Il Card. Bertone all'inaugurazione della Facoltà di Diritto canonico San Pio X

Democrazia e dottrina sociale della Chiesa

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CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 4 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo alcuni stralci della prolusione svolta dal Cardinale Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, nel pomeriggio di giovedì 4 dicembre, presso la Vasilica di San Marco a Venezia, in occasione del Dies academicus dello Studium Generale Marcianum e dell’inaugurazione ufficiale  della Facoltà di Diritto canonico San Pio X.

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di Tarcisio Bertone

Diversi movimenti oggi reclamano, anche con violenza, una forma di democratizzazione della Chiesa, nel senso di integrare nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni politiche. Così sembra la cosa più ovvia recuperare quanto era stato trascurato e cominciare coll’erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. (…) In quest’opera di riforma, in cui finalmente anche nella Chiesa l’autodeterminazione democratica deve sostituire l’essere guidati da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene?

Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gesto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, dove l’opinione sostituisce la fede.

Dobbiamo tornare alla visione del cristiano, l’uomo nuovo, che avendo incontrato Cristo possiede di fatto una struttura, non solo morale ma ontologica, nuova. Egli ha nel Cristo la causa ultima della sua salvezza e della sua speranza; sa di appartenere a Cristo e sa che questa appartenenza genera in lui un criterio nuovo e unico per affrontare la realtà e l’esistenza. Il cristiano possiede perciò un metodo nuovo di vita, che è reale tensione al coinvolgimento totale di sé con gli altri. La concezione dell’uomo come uomo nuovo, inaugurata da Cristo, è l’unica che risolve l’antinomia tra persona e società e permette anche di concepire in modo nuovo il pluralismo all’interno della Chiesa. Se la personalità cristiana si costituisce solo all’interno di un ambito di comunione, ne deriva che anche il pluralismo ecclesiale non può essere concepito come pluralismo di individui, ma fondamentalmente come pluralismo di Chiese particolari o di comunità.

La Chiesa universale infatti non è data dalla somma di tutti i cristiani riuniti in una grande diocesi, ma prima di tutto dalla comunione di tante Chiese particolari. Questa struttura si ripete anche all’interno delle singole Chiese particolari, dalle quali e nelle quali si realizza la Chiesa universale. Se il pluralismo ecclesiale è costituito in primo luogo da un pluralismo di comunità che hanno il loro momento genetico nella celebrazione dell’Eucaristia, è evidente che la tecnica del suffragio universale non può mai rappresentare il criterio esaustivo di espressione dell’opinione ecclesiale.

I consigli pastorali, diocesano e parrocchiale, e gli altri organismi di partecipazione si collocano nell’assetto e nella dinamica della Chiesa particolare, secondo la rinnovata disciplina canonica, espressione di quella ecclesiologia di comunione che ne costituisce l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio. Tutte le articolazioni sinodali anche delle diocesi si pongono come ambiti di comunione viva tesi a generare un giudizio comune sulla vita della comunità tutta, come contributo all’azione pastorale di cui il vescovo è responsabile ultimo. Si tratta di un servizio nella comunione, che recuperando una categoria biblica può essere sinteticamente chiamato diaconia. Il problema del funzionamento delle strutture consultive diocesane è perciò essenzialmente il problema della conversione a una simile concezione categoriale di esse. Da questa concezione del cristiano e della Chiesa come realtà di comunione si possono trarre alcune conseguenze.

Il primo compito del cristiano è quello di costruire la Chiesa, affinché attraverso di essa possa avvenire l’annuncio della salvezza al mondo. L’annuncio cristiano non può avvenire individualisticamente, è un annuncio di comunione generato da una comunione. La costruzione della Chiesa è il compito immediato al quale è chiamato indistintamente ogni cristiano, prescindendo da qualsiasi funzione ministeriale, perciò è il compito al quale è chiamato anche il fedele laico. Esso infatti non è costituito in quanto tale dalla sua indole secolare, ma dalla partecipazione «suo modo» alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. Costruendo la Chiesa il cristiano costruisce il mondo, lo anima, lo trasforma e redime perché la Chiesa è nel mondo.

L’operatività di un organismo decisionale consultivo, e perciò anche la sua forza di annuncio di comunione dentro la Chiesa particolare, non possono essere misurate in ultima analisi con un criterio di efficienza, anche se la tensione all’efficienza deve essere reale e totale. L’associazionismo e il parlamentarismo si esprimono e lavorano essenzialmente secondo una logica mondana di efficienza, la quale non mira solo a raggiungere risultati concreti, ma tende a controllare con criterio puramente razionale gli effetti del proprio sforzo.

L’efficienza è un valore umano che non può essere semplicemente trasposto in ambito ecclesiale, dove non è mai criterio di giudizio ultimo, perché la forza della proposta cristiana non dipende da una sapienza umana. Il criterio dell’efficienza è il prodotto di una logica di autoaffermazione e di potere. Questa logica mondana non può mai essere totalmente corretta da nessuna morale sociale o filosofica, perché solo il mistero della morte e resurrezione di Cristo è in grado di spezzare alla radice ogni categoria di potere, fosse pure umanamente molto equilibrata e morale. Anche la logica dell’interesse, che al pari di quella del potere, da cui deriva, muove e domina l’operatività mondana, non può essere eretta a criterio e sostegno del gesto cristiano.

L’interesse è superato e capovolto cristianamente a tutti i livelli, dal concetto di diaconia, la quale è servizio fatto nella gratuità: «Chi perde la propria vita per causa mia la troverà». La crisi dei consigli diocesani può essere più facilmente compresa come derivante dall’uso più o meno consapevole di criteri di efficienza e di interesse, anche se certamente occorre fare tutto il possibile perché quanti vi prendono parte si sentano pienamente protagonisti. Tuttavia l’unico criterio che salva il funzionamento e di conseguenza l’efficienza ecclesiale degli organismi consultivi può essere solo quello della gratuità, che è diaconia senza pretesa di nessun risultato tangibile immediato, personale o comunitario.

L’idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale. Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fondamentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall’alto, attraverso il Sacramento e la missione.

Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il collegio episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il vescovo rappresenta la diocesi; infatti è lui, e non uno dei consigli diocesani, a rappresentare la diocesi in seno al concilio ecumenico, né i consigli diocesani senza il vescovo, possono rappresentare i cattolici di una diocesi.

In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale. Non ci si può far salvare da un altro, come ci si può far rappresentare da un terzo nell’ambito economico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per procura. È per contro affermazione corretta il dire che il vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al concilio ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all’ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La traduzione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesiale quello di testimonianza.

Solo la testimonianza del vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto «deliberativo», in seno al collegio episcopale. Ne consegue perciò: da una parte che il rapporto tra le persone dentro la comunione non è riducibile a nessuna categoria giuridica civile — infatti la natura del diritto canonico è solo analogica a quella del diritto secolare — dall’altra che i consigli diocesani non sono organi rappresentativi nel senso parlamentaristico della parola. I membri degli stessi non rappresentano la fede di nessuno, ma la propria fede. Per analogia con il vescovo, ma solo per analogia, perché il loro gesto non ha la stessa forza vincolante, testimoniano la fede delle comunità dalle quali provengono.

Tutto questo comporta delle conseguenze. I membri dei consigli diocesani non sono rappresentanti parlamentari, ma semplicemente persone scelte, magari per elezione, per consigliare ed aiutare il vescovo, nel governo della diocesi. Ciò non toglie che la loro scelta non possa, anzi debba avvenire con criteri molto «rappresentativi», proprio perché il nesso del vescovo con le parrocchie e gli altri gruppi comunitari, organizzati o meno, deve essere stretto e funzionale. La loro funzione perciò non è quella di rappresentare democraticamente la fede degli altri e la loro prima diaconia è quella di realizzare l’esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio anche dentro l’ambito in cui devono svolgere il loro compito specifico.

La comunione è il principio formale della comunità cristiana, e di conseguenza anche di tutte le sue strutture e di tutti i suoi istituti giuridici. Il rapporto tra il vescovo e i fedeli non può essere risolto ultimamente in termini di controllo di potere, ma solo in termini di esperienza di comunione. Le forme di controllo introdotte nel corso della storia per contenere gli abusi di potere da parte della gerarchia, raramente hanno generato un’autentica esperienza di comunione cristiana.

Applicato ai vescovi il discorso di comunione implica un esercizio delle loro competenze entro un contesto di informazione e consultazione. La competenza consultiva dei consigli diocesani, introdotti dal concilio Vaticano ii, tende ad abbracciare tutti i settori della vita della diocesi e della missione della Chiesa. Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del vescovo e il fatto che certi rapporti e problemi esigono, per loro natura, di essere trattati con la dovuta discrezione. Si tratta di saper leggere intelligentemente le situazioni e la natura delle cose. Il potere discrezionale del vescovo è garanzia di comunione, perché esclude ogni forma di collettivismo meccanico.

[Fonte: “L’Osservatore Romano”]

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ZENIT Staff

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