolmente o disponendo un’adeguata correzione, le richiamava alla penitenza, e in mezzo allo stupore generale, quando riteneva che fosse opportuno, raccontava quegli stessi pensieri, prolissi o sconvenienti che fossero, prima che qualcuno ne avesse parlato, tanto alle stesse sorelle quanto agli altri.
Volendo Iddio, premiatore di tutti i buoni, sottrarre Filippa alle miserie di questo mondo e proporla ulteriormente agli uomini come utile esempio, affinché non rimanesse nascosta come una lucerna sotto il moggio, ma brillasse a vicini e lontani, nonché assegnarle il premio del cielo per le sue fatiche affrontate in questo mondo, essa, colpita da un grave languore fisico, seppe in anticipo che doveva abbandonare il tabernacolo del proprio corpo, e tre giorni prima della sua morte ne diede l’annunzio alle sue consorelle e, confortandole amorevolmente con parole di consolazione per la sua morte, come se fossero state delle figlie carissime, con affetto materno le esortò all’amore di Dio, Ma esse con lacrime e sospiri dicevano: «Perché, o pia madre, ci abbandoni, o a chi sconsolate ci lasci?
Affida il tuo gregge al Pastore eterno, affinché dopo questa vita possiamo felicemente regnare insieme con te». Ad esse Filippa con spirito profetico e con voce di colomba, essendo sicura della sua immarcescibile gloria, diceva: «Figlie carissime, non piangete per me, perché mi accoglierà il seno di Abramo, dove non potrà esserci alcun lutto, ma gioia eterna, al di sopra delle teste dei beati. Si muti in gioia la vostra tristezza, e io vi aiuterò in tutto ciò in cui sarà necessario. “Desidero morire e trovarmi in Cristo” (Filippesi 1,23), affinché “la mia porzione” si trovi “nella terra dei viventi” (Salmo 141,6). “Chi mi darà le ali come quelle di una colomba, e volerò e riposerò?” (Salmo 54,7). “Ecco, già vedo ciò che ho desiderato, posseggo già ciò che ho sperato, Colui che ho amato con totale dedizione durante la mia permanenza sulla terra” (Leggende di s. Agnese, in Acta Sanctorum, II, p. 353, 21 gennaio).
Ma voi cercate conforto nel Signore e nella potenza della sua virtù: Dio, infatti, con accurata valutazione darà a ciascuno la ricompensa dei propri meriti. Perseverate fino alla fine nel servizio del Creatore, che tiene conto non dell’inizio, ma della buona fine, e a coloro che hanno la meglio sui vizi e sui peccati concede con molta generosità una corona di onore indicibile e di gloria inenarrabile. Portate nella mente e nel corpo tutto ciò che ho fatto, e la vostra umiltà serva da condimento alle vostre virtù. E poiché l’invidia oppure l’odio sono come del veleno mortifero da espellere, la pace del Signore, che è al di sopra di ogni sentimento, custodisca i vostri cuori».
Completate queste ed altre melliflue esortazioni, affidò umilmente a Gesù Cristo la sua fine, e corroborando il suo spirito con la santa Eucaristia e con tutti gli altri sacramenti, in presenza del sant’uomo fra Ruggero e di alcuni altri frati dell’Ordine dei Frati Minori, molti noti e apprezzati per la loro santità, nonché delle sue consorelle che invocavano Cristo, raggiunse felicemente Cristo, il quale tre giorni prima del trapasso aveva fatto vedere il cielo aperto e la sua gloria, come la stessa Filippa rivelò al suddetto fra Ruggero e come quest’ultimo riferì davanti al popolo poco dopo, nel giorno della morte di lei, in una predica solenne.
Nella stessa notte in cui la beata Filippa morì, la notizia rimbalzò tutt’intorno per castelli e villaggi, per annunziare: «È morta santa Flippa». La mattina seguente, poi, si verificò un grande accorrere di gente sul posto, uomini, donne e chierici recanti ceri accesi, che acclamavano dicendo: «Santa Filippa, Santa Filippa, aiutaci con le tue preghiera presso Dio!».
Quella vergine consacrata a Dio concluse questa vita terrena nell’anno del Signore 1236, il 17 febbraio, al tempo del papa Gregorio IX, nella notte di un giorno di domenica, e fu sepolta nello stesso giorno, splendente di miracoli. E circa nella stessa ora, a mezzanotte, in cui Cristo per la salvezza dell’umanità uscì dal seno della Vergine, quell’anima beata uscì dal carcere del corpo e, attorniata da schiere di santi Angeli, entrò gloriosamente nella reggia del regno celeste.
Presso la sua tomba, per i meriti da lei acquisti con varie malattie prossime e lontane, ottenne dall’alto i doni di una perfetta guarigione a coloro che si accostavano con fede e devozione e che li chiedevano con umiltà, essendo garante nostro Signore Gesù Cristo, al quale unitamente al Padre e allo Spirito Santo va l’onore e la gloria per tutti i secoli dei secoli. E così sia.
Francesco e Santa Filippa
Il Papa ha visitato nei giorni scorsi il santuario della clarissa poco conosciuta ma dalla vita straordinaria