ROMA, giovedì, 30 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal prof. Gaetano Quagliarello, presidente della Fondazione Magna Charta, in occasione del convegno sul tema “Oltre l’ideologia della crisi”, organizzato a Roma dalla Fondazione Magna Charta (www.magna-carta.it) il 21 luglio scorso.
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In un’enciclica, sempre, vi sono aspetti eterogenei che derivano dalla vastità di orizzonti, sia tematici che geografici, della missione della Chiesa. E’ impossibile dunque esprimere un’assoluta convergenza, così come un completo e radicale rifiuto. Ogni enciclica, però, ha un suo centro ordinatore che la caratterizza, la mette in relazione con i precedenti documenti della medesima natura e le assegna una specifica cifra culturale, sia rispetto al momento contingente che alla più complessiva storia dell’umanità.
Caritas in veritate non sfugge a questa lettura. Non vi è dubbio che, di fronte alla più grande crisi economico-finanziaria dal 1929 a oggi, l’enciclica rappresenti una chiave di lettura del rapporto tra cristianesimo e capitalismo, non a caso da lungo tempo attesa. L’argomento, d’altra parte, non può essere ridotto a un tema di stretta attualità: esso, più o meno direttamente, attraversa la riflessione dei padri dell’economia classica, dalle maggiori aperture che si incontrano in Adam Smith e nella sua concezione del mercato come luogo che sa suscitare solidarietà e fiducia, alle chiusure di Mandeville e della sua Favola delle api; dalle radicali affermazioni di incompatibilità tra i due sistemi di pensiero che si incontrano nelle pagine di Socialismo di Von Mises, alle convincenti analisi etimologiche che le smentiscono di Angelo Tosato.
Al cospetto della crisi e della sua durezza, in molti avrebbero auspicato una enciclica di rinnovata condanna nei confronti del modello capitalistico, e di rilancio di quelle letture della dottrina sociale della Chiesa di stampo pauperistico o, quantomeno, scettiche nei confronti dello sviluppo e delle sue potenzialità. Costoro sono rimasti delusi. Il testo di Benedetto XVI, infatti, non solo rigetta qualsiasi critica radicale del capitalismo, ma realizza una conciliazione tra il cristianesimo e i principi dell’economia classica ancora più profonda e più “resistente” di quella che si incontra nelle encicliche a sfondo sociale del suo predecessore: la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus. In Caritas in veritate, a ben vedere, i motivi di critica del sistema capitalistico, che pure non mancano, rispondono a una logica interna propria di chi quel sistema non solo lo ha accettato ma ha anche operato uno sforzo serio per comprenderlo al fine di migliorarlo.
L’analisi è inserita in una cornice epocale che Benedetto XVI ricostruisce stabilendo una continuità e una rottura. La continuità, assicurata dal principio che lui stesso definisce di fedeltà dinamica, è quella con la Populorum progressio di Paolo VI. Vi sono alcune ragioni tematiche per affermare questa congiunzione. Ma vi è soprattutto una più profonda ragione analitica che attraversa l’intero pontificato di Benedetto XVI. Paolo VI, infatti, è il Papa del Concilio. E Benedetto XVI, richiamandolo, vuole per l’appunto riaffermare come il Vaticano II non costituisca affatto quel momento di svolta e di rottura a lungo accreditato dalle correnti cattoliche cosiddette “sociali”, ma che, nella storia della Chiesa, vi sia una continuità più profonda che assorbe anche la lettura e l’interpretazione del Concilio. Non a caso, quasi ad ogni riferimento alla Populorum progressio ne corrisponde uno che richiama la Rerum novarum di Leone XIII.
A fronte di tale continuità interna alla Chiesa, l’enciclica coglie in profondità le conseguenze di lungo periodo che sono derivate dalla rottura dell’ordine bipolare: conseguenze che in realtà solo oggi, dopo vent’anni, stanno sedimentando i loro effetti consentendo analisi non più meramente impressionistiche. In questo documento, vi è una considerazione affatto pregiudiziale del cosiddetto fenomeno di globalizzazione, assunto come occasione da governare, in particolare per una riprogettazione dello sviluppo mondiale, che fin qui solo in piccola parte è stata colta. Certo la globalizzazione – come ci ricorda il Pontefice – presenta grandi difficoltà e pericoli, di fronte ai quali però la risposta non può e non deve essere il ritorno a forme di controllo statalista e di chiusura autarchica. Occorre piuttosto “prendere coscienza di quell’anima antropologica ed etica che spinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale”.
Ed è proprio sulla base di tali osservazioni che nell’enciclica si ritrova anche una riconsiderazione del ruolo degli Stati, ai quali circa quarant’anni fa la Populorum progressio assegnava ancora compiti centrali e che ora – si ammette in Caritas in veritate – non sono più in grado di fissare le priorità dell’economia né di governarne l’andamento. Da qui discendono analisi oggettive ed equilibrate sull’inevitabile ridimensionamento delle reti di sicurezza sociale, nonché sulle opportunità e i rischi legati a una più marcata mobilità lavorativa, conseguenza diretta del processo di globalizzazione. E tutto ciò, come si vedrà, senza indulgere verso frettolose e unilaterali “liquidazioni” dello Stato contemporaneo e del suo ruolo.
Questo nuovo contesto epocale, per essere affrontato, nella sfera economico-sociale così come nel più ampio ambito delle relazioni umane, porta il Pontefice a sottolineare con ancor più forza rispetto al passato il nesso necessario tra la libertà dell’uomo e la sua responsabilità. Il tema è proposto in numerosissimi punti dell’enciclica: ancor più che dalla legge, la libertà che si può esercitare nella complessità del nuovo ordine mondiale deve essere temperata, aiutata, esaltata dalla responsabilità. E questo atteggiamento porta con sé il rifiuto di una spasmodica ricerca d’ampliamento della sfera dei diritti, i quali – ribadisce Benedetto XVI – valgono laddove trovano dei corrispondenti doveri.
In questo equilibrio va ricercata la differenza implicita tra individualismo e centralità della persona. L’individualismo presuppone la ricerca di un allargamento della sfera dell’autodeterminazione personale che prescinde da ogni fondamento, dalla considerazione degli altri e persino dai dati stessi della realtà inevitabilmente intrisi di una tradizione che si può certo criticare e innovare ma non ignorare. La centralità della persona, al contrario, presuppone la responsabilità nei confronti degli altri e in particolare nei confronti delle comunità all’interno delle quali la vicenda umana si inserisce. Tale relazione, in ogni caso, non cancella l’autonomia dell’individuo – come invece nella comunità proposta dai totalitarismi del XX secolo – perché “il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto”.
E’ sulla base di questa analisi delle novità introdotte dal XXI secolo che vanno letti i brani dell’enciclica specificamente riferiti al sistema di libero mercato. Innanzitutto vi si afferma il nesso inscindibile tra libertà economica e sviluppo umano: “Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata”. Quando il progresso non si ideologizza, scadendo in progressismo, esso racchiude la possibilità di un maggior benessere diffuso e, per questo, va ricercato con fiducia. Da qui, il definitivo “sdoganamento” del profitto: esso non è il fine assoluto del processo economico, ma ne è comunque un elemento inevitabile; non può dunque considerarsi lo sterco del diavolo, ma è bene che venga temperato dal ruolo della carità che implica il dono e la gratuità. Tale compito spetta alle singole persone, ed è per questo ben diverso dal tentativo di raggiungere la giustizia sociale imbrigliando il profitto all’interno di
una organizzazione statuale che di fatto giunga a negarlo.
Vi è nell’enciclica, insomma, la consapevolezza che il mercato non è un luogo selvaggio: ha delle regole sulle quali si può agire. Da qui, la volontà di rispettarne la logica di fondo, ma anche di condizionarne il funzionamento, affinché la centralità della persona possa affermarsi in tutte le sue fasi. Si cerca insomma di agire sui presupposti del processo economico per stabilire la centralità della persona, abbandonando la spasmodica ricerca di una tanto ideologica quanto utopistica uguaglianza sociale assoluta che stabilisca un’astratta perfezione. Anche per questo, in Caritas in veritate la povertà viene trattata come un’opportunità di sviluppo, anziché essere cristallizzata come il risultato di un meccanismo iniquo. E, in particolare nelle parti consacrate alla cooperazione internazionale, vi è un chiaro rigetto dell’assistenzialismo.
Questo tentativo di influenzare le regole del mercato in tutte le diverse fasi del suo ciclo porta da una parte a sollecitare una positiva e progressiva contaminazione tra i diversi tipi di impresa, senza erigere muri e barriere tra profit e non profit. E’ evidente che le diversità strutturali fra le imprese non possono annullarsi, ma esse – secondo la Caritas in veritate – devono sempre più integrarsi e scolorirsi. Così come – cosa ancora più importante – questa enciclica crea integrazione anche tra l’agire economico e l’agire politico. Viene meno insomma quella distinzione che a lungo ha legittimato l’intervento politico del cosiddetto riformatore cattolico. In Caritas in veritate non c’è più un “prima” e un “dopo”: non c’è il processo capitalistico che provoca ingiustizie e il riformatore cattolico che successivamente deve agire per mettervi riparo. E, conseguentemente, viene meno il ruolo dello Stato come grande distributore di equità. L’equità possibile, il rispetto per la persona, la capacità di sfuggire ai corporativismi che per Benedetto XVI hanno preso eccessivo spazio nel mondo sindacale, devono essere ricercati fin dalla definizione del mercato come luogo di incontro, di reciproca fiducia, di vantaggiosa commutazione. A questo deve tendere l’operato del politico ispirato dai principi cristiani. Ed è in questo compito di regolatore sulla base del primato della persona che lo Stato ritrova una sua funzione, anche a dispetto del mito dell’autonomia contrattuale come sinonimo di libertà personale.
Infine, a fronte di questa nuova impostazione del confronto con il mercato, in controtendenza può segnalarsi l’auspicata costituzione di un’autorità politica mondiale per il governo dei problemi globali. In teoria, tale concentrazione di potere si pone in contraddizione con il principio di sussidiarietà più volte richiamato dalla stessa enciclica. In pratica poi, la proposta potrebbe risolversi in un rafforzamento del potere dell’Organizzazione delle Nazioni Unite alla quale, pure, l’enciclica non lesina delle critiche. Ma se la richiesta di tale autorità implica, più pragmaticamente, un adeguamento del sistema dei controlli per evitare una degenerazione della finanza prodotta anche dalle politiche interventiste degli Stati nazionali, evidentemente la contraddizione si attenua e diviene il prezzo che ogni liberale deve esser pronto a pagare di fronte a ciò che nel mondo è accaduto a causa dello sviluppo dopato che, a partire dall’amministrazione Clinton, è stato provocato dalla politica americana sui mutui per sostenere il mercato abitativo.
Insomma, se il liberalismo ha in comune qualcosa con il cristianesimo, questo è innanzitutto il saper non mettere la testa sotto la sabbia al cospetto delle storture del mondo, il cercare soluzione non ideologiche per risolvere i problemi, il saper correggere la rotta pur rispettando una linea di sostanziale continuità. Ed è proprio lungo questa strada che l’enciclica Caritas in Veritate fissa un proficuo punto di incontro.