di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 22 aprile 2009 (ZENIT.org).- Il dibattito sui problemi etici e scientifici del fine vita continua ad essere vivace. Qualche voce sembra lasciare spazio a qualche dubbio in merito alla legislazione in discussione in Parlamento, quasi a suggerire possibili aperture nei confronti del soggetto e dei suoi familiari per “contrattare” una eventuale interruzione di trattamento.
A livello nazionale l’associazione Scienza & Vita, con la benedizione del Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, sta per iniziare una campagna di “Uno, cento, mille incontri in ogni angolo d’Italia per prendere coscienza sui valori in gioco nella fase finale della vita, che non è mai disponibile ed è sempre unica e irripetibile”.
E’ questo l’impegno assunto dai presidenti delle associazioni locali di Scienza & Vita convocati d’urgenza a Roma per approfondire il contenuto del Manifesto “Liberi per Vivere”, lanciato il 20 marzo scorso e sottoscritto da 41 associazioni, movimenti e nuove realtà ecclesiali.
Per gettare maggiore luce su questi argomenti, ZENIT ha intervistato la dott.ssa Chiara Mantovani, Vicepresidente per il nord dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI).
Alimentazione e idratazione artificiale possono essere accanimento terapeutico?
Mantovani: La definizione di accanimento terapeutico è oggi molto discussa, ma è pur possibile delineare dei parametri scientificamente validi, sia in senso definitorio che concretamente applicabile nella pratica clinica.
Una azione medica, posta in essere seguendo le regole della diagnosi accurata, della scelta della terapia adeguata e della perenne vicinanza umana al paziente si pone già per questa metodologia nelle condizioni di non incorrere in quell’errore medico che è l’accanimento terapeutico. Esiste anche l’accanimento diagnostico, quando il medico prescrive esami strumentali inutili, pesanti per il paziente, magari sostitutivi di una sua incapacità di diagnosi clinica.
Ma escluderei che somministrare acqua e nutrienti nella forma assimilabile per il paziente possa configurarsi come un’azione inutile e/o sproporzionata; il mezzo usato, un cucchiaino pazientemente offerto o un sondino naso gastrico o posizionato direttamente nello stomaco (la cosiddetta PEG), non cambiano in nulla il significato dell’atto. Prescritto prima dalla necessità di consentire la vita che dalla tecnica medica.
Potremmo dire così: un parente di una persona incapace di alimentarsi autonomamente chiede ad un medico di indicargli, in base alle sue competenze, quali alimenti, in che forma e con quale frequenza deve dare al suo caro. E il medico risponde: il neonatologo e il pediatra scandiscono le tappe dell’allattamento con biberon e dello svezzamento, il geriatra e il nutrizionista identificano la soluzione della sacca di alimentazione.
Accanimento? No, se lo scopo per cui è prescritto viene raggiunto. Il bambino cresce regolarmente di peso? L’anziano non autosufficiente, o il paziente non cosciente o colui che comunque tra poco – per altre cause – morirà, mantengono l’omeostasi (ovvero l’equilibrio metabolico e elettrolitico necessario alla vita)? Bene, la “terapia” è adeguata.
Questo non è “accanirsi”, a meno che il verbo non voglia sottintendere che questo presidio si “intestardisce” a permettere la vita di qualcuno che si reputa meglio che morisse. Ecco il tranello semantico che mi sembra ancora non esplicitato: il vero soggetto della scelta non riguarda più il bene clinico del paziente, ma il giudizio sul valore della sua sopravvivenza.
La quale può essere ritenuta un danno (in Francia si è arrivati a legiferare sul “danno da nascita”) e perciò da evitarsi. Nulla a che vedere con la realistica accettazione di una morte che comunque sopraggiungerà. Certamente senza acqua e cibo si muore; e allora, se questo mezzo viene volontariamente sospeso anche quando ancora raggiunge lo scopo di alimentare e idratare, non è forse scegliere la morte? Questa è eutanasia, comunque la si voglia aggettivare. Senza dimenticare che anche le problematiche economiche, con cui ci dobbiamo oggi confrontare, invitano più facilmente all’abbandono piuttosto che all’accanimento terapeutico.
Quale significato, dunque, bisogna attribuire alle dichiarazioni contenute nella Carta degli Operatori Sanitari e nella dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1° agosto 2007?
Mantovani: Come sempre i documenti magisteriali sono ricchissimi (oserei dire sovrabbondanti, a misura della carità che li anima: amore senza misura!) di indicazioni non solo etiche ma anche tecniche. Bisognerebbe sempre leggerli nella loro articolata complessità e si scoprirebbe che il loro intero significato emerge ad uno sguardo paziente, non affrettato.
Talvolta si è tentato di trovare in essi una qualche legittimazione alla sospensione di idratazione e nutrizione, ma non ve ne è traccia. Ribadiscono il dovere di offrire a tutti ciò che è necessario per vivere e se contemplano eccezioni a questo dovere lo fanno solo qualora subentri un dovere più grande, quello di evitare un peggioramento delle condizioni del paziente.
La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione.
Mi sembra da rimarcare la competenza sottesa in questa affermazione, che prende in esame anche la sofferenza legata alla morte per inedia. Si ribadisce anche quale sia la finalità propria: procurare idratazione e alimentazione, non certo “guarire” dalla malattia.
Recenti studi hanno dimostrato che acqua e nutrienti, in condizioni di essere utilizzati dall’organismo, non influiscono allungando la durata della vita ma solo mantenendo il relativo “benessere” del paziente. Certamente, al contrario, la loro sospensione accelera – quando non causa direttamente – la morte e dunque si configura come causa determinante di essa.
C’è differenza c’è tra “curare” e “prendersi cura”?
Mantovani: Rispondo in modo del tutto personale, ben sapendo che è comunque un sentire ampiamente condiviso tra colleghi: curare è uno dei modi di prendersi cura. Fare del mio meglio per offrire una soluzione al problema medico di un essere umano non è altro che applicare la competenza scientifica alla sofferenza di un mio simile.
Dunque, in ultima istanza e laicamente parlando, prendersi cura di me stesso trova il suo naturale compimento nel curare gli altri, quando sono ammalati. Posso farlo ottenendo risultati (guarigione) in alcuni casi; sempre offrendo sollievo e conforto, grazie non solo alla mia empatia ma anche a precise conoscenze e tecniche che, pur non assicurando la guarigione, tuttavia raggiungono lo scopo di alleviare il dolore non eliminabile.
Talvolta si parla di “cure palliative” come di rimedi da espletarsi quando le “terapie” non sortiscano effetti risolutivi. Reputo questa prospettiva ampiamente riduttiva, non solo delle cure palliative, ma anche della vera missio medica. Se si fosse considerata la guarigione come l’unico traguardo degno di essere perseguito, la medicina non sarebbe neppure nata. Basilio di Cesarea e sua sorella Macrina , Camillo de’ Lellis e Madre Teresa, Albert Schweitzer e Carlo Urbani sarebbero stati a casa loro, se ricercare la soluzione alle malattie fosse stata solo una questione di teoria o tecnica medica.
Ogni terapia adeguata è palliativa, ogni buona terapia è un sollievo. E ogni sollievo è terapeutico, guarisce qualcosa. Se quando curo non mi pre
ndo cura, potrò al massimo essere un erogatore di prestazioni, non ancora un medico.
Libertà di cura, autodeterminazione del paziente, professionalità medica: come farli andare d’accordo?
Mantovani: Con una scienza medica rispettosa di una antropologia adeguata alla intrinseca preziosità di ogni essere umano. La libertà di cura è la legittima partecipazione del soggetto ammalato alla scelta fra opzioni terapeutiche, una volta che sia stato messo nelle condizioni di comprendere possibilità e limiti delle terapie stesse.
L’autodeterminazione è una trappola semantica, avendo oggi acquisito – il più spesso – il significato di rivendicazione del diritto di disporre del proprio corpo in modo slegato da un valore oggettivo, appoggiato alla sola soggettività. Né la libertà di cura, né l’autodeterminazione possono giustificare (rendere giusta) la scelta tra vita e morte. Che è concretamente realizzabile con il suicidio, ma che non può essere imposta nella sua esecuzione ad altri.
La professionalità medica è per sua natura in accordo con il rispetto della libertà e della dignità umana e viene meno proprio quando si stacca dalla propria competenza per accondiscendere a desideri o imperativi altrui.
La dignità e la preziosità di ogni vita umana non sono a parametro variabile, non cambiano a seconda dello stato di salute o malattia, e neppure a seconda della percezione soggettiva. Il medico e l’operatore sanitario sono sempre le sentinelle che avvisano del bene e del buono che c’è anche quando non si vede ancora (vita prenatale), quando si fa confuso nel buio del dolore, quando si scorge solo con acutezza sapienziale di vista.
Staremmo freschi se legassimo il valore e la dignità della vita umana al benessere, all’assenza di dolore, alla utilità sociale: saremmo sì, allora, nello stato etico così impropriamente evocato recentemente. Non diversamente da così la pensava Francis Galton. Le conseguenze di tale pensiero sono state giudicate a Norimberga.
Libertà di cura, auto responsabilità del paziente (mi piace di più, come termine, dell’autodeterminazione: chi può davvero autodeterminare se stesso, dal momento che non è causa prima di sé?) vanno d’accordo benissimo con la professionalità medica quando guardano tutte nella stessa direzione: il bene dell’uomo nella precarietà della vita terrena.