“Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità”.
Sembrano parole uscite dalle labbra di Papa Bergoglio, invece fu Papa Giovanni XXIII a pronunciarle nel suo storico discorso d’apertura del Concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. Poche frasi in cui, però, veniva sintetizzata tutta la novità e lo stile dell’assise.
Queste memorabili parole sono riecheggiate oggi nella seconda predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia. Predica incentrata sul legame “tutt’altro che arbitrario o secondario” tra Concilio, a 50 anni dalla sua chiusura, e la misericordia che questo Anno giubilare appena avviato vuole celebrare. “In un certo senso, a mezzo secolo di distanza, l’anno della misericordia celebra la fedeltà della Chiesa a quella sua promessa”, osserva il cappuccino, che tuttavia solleva un dubbio che può annidarsi nel cuore dei fedeli: “Ci si domanda a volte, se insistendo troppo sulla misericordia, non si rischi di dimenticare l’altro attributo di Dio che è la giustizia”.
La risposta è chiara: “La giustizia di Dio, non solo non contraddice la sua misericordia, ma consiste proprio in essa! Dio si fa giustizia, facendo misericordia”. Perché “Dio è amore”, rimarca Cantalamessa, “per questo fa giustizia a se stesso quando fa misericordia”. E come scriveva Sant’Agostino, ben prima di Lutero: “La ‘giustizia di Dio’ è quella per la quale, per sua grazia, Dio ci rende giusti, esattamente come ‘la salvezza del Signore’, è quella per la quale Dio fa di noi dei salvati”.
La Lumen gentium affermava infatti, nel suo V capitolo: “Tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla Gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità”. Un appello, questo – sottolinea il predicatore – che “è il più necessario e il più urgente adempimento del Concilio. Senza di esso, tutti gli altri adempimenti sono o impossibili o inutili”.
Tuttavia tale appello alla santità è “quello che rischia di essere il più trascurato, dal momento che ad esigerlo e a reclamarlo è solo Dio e la coscienza e non invece pressioni o interessi di gruppi umani particolari della Chiesa”. Quasi, osserva padre Raniero, si ha l’impressione a volte che, “in certi ambienti e in certe famiglie religiose, si sia messo più impegno nel ‘fare i santi’, che nel ‘farsi santi’”, cioè “più sforzo per portare sugli altari i propri fondatori o confratelli che per imitarne gli esempi e le virtù”.
Allora la prima cosa da fare “è di liberare questa parola dalla soggezione e dalla paura che essa incute, a causa di certe rappresentazioni errate che ce ne siamo fatti”. Sì, è vero che “la santità può comportare fenomeni e prove straordinari”, ma essa “non si identifica con queste cose”. Santo – spiega il cappuccino – “non è un concetto principalmente negativo, indicante separazione, assenza di male e di mescolanza in Dio; è un concetto sommamente positivo”. Indica una “pura pienezza” che “non si accorda mai totalmente con la purezza”, perché “la nostra purezza è ottenuta sempre purificandoci e togliendo il male dalle nostre azioni”.
Se, come afferma la Lumen Gentium, “tutti sono chiamati alla santità”, è perché – spiega Cantalamessa – la santità “è alla portata di tutti, fa parte della normalità della vita cristiana”. “I santi sono come i fiori: non ci sono solo quelli che vengono messi sull’altare. Quanti di essi sbocciano e muoiono nascosti, dopo aver profumato silenziosamente l’aria all’intorno! Quanti di questi fiori nascosti sono sbocciati e sbocciano continuamente nella Chiesa!”.
Invece “quando si cerca di vedere come l’uomo entra nella sfera della santità di Dio” prevale la visione “dell’idea ritualistica” contenuta nell’Antico Testamento. Quindi “oggetti, luoghi, riti, prescrizioni” che racchiudono la santità “in un codice di leggi”. Ma anche nel Nuovo Testamento, tra i farisei contemporanei di Gesù prevaleva l’idea che la santità e la giustizia consistessero “nella purezza rituale e nell’osservanza di certi precetti”.
È Cristo a rappresentare un punto di svolta, presentato nell’Apocalisse semplicemente come “il Santo”. Via via nel Nuovo Testamento, tale concetto di santità – rammenta Cantalamessa – non si riferisce più a luoghi, riti, oggetti e leggi ma si estende ben presto anche ai cristiani, con l’apostolo Paolo che definisce i battezzati “santi per vocazione” o “chiamati a essere santi”.
Santi perché tramite Cristo “è la santità stessa di Dio che ci raggiunge di persona”. E lo fa in due modi, spiega il cappuccino. Anzitutto per appropriazione e per imitazione, ovvero “nella fede e mediante i sacramenti”; specie nel momento della comunione eucaristica, attraverso cui, “con un colpo d’audacia”, noi “usurpiamo” la santità del Figlio di Dio.
E “dire che noi partecipiamo della santità di Cristo, è come dire che partecipiamo dello Spirito Santo che viene da lui”. È proprio questo Spirito “che ci santifica”, afferma padre Raniero. Non uno Spirito “in genere”, ma “lo Spirito Santo che fu in Gesù di Nazareth, che santificò la sua umanità, che si raccolse in lui come in un vaso di alabastro e che, dalla sua croce e nella Pentecoste, egli effuse sulla Chiesa”. Per questo, la santità che è in noi “non è una seconda e diversa santità, ma è la stessa santità di Cristo”.
Accanto a questo mezzo fondamentale della fede e dei sacramenti, però, deve trovar posto anche “l’imitazione, le opere, lo sforzo personale”. Non si tratta di un “mezzo staccato e diverso”, ma “l’unico mezzo adeguato di manifestare la fede, traducendola in atto”, precisa il predicatore. Le opere buone, infatti, “senza la fede, non sono opere ‘buone’” e la fede “senza le opere buone non è vera fede”.
“Avviene come per la vita fisica”, spiega Cantalamessa usando una delle sue tipiche e suggestive metafore: “Il bambino non può fare assolutamente nulla per essere concepito nel seno della madre; ha bisogno dell’amore di due genitori (almeno così è stato fino ad oggi!). Una volta però che è nato, deve mettere in opera i suoi polmoni per respirare, succhiare il latte; insomma deve darsi da fare, altrimenti la vita che ha ricevuto muore”.
Per questo san Giacomo diceva: “La fede, senza le opere è morta”. E nel Nuovo Testamento due verbi si alternano a proposito della santità, “uno all’indicativo e uno all’imperativo: Siete santi, Siate santi”. “I cristiani sono santificati e santificandi”, sottolinea il cappuccino.
Perciò “Cristo è anzitutto dono da ricevere mediante la fede, ma è anche modello da imitare nella vita”. Questo è il nuovo ideale di santità che propone il Nuovo Testamento, chiarendo che la santità non è “una imposizione, un onere che ci viene messo sulle spalle”, bensì “un privilegio, un dono, un onore sommo”. “Un obbligo, sì – osserva il predicatore della Casa Pontificia – ma che deriva dalla nostra dignità di figli di Dio. Si applica ad esso, in senso pieno, il detto francese noblesse oblige”.
“La santità è esigita dall’essere stesso della creatura umana; non riguarda gli accidenti, ma la sua stessa essenza”. Aveva ragione allora Madre Teresa quando a una giornalista che le chiese a bruciapelo cosa si provava ad essere acclamata santa da tutto il mondo, rispose: “La santità non è un lusso, è una necessità”.
Ecco, “se dunque noi siamo ‘chiamati ad essere santi’, se siamo ‘santi per vocazione’” – dice padre Cantalamessa, parafrasando san Paolo – “allora è chiaro che saremo persone vere,
riuscite, nella misura in cui saremo santi”. “Diversamente, saremo dei falliti”, perché “il contrario di santo non è peccatore, ma fallito! Si può fallire nella vita in tanti modi, ma sono fallimenti relativi che non compromettono l’essenziale; qui si fallisce radicalmente, in quello che uno è, non solo in quello che uno fa”.
E conclude esortando, in questi primi attimi del Giubileo, “a ridestare in noi un desiderio di santità”. Magari meditando su una domanda durante l’Avvento: “Io ho fame e sete di santità, o mi sto rassegnando alla mediocrità?”.
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