Per ricordare quel terribile capitolo della storia africana, che dietro le cifre delle vittime cela un tragedia umana ancora peggiore, nella capitale, Kigali, domenica scorsa si è tenuta una Conferenza internazionale per il decennale dei massacri in Ruanda, dal titolo “Prevenire e mettere al bando per sempre il genocidio grazie ad una efficace solidarietà universale”.
In quei giorni il portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, Laura Boldrini, in un’intervista rilasciata ai microfoni di Radio Vaticana da Nyamata, a sud della capitale ruandese Kigali, uno dei luoghi simbolo della tragedia ha detto: “Questo è proprio il luogo della memoria, il luogo del dolore, il luogo dello strazio, dell’abominio più totale. Sono qui migliaia e migliaia di ossa umane: ci sono le ossa di 10 mila persone in questa chiesa di Nyamata, a sud di Kigali”.
“A tutt’oggi si contano circa 70 mila rifugiati ruandesi che sono ancora fuori del Paese; in questi giorni sono in corso diversi rimpatri, dalla Repubblica democratica del Congo; ci sono anche rimpatri di soldati che in questi anni hanno fatto la guerra per conto di altri, specialmente in Congo”, ha poi detto.
Secondo i dati riferiti dall’ Unicef il genocidio ha reso orfani 95,000 bambini. E ancora, stando ai risultati di una campione di 2,000 donne – di cui molte vittime di stupri sistematici – sottoposte al test dell’HIV fino al 1999, in seguito al quale l’80% è risultato positivo , si stima che entro il 2010 il numero degli orfani potrebbe essere di 350,000.
Il genocidio ruandese è scoppiato all’indomani dell’abbattimento dell’aereo presidenziale, avvenuto il 6 aprile 1994, nel quale persero la vita il capo di stato ruandese Juvénal Habyarimana, di etnia hutu, e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira.
Dopo l’attentato si scatenò una spirale di violenza dei tutsi e degli hutu che si opponevano al regime esistente e lottavano per il cambiamento, che arrivò ad estendersi a tutta la zona dei Grandi Laghi.
“Ciò che emerge è che, appunto, c’è un dolore infinito … Credo che in Rwanda non ci sia una famiglia che non abbia perso qualcuno: tutti hanno perso qualcuno in questa follia collettiva, in questo terribile massacro, basato poi su meccanismi non tanto di odio della popolazione, quanto su meccanismi di ricatto, di pressione, per cui chi non voleva, era costretto ad uccidere perché nessuno doveva salvarsi dalla colpa”, ha aggiunto Laura Boldrini
“Io credo anche che per stabilizzare il Paese, bisogna stabilizzare l’intera regione. Un Ruanda riconciliato non potrà esserci fintanto ché il Paese gemello Burundi non esca fuori dalla spirale della violenza, così come la Repubblica democratica del Congo non trovi una stabilità, un equilibrio”.
A rimanere aperte, però, sono anche le ferite di coloro che a 10 anni di distanza non riescono ancora a vedere puniti i veri responsabili dei crimini. In tutto il paese, infatti, dove sono attivi i tribunali tradizionali Gacaca, nei quali i presunti colpevoli sono giudicati collettivamente, “Migliaia di persone sono ancora detenute in attesa di giudizio, ma molte migliaia hanno avuto la loro sentenza”, ha affermato all’Agenzia “Fides” don Domenique Karekezi, direttore del periodico cattolico Kinyamatekaì.
“Molti sono stati rilasciati perché giudicati innocenti, oppure per mancanza di prove, altri perché hanno ammesso le loro colpe e chiesto il perdono della comunità. Altri invece sono stati giudicati colpevoli e stanno scontando la loro pena”.
Secondo quanto affermato sempre da “Fides”, il governo ruandese avrebbe deciso di formare 11 mila tribunali tradizionali per far fronte al gran numero di detenuti in attesa di giudizio. Si calcola che i detenuti in attesa di giudizio sono 115 mila, accusati di aver preso parte ai massacri del 1994. Nell’ottobre del 2001 sono state elette per acclamazione popolare le giurie, composte da 19 membri degli 11mila tribunali.
Ed è proprio il fatto che i processi siano pubblici e vi partecipi tutta la popolazione, garantisce gli accusati da false accuse, eventualmente loro addebitate.
Don Domenique ha poi sottolineato all’impegno della Chiesa sul cammino verso la riconciliazione, facendo riferimento alle molte iniziative celebrate per riflettere sulla situazione della regione tra le quali l’incontro internazionale tenutosi in Ruanda tra il 29 e il 31 marzo a cui hanno preso parte tutti i Vescovi del paese, sacerdoti, religiosi e religiose, insieme ai tanti laici, oltre alle delegazioni dei paesi vicini, come Burundi e Tanzania.
Ma questo non è stato il solo evento: “Subito dopo il genocidio, infatti, i Vescovi ruandesi hanno promosso sinodi di riconciliazione in tutte le diocesi e in tutte le parrocchie del Ruanda, e questo per diversi anni”.
“Alla base della riflessione comunitaria, vi è il messaggio evangelico della pace e del perdono. Il Grande Giubileo del 2000 è stato vissuto dalla Chiesa ruandese nella chiave della riconciliazione e della ricerca della pace”, ha ricordato don Domenique.
Tra le attività promosse dalla Chiesa cattolica, è stato sempre spiegato, vi sono stati anche incontri tra le donne che hanno perduto il marito nei massacri, e quelle il cui marito è in carcere sotto l’accusa di aver preso parte al massacro.
Il 23 giugno del 1994, il Santo Padre inviò nel paese africano il cardinale Roger Etchegaray, allora presidente del Consiglio Pontificio Giustizia e Pace, e Cor Unum, in una missione di pace e di speranza. Il porporato visitò le diocesi più colpite, luoghi dove erano stati assassinati dei vescovi, incontrandosi anche con il presidente ad interim della Repubblica nonchè leader del “Fronte Patriottico Ruandese” (FPR).
“Sono venuto fra di voi in nome di Papa Giovanni Paolo II per recare conforto ad una chiesa debilitata, disgregata, decapitata dall’assassinio di tre vescovi, di numerosi sacerdoti, religiosi e religiose”, aveva affermato il cardinale in un messaggio indirizzato ad entrambi i leader coinvolti nel conflitto.
”Un giorno constaterete la esattezza della parola che fa vivere la Chiesa di secolo in secolo: ‘il sangue dei martiri è il seme dei cristiani’ – aveva proseguito -. Popolo ruandese, sei chiamato da Dio a cominciare una nuova pagina della tua storia, scritta da tutti i tuoi fratelli risplendenti di perdono reciproco”.
In effetti, dal 1994, la Chiesa in Ruanda ha pagato un alto tributo di sangue, con la morte di 248 persone, secondo quanto riferito da “Fides”: 3 vescovi, 103 sacerdoti, 47 religiosi, 65 religiose e 30 laiche di vita consacrata. A questo elenco vanno aggiunti ancora una quindicina di morti in seguito a maltrattamenti, mancanze di cure mediche e gli scomparsi di cui non si è più avuta notizia.